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  Editoriali  »  Il virus, amico, nemico dell'uomo, di Lorenzo Russo 30/03/2020
 
Il virus, amico, nemico dell'uomo

di Lorenzo Russo





Di lui si parla ogni giorno. Le opinioni sul come contrastarlo sono tante, a partire dal non uscire di casa, dal tenere almeno due metri di distanza da chiunque si incontri, fino dall'infischiarsi di tutte le norme protettive, emesse dal governo su parere di alcuni specialisti, purtroppo non convincenti e nemmeno convergenti tra di loro.

Il virus è come un ospite non voluto, e come tale va combattuto ad oltranza.

Questo ce lo impone la forza della sopravvivenza. È lei che ci incita a combatterlo ed ognuno lo fa seguendo le proprie convinzioni ed attitudini.

Considerando il fatto che la vita è un campo di battaglia, mi viene facile affermare, che solo chi è preparato a combatterla ha anche possibilità di vincere.

In questo senso, al perdente rimane la gloria di essere vissuto per lasciare un'impronta tangibile del suo vivere. Onore quindi a colui che in questo senso è vissuto.

Vincitori e vinti dovrebbero sempre onorarsi alla fine di ogni combattimento, nella percezione che senza l'uno non c'è l'altro, perchè così è la vita nella sua essenza vitale.

Da qui è comprensibile affermare che il virus è nemico e amico, nel senso che con lui bisogna imparare a vivere per sopravvivere, nel senso che egli rappresenta un richiamo serio e non più differibile a non oziare negli svaghi e piaceri esagerati.

È lui che ci scuote dal letargo, da quando si vive la vita nella superficialità della presunzione di poterla vivere nel piacere, è lui che ci avvisa che è tempo di lottare per guadagnarsi la vita.

Purtroppo i combattenti sono diventati scarsi, di numero e qualità.

Oggi si riscontra un voler vivere sempre più a lungo, per cui ci si lascia torturare dai bisturi e dagli altri attrezzi e apparati chirurgici -creati appositamente anche per guadagnarci sopra di più- come anche si sopportano le lunghe, noiose e costose convalescenze per allungare la vita di qualche mese o anno.

Da dove viene questo atteggiamento, se non dalla mancanza della spiritualità, cioè del rapporto tra l'uomo e il trascendente, inteso come collegamento con tutto ciò che è fuori dalla nostra dimensione ma parte fondamentale del tutto esistente.

La mancanza di questa connessione crea il timore della morte, nel credo che con essa finisca tutto, nella constatazione di aver fatto troppo poco, di aver ignorato il senso utile e costruttivo della vita.

Si ha paura del nulla che potrebbe esserci dopo, mentre si accetterebbe la fine quando si avesse aperto uno spiraglio di speranza a nuova vita.

Ciò che aiuterebbe, sarebbe il volgere lo sguardo verso l'alto e scoprire che palpita, vive trasformandosi continuamente senza che l'essenziale vada perso, da poter pensare che il tutto abbia un significato precostituito.

In questo senso anche la morte assumerebbe il significato di trasformazione e, inoltre, inciterebbe a fare di più in questa esistenza, perchè solo così si costruirebbe un ponte con un possibile futuro migliore nell'aldilà.

Allora la paura si combatte a spada tratta e chi combatte non ha paura di morire.

Di conseguenza, bisognerebe considerare la vita una missione e così darle un significato vitale e forte che tolga la paura di essere debole, limitato, temporaneo.

In questo senso diventa irrilevante fino a quando è dato di vivere.

L'economia del consumo senza limite in atto favorisce la diffusione del virus, per cui mi auguro che l'uomo comprenda che è necessario modificare il sistema economico e il proprio stile di vita da esso dipendente.

Sotto questo punto di vista è giusto considerare la sua venuta come richiamo di coscienza che non è più da sottovalutare.

La scoperta dei vaccini dimostra che siamo intelligenti e quindi capaci di sopravvivere, ma attenti a non abusarne, fino a rendere il sistema di difesa disabituato a reagire da solo davanti a un altro pericolo, e non dimentichiamo che anche i virus sono intelligenti e si adattano alle nuove condizioni di difesa create dall'uomo mutando continuamente.

L'uomo cerca permanentemente di scoprire la complessità della vita per renderla più sicura e vivibile per lui, ma ci sono momenti dove si sente guidato, fortemente influenzato nel suo modo di pensare ed agire. Sono i momenti che danno una svolta al suo voler essere padrone della sua vita.

Ecce Homo, ti ho concesso la libertà di decidere, ma non di spadroneggiare a tuo piacimento.

La vita è troppo complessa per te, da permetterti di poter varcare il confine del tuo destino.

Il tuo destino è già stato scritto prima della tua venuta. Goditi i momenti di libera decisione, ma non scordarti che hai dei compiti fondamentali da realizzare.

È uguale come tu lo vuoi chiamare: destino, sorte, fato, certo è, che hai un Dio sopra di te, il Dio della sapienza che tutto crea e regola, anche per te quando tu lo riconoscessi ed ossequiassi.

È dunque il fato a definire il destino dell'uomo? È lui a marcare il limite della sua libertà di pensiero ed azione?

Mi viene, qui, da pensare che esista un ordine superiore per portare a termine un programma universale, nel quale l'uomo ricopra sì un ruolo particolare secondo il suo grado di sviluppo, ma non più qualora egli non rispettasse i limiti concessigli.

L'uomo è quindi padrone e schiavo della sua esistenza, per cui uscirne gli diventa quasi impossibile. Ma si può replicare: fino a quando?


 
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