Lettera
dalla neve
di
Fiorella Borin
in
memoria della tragedia consumatasi sul suolo della Russia nel
gennaio del 1943
Mia
cara signorina, mi perdoni
se
oso spedirle questa cartolina
dal
fronte russo, dove sto a penare.
Ho
avuto il suo indirizzo da un paesano,
il
caporale Micalizzi Arturo
che
ha la grande fortuna di abitare
proprio
di fronte a dove abita lei.
Volevo
dirle quanto mi ha colpito
la
sua innocente, timida bellezza.
Volevo
dirle che non so scordare
la
sua voce gentile, la sua mano
stretta
solo alla festa del patrono
quando
ballammo in piazza, in allegria,
quella
mazurka molto popolare
che
– confesso – mi ha fatto innamorare.
Non
mi compianga, non mi tratti male,
non
stracci queste povere parole.
Sanno
di freddo e neve, tanta neve.
Sanno
di schegge di granata,
di
bombe, spari e sangue degli amici.
Sanno
di un orizzonte basso, sempre
uguale,
dove il sole veste a lutto
e
i corvi già pregustano il banchetto.
Poi
voleranno via, grassi e sazi,
a
ridere di noi fra le betulle.
Ma
la cosa che più mi fa soffrire
è
non ricevere lettere da casa.
Pare
che tutti mi abbiano scordato.
Pare
che io non esista più, al paese.
Pare
che io sia soltanto un’ombra curva,
zaino,
moschetto e una piastrina al collo.
Un
nome nella lista dei coscritti.
Uno
partito un giorno, e mai tornato.
Un
disperso, un caduto, un disertore.
Uno
che ha avuto il torto di morire
non
da eroe, ma solo da artigliere
colpito
al cuore da una fucilata.
Mi
scriva lei, la prego, per favore,
mi
scriva anche soltanto due parole:
cari
saluti, e il suo nome e cognome.
Mi
basterò una cartolina da tenere
piegata
in quattro dentro il portafoglio.
Sarà
il mio orgoglio, la mia medicina,
la
carezza venuta a riscaldarmi
sotto
la neve di Nikolajewka
perché
io anche da morto tremo tutto.
Mi
firmo con immensa devozione,
Pavani
Mauro, di anni ventidue.
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