Siamo alla disperazione
di Ferdinando Camon
Quotidiani locali del Gruppo "Espresso-Repubblica" 28 dicembre
2014
Per un profano di economia, come il sottoscritto, il lato sorprendente di
questa crisi, più lunga per noi italiani che per gli altri, è che non ci siamo
immiseriti tutti: tra noi ci sono anche quelli che si sono arricchiti. Siamo
entrati nella crisi con una società dislivellata, con
grande distanza tra ricchi e poveri. Ne usciamo (dicono che quello che viene
sia l'anno buono, ma in ogni caso faremo qualche passettino, tanto da
sbloccarci, non certo una corsa) con dislivelli maggiori: quelli che prima
della crisi guadagnavano di più, in stipendi o pensioni, con la crisi han
guadagnato ancora di più. Chi stava bene sta meglio, chi stava male sta peggio.
Non è una società viva e vitale. Una società è viva e vitale quando, nell'arco
di una generazione, una fetta di quelli che hanno senza meritare perdono, e una
fetta di quelli che meritano senza avere ottengono. Ebbene, non è la nostra
società. La nostra società ha ucciso la meritocrazia. E la meritocrazia è la
chiave che apre il futuro e il fuoco che accende la speranza. Dunque: siamo un
popolo senza futuro e senza speranza.
La morte della speranza si sente parlando con tutti, nonni o padri o figli. I
nonni ricordano le loro tribolazioni, quando mancava questo e mancava quello,
in casa faceva freddo, non c'era riscaldamento, c'era meno cibo sulla tavola,
meno soldi in tasca, meno beni di consumo, però si passava da un mese
all'altro, da un anno all'altro con un pensiero in testa: “Andrà meglio”.
Adesso stiamo giusto passando da un anno all'altro, e quel pensiero in testa
non l'abbiamo. I padri fanno studiare i figli più a lungo che possono (perché
lo studio è anche un parcheggio) e i figli studiano molto (succede sempre così,
nelle condizioni di difficoltà: gli studenti si applicano, i grandi lavativi
spariscono), ma già dalle scuole medie superiori si domandano: “Cosa faremo da
grandi?”. E rispondono: “Andremo a Londra”.
Stiamo creando una giovane generazione di
emigranti, anche tra gli acculturati. Dunque noi, generazione dei padri e dei
nonni, abbiamo fallito.
La società bloccata sta insieme con una politica bloccata: siamo una repubblica
da 70 anni, e non abbiamo ancora messo a punto un sistema elettorale decente
con cui andare a votare. Proporzionale? Maggioritario? Liste bloccate?
Preferenze? Dal dopoguerra ad oggi, nel passare da un sistema elettorale a un
altro, abbiamo sempre peggiorato. In questo momento abbiamo forse il peggior
sistema elettorale dei 70 anni. Di solito, quando non si riesce a inventare una
cosa necessaria, e gli altri ce l'hanno, la si copia. Ma noi non riusciamo né a
crearla, una buona legge elettorale, né a copiarla. Appena è passata una tornata
elettorale, e abbiamo un nuovo governo, ci domandiamo se ci rappresenta o no.
Di solito la risposta è “no”. Anche adesso. Come non sappiamo scegliere i
politici (con l'attuale sistema elettorale, sono scelti dai partiti), così non
sappiamo scegliere e premiare i meritevoli nei lavori e nelle professioni, non
sappiamo bandire un'asta, non sappiamo far funzionare i processi. Certo, molte
aste e molti appalti sono banditi e realizzati in maniera corretta, ma in una
buona società dovrebbero esserlo tutti, e così non è. Risultiamo, all'interno e
all'estero, tra di noi e di fronte al mondo, una società corrotta. L'opinione,
sparata in prima pagina dai grandi giornali inglesi e americani, è che la
corruzione non si manifesta nella gestione di qualche città del Sud
notoriamente infiltrata dalle organizzazioni criminali, ma decide investimenti
enormi anche a Venezia, a Milano e a Roma: come dire, è il sistema che è
corrotto, la nazione. Non si tratta di una banda di corrotti in questa o quella
città, si tratta della società, nel suo insieme. E non è neanche questione di
una parte politica o dell'altra, ma del sistema politico, di destra come di
sinistra. In questo momento essere italiano, palesarsi come italiano, in giro
per l'Europa, non è onorevole. C'è da vergognarsi. Siamo un paese molto
visitato dai turisti, ma in questi giorni, da qualche mese in qua, c'è da
sperare che gli stranieri a zonzo per le nostre magnifiche città non leggano i
nostri giornali, perché fin dalle prime pagine s'imbattono in due ordini di
notizie: la corruzione crea uno scandalo dopo l'altro, e il sistema giudiziario
non riesce a far giustizia. Siamo una società dove la giustizia non è l'arma
dei giusti contro gl'ingiusti, ma degl'ingiusti contro i giusti. Andare in
processo non è la minaccia di chi ha ragione e vuole avere giustizia, ma di chi
ha torto e vuole insabbiare tutto. Non sappiamo far partire i processi, e non
sappiamo farli funzionare. Non sapendo far funzionare i processi, non siamo in
grado di punire la corruzione. Ci vorrebbe una leggina semplice semplice, del tipo: “Le sanzioni penali e civili, per i
reati di corruzione commessi dalla o con la pubblica amministrazione,
s'intendono raddoppiate”. Ma neanche Renzi ha pensato
a una formula del genere, ci s'è messo di buzzo buono e ne ha inventata una
cavillosa ed evanescente, che lascia le cose com'erano. La mancanza di
giustizia è il male principale della società, che avvelena tutta la vita.
Vedere una buona volta un grande corrotto o corruttore realmente condannato e
punito! Succede invece che i grandi corrotti o corruttori, per effetto di quel
“grandi”, incutono rispetto ai giornali e alle tv, durante i processi e dopo le
condanne, che comunque vengono ritardate all'infinito, e perfino, se ci vanno,
in carcere. Noi siamo la società del perdonismo, delle star e del gossip: se
stasera Carminati va in un ristorante, fioccano le
prenotazioni. In questo popolo dalla grande storia si nascondono sacche di
protesta violenta, anche armata, che possono esplodere da destra o da sinistra:
il recente passato ce lo ricorda. L'anno si chiude con gli arresti di “Aquila
Nera”. Eppure mai un leader di governo ha avuto tanto favore popolare come
questo. È l'unica, vera, grande fonte di speranza. Forse irrazionale. Ma o
funziona questa o siamo fritti.
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