L’incubo
di una notte
di
Danila Oppio
Passò
lungo la strada che si snodava
come
sciarpa zuppa di sangue liquefatto
una
giovane donna dal vestito scarlatto.
I
suoi piedi nudi calpestavano pietre
somiglianti
all’umana raccolta
delle
catastrofi imprevedibili e tetre.
Un
puledro le trotterellava accanto
come
uscito dall’Apocalisse di Dürer.
Teneva
il passo con il suo. Affranto.
Camminava
come avviluppata
da
stanchezza avvolta in sudario,
sconvolta,
stravolta, insanguinata.
Intravedevo
come il fluire grottesco
del
fango, nella luce violenta di bagliori
che
tagliavano il buio Caravaggesco.
D’improvviso
s’aprì un giorno limpido
D’una
chiarità tagliente, l’aria le sferzò
il
volto tumefatto, e lo guardo liquido.
Sopra
di lei un cielo angelico sul quale
andavano
alla deriva nuvole effimere.
E
lei correva, come Furia splendente.
Mi
desto. La luce sporca del mattino
batte
sul mio viso unto d’insonnia
e
un pensiero mi sfiora molesto.
La
vita è un azzardo avvolto nel mistero.
Dovrei
scrivere forse un trattato
sulla
disperazione delle cose. Ma è vero?
Rappresenta
forse il sogno uno degli enigmi
più
irrisolti della umana abominazione
capace
di sopravvivere alla propria dannazione?
Non
ho tempo né tantomeno voglia
di
scrivere degli umani errori la storia
Sento
però giusto concludere così:
Niente
è tanto grande da non potersi
definire
piccolo al cospetto dell’eternità
E
l’uomo non ravvisa ciò, nella sua cecità
|