Ellis
Island
di
Daniela Raimondi
Nell’isola
di Ellis gli uomini aspettavano l’amore
con
mazzi di viole fra le mani.
Dio
ci attendeva dall’altra parte del mare.
Aveva
la bocca spalancata, i denti di un leone;
apriva
le fauci nella luce corrotta dei porti,
divorava
a uno a uno i corpi che uscivano dall’arca.
Poi
ci vomitava di nuovo nel mondo
ed
eravamo belli, puliti,
pronti
ad entrare lucenti ingranaggi
a
salire sui tram scintillanti, e più in su, ancora più
su,
come
piccoli ragni lungo le ombre dei grattacieli.
Una
gabbia di ferro ci lanciava fin sopra le nuvole.
Volavamo
alla fine di un sogno,
verso
case di vetro sospese nel cielo.
È
per te che partivo, mia bellissima America,
per
nascere di nuovo dal tuo ventre di ferro.
Per
il tuo miele, il latte dolce
e
la rabbia sputata per anni dentro la terra.
Per
questa mania di partire
che
abbiamo nel sangue.
Per
tutte le parole chiuse in fondo alla gola:
quelle
parole belle che dicono i ricchi,
caramelle
di suoni
che
nemmeno riesco a ripetere.
Da
I fuochi di Manikárnica (puntoacapo,
2020)
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