Il vaso
di ferro
di Elia Belculfiné
Che ci
sia o meno una porta dietro la terra
messa a chiudere quel buco – intravista a fiato di
lanterna
una notte, da una
feritoia. Lì, verso i campi lasciati alle ortiche,
dove la mia
gente trovava rifugio. Era
il '42 o giù di lì –
passavano in alto piccoli albatros
di metallo. Pioveva
fuoco ma si moriva
per il freddo.
Che la porta esista o meno, poco,
poco davvero conta.
Ma vale il seme che
ogni favola ti lascia
nel pensiero. Voi
che cercate e non sapete
di avere. Che cercate voi?
I
giardini segreti perduti, i castelli,
tesori di
pirati – avevamo 8, 10 anni; tu davi
il primo bacio.
Erano mondi, universi i
vecchi cortili. No,
se c'è una porta io non voglio varcarla.
Andate,
voi, con croci e vanghe. Io resto
qui. E chissà che
qualcosa di
prezioso io non
l'abbia già mio. Ora voglio riempirmi le
lenti di
sole. / Siamo andati fino
alla Madonna della
Cava, più in là le ultime
terre di noccioli.
Luce. Foglie. Le nostre parole. I
nostri occhi.
Il vaso di ferro trovato tra i rifiuti
da tenere come il più
antico dei tesori – non è forse fiaba
e vita, non è forse ciò
che sta dietro ogni porta
chiusa? La
vita ci prende d'improvviso.
A volte
ha la forma di un vecchio vaso di ferro. Io
lo credo. Tu? Tu e le
tue piccole mele nei cesti sopra i tavolacci...
C'è più poesia in una zolla di terra che
in tutti i versi
scritti nei nostri quaderni. E l'amore che ci
fiorisce sulle
bocche come una canzone. E la canti,
e sai cantarla e ci
vivi dentro per anni. / La mano di smalto
asciugherà durante
la notte. Ho comprato un pennello a punta
per i ritocchi. Tu
chiamerai. Ti dirò che è stato bello fare l'amore
senza esserci nemmeno sfiorati.