La “macdonaldizzazione”
del mondo
di Carlo Bordoni
George Ritzer in La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi e riti dell'iperconsumismo (Il Mulino, 2005), come nel precedente, Il mondo alla
McDonald's (Il Mulino, 1997), focalizza
alcuni punti del successo del fast food, quale nuova tecnologia razionalizzata, destinata
al consumo al tempo della globalizzazione. In primo luogo l'efficienza, ottenuta attraverso costi
contenuti, pulizia, standardizzazione, self service e più tempo libero a
disposizione del consumatore, perché anche il tempo dedicato all'alimentazione
è uno spreco. La rapidità permette di evitare le code e le lunghe attese, la
manipolazione del prodotto segue le caratteristiche
della catena di montaggio, tutto è in funzione del consumatore, poca
attenzione al lavoratore. Una logica che nasce alla fine degli anni Trenta e
diventa subito un modo di vivere, identificabile nell'immaginario con lo stile
americano e le abitudini di una vita intensa, senza pause inutili.
In
secondo luogo la calcolabilità, posta
alla base del processo di razionalizzazione del servizio alla McDonald. È
legata anche all'apparenza, che deve assicurare una soddisfazione visiva del
prodotto, offerto in grandi quantità, anche se di qualità mediocre. La
rassicurazione è data dalla ripetitività dei prodotti, tutti simili e
standardizzati nel gusto come nella confezione.
Qui
l'aspetto della prevedibilità dei
processi e dei risultati. Una logica di razionalizzazione, ma forse sarebbe
più esatto dire di “meccanizzazione” della produzione, che si sottrae alla
creatività, alla difformità, al caso, tutte caratteristiche abituali nel caso
della ristorazione. La scelta dei prodotti è infatti
limitata, si ritrovano gli stessi gusti, le stesse presentazioni, gli stessi
ambienti, gli stessi colori e odori ovunque. Il rischio è semmai dato dalla
“nausea”.
La
motivazione di fondo che spinge a fornire un'alimentazione (come qualsiasi
altro servizio standardizzato) in maniera rapida, controllata, a basso costo, di conseguenza impostato su una ripetitività stancante, che
produce un'evidente alienazione del lavoro – i dipendenti della McDonald
cambiano in media ogni quattro mesi – l'assenza o la riduzione dei rapporti
umani, che prevede persino una comunicazione col cliente sulla base di un
protocollo linguistico, composto di frasi fatte e risposte prevedibili,
costituisce una sorta di “gabbia d'acciaio” in cui si rinserrano i rapporti
personali, da cui è difficile uscire o forse in cui appare desiderabile
rinserrarsi quando non si hanno altre certezze o sicurezze interiori.
Non si
può parlare di “razionalizzazione” della produzione, quanto di “meccanizzazione”:
è la riduzione dei bisogni, dei piaceri e delle pulsioni a processi
pianificati e sempre uguali (nei tempi, come nella qualità) a rendere
alienante questa scelta. La sua filosofia è quella di rendere l'uomo una macchina, di spersonalizzarlo e di considerarlo come
un'entità quantitativa. L'assimilazione alla macchina che, proprio perché,
ripetitiva e prevedibile, permette una diminuzione dei costi e un'esportabilità in tutto il mondo, con l'evidente conseguenza
di imporre una visione culturale ristretta anche
laddove non è accettabile. Il successo della pratica alla McDonald nei paesi dell'est
sembra dovuto proprio alla tendenza “razionalizzatrice”
di quei popoli che per lungo tempo hanno subito e introiettato la logica dei
piani quinquennali, della progettazione economica a tavolino, degli obiettivi
da raggiungere, della spersonalizzazione dell'individuo in favore di
un'eguaglianza passiva, senza possibilità di critica. Di quella concezione del
comunismo che prevede una società di uguali, senza distinzioni e senza
privilegi, dove l'efficienza e la meccanizzazione sono considerati parametri di
efficienza a cui tendere, senza peraltro raggiungerli, se non attraverso lo stakanovismo e l'imposizione forzata.
La
meccanizzazione e la riduzione dell'uomo a mera forza-lavoro non sono caratteristiche
della società occidentale, dove il liberismo e l'individualismo hanno da sempre
prevalso. La tendenza alla McDonald è un'evidente forzatura, l'imposizione di
un'utopia meccanica in un mondo che la rifiuta per principio.
È,
semmai, il risultato di una cultura di massa, tendenzialmente omologatrice che ha trovato terreno fertile in un momento
in cui sembrava necessario uniformare le masse, renderle prevedibili nel
pensiero, nell'abbigliamento, nei desideri, nei consumi, e dunque anche
nell'alimentazione. Ma è un'utopia negativa, capace di evocare nelle cucine
elettriche programmate, nei nastri trasportatori di hamburger, nelle
confezioni in cartone “usa-e-getta”, nelle patatine rigorosamente dello stesso
formato, nelle divise degli addetti al servizio, l'ombra dei più oscuri incubi
di un futuro non più a misura d'uomo. Ha funzionato perché intimamente legato
al processo economico (alla produzione di ricchezza), ma è destinato a perire
nel processo di demassificazione. Resterà un ricordo
dell'irrazionalismo consumistico della seconda metà del
xx secolo, da osservare e da
studiare, magari anche per curiosità storica, ma assolutamente privo di
significato per le nuove generazioni. Richiama Tempi moderni, il film di Charlie Chaplin del 1936, l'incubo delle
macchine o anche delle forniture automatizzate dal selfservice. A differenza
di queste, McDonald introduce l'ambiente, la persona fisica al banco e in
cucina, ma il processo è lo stesso: l'automatismo del consumo senza il
rapporto diretto col fornitore e la certezza del
risultato attraverso la garanzia della marca. Se fosse possibile, McDonald
eliminerebbe il personale di servizio, l'unica variabile imprevedibile del
processo e la sostituirebbe con servomeccanismi robotizzati. Questo spiega la
scarsa attenzione nei confronti dei lavoratori della McDonald e la loro
insoddisfazione. Ma il problema del personale non è qui essenziale: al primo
posto c'è la soddisfazione del consumatore, la sola condizione per raggiungere
il profitto.