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  Racconti  »  I racconti del nonno  »  Giorni di scuola 28/01/2006
 

- Giovanotto, domani ti devi alzare presto: è il tuo primo giorno di scuola.

- Nonno, ci sei andato anche tu, a scuola, vero?

- Sì, ho fatto le cinque classi delle elementari e per l'epoca era già tanto, perché per studiare bisognava essere ricchi.

- Dai, raccontami dei tuoi giorni di scuola.

- Ci proverò, perché devo andare tanto indietro nel tempo e ricordare non è sempre facile…

 

Ricordo il primo giorno di scuola, perché è legato ad un episodio che mi si è impresso nella mente e che tanto vorrei scordare, ma non ci riesco.

Ero emozionato, come lo sono anche oggi tutti i bambini. La mamma mi aveva vestito abbastanza decorosamente, con quel poco che avevo. Pensa, era settembre e portavo ai piedi le scarpe invernali, perché non ne avevo altre, ma ero felice: sarei stato insieme a degli altri bambini, avrei imparato a leggere, a scrivere…

Il fabbricato della scuola era fatiscente, con i muri corrosi dall'umidità, e le aule erano cameroni scrostati, con i vetri delle finestre rattoppati alla meglio, riempiti di banchi di legno tarlati e segnati dal tempo. Rammento che dapprima ci fu l'appello e poi ad ognuno fu assegnato il suo posto: io capitai nello stesso banco di Cescone, un bambinone obeso che quando si sedeva faceva scricchiolare l'asse del sedile. In seguito, sarebbe diventato famoso per le sue somarate, certamente non volute, perché, purtroppo per lui, le dimensioni del suo cervello erano inversamente proporzionali a quelle del suo corpo. Cescone ci avrebbe fatto ridere con le sue risposte idiote durante le interrogazioni, e con quel suo faccione che sbucava da dietro la lavagna dove lo cacciava la maestra, ma da bambini ingenui non potevano sapere il male che gli avremmo fatto: la sua diversità, così evidente, così corrosiva, lo avrebbe portato di lì a qualche anno al drammatico epilogo della sua vita, a quel suicidio che avrebbe posto fine alla  sventura di non essere come gli altri.

La maestra! Me l'ero sognata come una fatina dai capelli biondi ed invece era una vecchia e acida zitella che di frequente accompagnava il suo stridulo parlare con scapaccioni, i cui segni ti restavano per giorni. Certo che se l'insegnante avesse dovuto dare agli allievi un esempio di vita e questi l'avessero seguito, le risse, le scazzottate, sarebbero state all'ordine del giorno.

E bastava niente per prendersi un ceffone: un pelo sul pennino che sbrodolava d'inchiostro il quaderno, una domanda innocente volta a comprendere meglio una lezione, e persino l'inderogabile necessità del gabinetto.

Tuttavia, quel primo giorno sembrava tutto bello e sentivo dentro di me l'orgoglio di essere uno scolaro. Venne anche il direttore a farci un discorsetto di benvenuto che sembrava di commiato, tanta era la fretta di lasciarci: l'uomo aspirava da tempo ad una posizione migliore, a dirigere una scuola frequentata solo dai figli dei nobili e della ricca borghesia, e non un povero istituto di campagna dove ogni tanto si doveva ricorrere alla disinfestazione dai pidocchi.

In verità non ci fu una prima lezione, ma un più volte ripetuto decalogo di comportamento: quello che si doveva fare (ed era molto), quello che non si doveva fare (ed era ancor di più) e quello che si poteva fare (in pratica niente).

Lo scopo evidente era quello di non permettere alla povera gente di aspirare a migliorare; c'era solo da stare zitti e sopportare: così nella scuola ed altrettanto nella vita.

Verso metà mattina, accadde il fatto. In classe c'era un biondino, un bambino minuto, dagli occhi chiari stanchi ed infossati; stava in prima fila ed ascoltava assente, quando improvvisamente reclinò il capo ed il fianco su un lato, cadendo dalla sedia. La maestra gli si avventò contro, pensando che dormisse, ma…

- Mio Dio, ma il bimbo sta male! Presto, qualcuno, chiamate qualcuno! - Ed in due o tre corsero a chiamare il bidello, un vecchio che, quando non era ubriaco, masticava in continuazione tabacco di un fetore insopportabile, tra frequenti sputacchiate che non sempre arrivavano all'apposito recipiente.

Questi venne ciabattando, con aria insonnolita, guardò il bimbo:

 - Non sta bene - sentenziò come un medico di fama, assumendo un'aria importante, come se la sua diagnosi potesse essere partorita solo da una mente superiore.

- Che facciamo?

- Lasci fare a me, signora maestra! Lo porto a casa dai suoi: un po' di riposo, qualche scapaccione ben dato e domani – e sottolineò il domani, soffermandosi con aria austera – domani sarà di nuovo qua, vispo e fresco come un fringuello.

E così il biondino fu portato a casa, ma il giorno dopo non venne a scuola, e neppure il successivo.

Cominciai a temere il peggio e decisi di andare a trovarlo.

Abitava in una vecchia casa, al terzo piano; le scale erano buie e maleodoranti di zuppe ricotte e di urina di gatto.

Bussai alla porta: venne ad aprirmi un uomo   dal volto scavato e dolente, gli occhi rossi e le labbra tremanti. Non dissi nulla, perché anche se ero un bambino certe cose le capivo. C'era un altro uomo nella stanza, ben vestito e con una borsa: il medico.

- Se mi chiamavate prima, forse potevo fare qualche cosa, ma ora è evidente che è impossibile: non posso richiamare in vita un morto!

- Dottore, non l'abbiamo chiamata prima perché non abbiamo soldi per pagarla; io faccio il bracciante e non lavoro tutto l'anno, e non sempre si mangia; quando ho visto che respirava    affannosamente, la disperazione mi ha fatto dimenticare il problema del denaro ed allora sono corso da lei…

- Non voglio niente, voglio solo andarmene, uscire, respirare l'aria fresca del mondo che vive… - E uscì.

- Vieni a vederlo, sembra che dorma sereno - mi disse allora il padre, e notai che c'era un'altra camera. L'uomo mi fece strada, poi sostò sull'ingresso facendomi cenno di entrare. Io non ebbi il coraggio e mi affacciai soltanto: nel buio, appena rischiarato dalla tremula luce di una lampada a petrolio, c'era una donna prona su un letto che abbracciava un fagottino. Corsi via piangendo: era stato il mio primo incontro con la morte.

Il giorno dopo tutta la classe andò al funerale. Prima in chiesa, dove il parroco recitò brevemente alcune litanie in latino e non dedicò più di un minuto per ricordare questo sventurato figlio della miseria. Poi, tutti al cimitero, con la piccola cassa di legno scadente su un carretto spinto dal padre. Fu calata nella nuda terra e mentre la fossa veniva ricoperta il bidello che, quando era ubriaco, ragionava meglio di quando era sobrio, ebbe solo a dire:

 - Vai, piccolo, dove non avrai più da soffrire! Che schifo di mondo, questo.

Nemmeno un fiore, ma semplicemente una piccola croce con impresso, a inchiostro, il nome ed il cognome: poche lettere che, in breve, le piogge dell'autunno e il freddo dell'inverno avrebbero cancellato.

 

 
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