Morire
in carcere
di
Ferdinando Camon
Quotidiani
locali del Gruppo "Espresso-Repubblica" 4 nov. 2014
Ci sono articoli che si scrivono con sofferenza e vergogna. Come questo. Perché
si parla dello Stato, la sua Giustizia, il modo in cui tratta i suoi cittadini.
E non si riesce a scacciare il sospetto che lo Stato collochi se stesso al di
sopra e al di fuori delle leggi. Stavolta, chiamato a risponderne in tribunale,
si sarebbe autoassolto. Il reato di cui è sospettato è l'omicidio di un detenuto.
Le domande sono: il detenuto è stato o non è stato picchiato in carcere?
Cos'hanno visto e testimoniato i compagni di prigione? Perché in pochi giorni
di cella ha perso sette chili? Dicono che è caduto per le scale, ma come mai ha
le occhiaie blu, come un pugile picchiato? E ferite varie? Da morto aveva un
litro e mezzo di orina in vescica, dunque non orinava da molte ore? E come mai?
Il modo nebuloso di procedere da parte della Giustizia è quello di una
corazzata che, sotto attacco aereo, sgancia i fumogeni e si nasconde, non si sa
più dov'è. Per vedere dov'è, bisogna dissolvere i fumi. Qui bisogna tornare
all'essenziale. Che è questo: un cittadino è stato arrestato e chiuso in
carcere e in carcere è morto. Lo Stato dice di non sapere come e perché. È inaudito.
Il carcere non può essere un mattatoio. “In carcere” vuol dire “sotto custodia
dello Stato”. Il custode deve sapere cosa succede al custodito. Il corpo del
prigioniero nei pochi giorni di carcere s'è riempito di lividi, ferite, ematomi
e fratture. Le spiegazioni che lo Stato fornisce sono inverosimili. Dice che il
prigioniero è caduto per le scale, ma da quando in qua una caduta per le scale
spacca le costole, spappola la vescica, taglia i muscoli, e scava le occhiaie?
Va subito detto che i motivi per cui è stato arrestato Stefano Cucchi sono
giusti. Stava spacciando, aveva appena venduto una bustina di hashish, e in
tasca ne aveva altre 12 di hashish e 3 di cocaina. Trovo sorprendente la
proposta del sindaco di Roma, Ignazio Marino, di dedicargli una strada della
capitale. Se dedichiamo strade e piazze agli spacciatori, non resterà neanche
una viuzza per i benefattori, gli eroi, i geni, i santi, gli artisti. Non
possiamo restar chiusi in questa morsa: da una parte la santificazione,
dall'altra l'ammazzamento. Bisogna rifiutare l'una e l'altro, per chiedere
un'altra cosa: giustizia. Può darsi che questo o quel poliziotto, questo o quel
medico non sappia, personalmente, cos'è successo, chi è responsabile di quella
morte. Ma l'istituzione ospedaliera e l'istituzione carceraria lo sanno. Qui si
tratta di uno di quei casi, non rari in Italia, in cui un ramo dello Stato, la
Giustizia, deve pronunciarsi sulle colpe di altri rami dello Stato, la Polizia
e la Sanità. Cioè: lo Stato deve giudicare se stesso. Il sospetto che tenda ad
assolvere per autoassolversi è fortissimo. Vorremmo tutti che fosse un sospetto
palesemente infondato e insostenibile. Invece secondo le indagini tre agenti
avrebbero abbattuto a terra il detenuto per poi colpirlo con calci e pugni (perfettamente
compatibili con le ecchimosi riscontrate sul cadavere). Tre medici avrebbero
visto le condizioni del detenuto, bisognoso di cure immediate, e non lo
avrebbero curato. Lo ammettono, giustificandosi con la tesi che il malato non
voleva esser curato. In primo grado sono state pronunciate condanne a vari anni
per queste colpe. E la conclusione dell'appello, che assolve tutti con una
formula che riecheggia la vecchia “insufficienza di prove”, non è liberatoria
per nessuno, perché qui si tratterebbe di un crimine commesso nelle sedi dello
Stato da uomini dello Stato, e dunque tocca allo Stato fornirci le prove che
quel crimine è stato commesso o non è stato commesso. Uno Stato che dichiara di
non saperlo non funziona bene. In casi come questo, dove vengono infranti
diritti umani, bisognerebbe che intervenisse l'Europa, sollecitata, per imporre
la prevalenza di quei diritti. È già successo. Fossi l'avvocato della famiglia
Cucchi, mi rivolgerei all'Europa. Ma se arriviamo a questa conclusione, però,
che smacco per l'Italia! (fercamon@alice.it)
www.ferdinandocamon.it