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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Sogno di ghiaccio antico di Mario Malgieri 29/12/2006
 

Sogno di ghiaccio antico

 

Camminavo lungo un sentiero appena accennato.

Avevo già attraversato il bosco di larici, punteggiato dal croco e dai primi tarassachi. 

Qua e là, dove il terreno volgeva a nord a formare piccoli avvallamenti perennemente ombrosi, chiazze di neve morente ricordavano che l'inverno non era trascorso da molto.

Dall'alto, nel silenzio del canto degli uccelli e del fruscio del vento, giungevano ogni tanto gli schiocchi del ghiacciaio, quel suono secco e scrosciante della roccia che precipita dal fronte in dissoluzione, mentre il suo letto di gelo, sul quale aveva riposato per secoli, si espone al calore del sole.

Uscito dagli alberi, mi aggiustai sulle spalle lo zaino leggero e presi a risalire i pascoli, aggirando le rocce e attraversando i numerosi ruscelli che mi cantavano melodie antiche. Arrivai e superai i canaloni ombrosi, dove resistevano nevai che, stillando lentamente la loro vita, s'immolavano al sole per donare l'acqua alle fioriture di primavera.

Infine giunsi ai piedi dall'antico gigante dai riflessi azzurrini, immobile solo in apparenza.

Perchè il ghiaccio scivola lento nei valloni con tutta la forza della creazione, incide e spacca la roccia, sospinge i massi come mandrie di strani camosci possenti; poi, alla fine del viaggio, raggiunge la meta cadendo a schegge, a brani, a costoni e ritorna tra le braccia di madre acqua, per morire nel sole in un ultimo fremito di gocce lucenti.

Così, ai piedi del lungo ghiacciaio, si forma uno specchio grigio, continuamente mosso dal vento e dal precipitare di sassi e rocce, mentre piccoli iceberg in dissoluzione ondeggiano sulla superficie, sospinti dal capriccio dei venti che mormorano parole sconosciute, udite e imprigionate dal gelo mille e mille anni fa e infine liberate come bollicine affioranti.

Mi fermai, rapito da quello spettacolo che pure avevo già visto altre volte, respirando a lungo l'odore del ghiaccio e dell'aria finissima, mentre il ritmo del cuore e dei polmoni, provati dalla salita, rallentava a ripulire il corpo dai veleni della fatica.

Lago della battaglia: ancora mi posi la domanda di come fosse nato quel nome, chi mai fosse arrivato sino là per corrompere con l'odio e col sangue quel tempio della natura. Avevo anche fatto ricerche, ma nessuno aveva saputo darmi una risposta certa su quale battaglia si fosse combattuta, e neppure se mai una battaglia vi fosse davvero stata.

Ma adesso era tempo di riposare.

Camminai ancora un poco, quasi in punta di piedi, sulla riva morenica, verde di bassa vegetazione; cercavo il luogo asciutto e riparato dal vento che mi ricordavo.

Era quello un piccolo seno del lago dove, millenni prima, una roccia appiattita, scivolando e rimbalzando giù dal crinale irto di pinnacoli spezzati, ora offriva uno spazio rude per il riposo di chi vi si fosse inerpicato.

Lo trovai, mi liberai dello zaino e indossai indumenti asciutti al posto di quelli fradici del sudore della salita. Mi sdraiai, godendomi il sole come una lucertola alla sua prima uscita dopo l'inverno. Ben presto il tepore, il canto delle acque e il fruscio del vento mi fecero chiudere gli occhi.

Così, la testa appoggiata sullo zaino, caddi in quello strano torpore dove il sonno ancora non sbarra la porta alle sensazioni del mondo, ma già i sogni si infiltrano silenziosi tra i pensieri.

Un'altra persona camminava sulla riva.

C'era solo una parola che poteva definirla al suo apparire: un guerriero.

L'elmo di cuoio indurito, la spada forgiata nel ferro, lo stesso metallo della cotta di maglia indossata sulla lunga tunica di lana grezza. I calzari, di pelle come lo scudo, rotondo e rinforzato di borchie. Lunghi capelli biondi, sciolti sulle spalle, incorniciavano una barba già grigia e un volto duro, gli occhi dello stesso freddo colore dell'acqua e del cielo.

Il guerriero si fermò sulla riva osservando il lago, dove un pesce, in un guizzo di scaglie lucenti, afferrò una libellula in volo. Ristette immobile, sino a quando i cerchi si infransero sui sassi con un lieve sciacquio, poi si volse verso di me, ma quasi parlando a se stesso.

- Vedi, le nostre vite sono come questi cerchi, creati da qualche essere che ci è estraneo. Egli è indifferente sia a ciò cui ha dato vita, sia alla sua rapida fine.-

La voce era bassa, poco più di un sussurro. Dopo un breve silenzio, riprese:

-Tu riposi dove io dormo da mille e più anni. Mille e più volte ho visto le nevi coprire il lago ghiacciato. Lievi, le zampe dei camosci mille e più volte sono passate sul mio corpo disfatto e mille e più volte in questo tempo senza fine ho sentito il vento spirare dal Nord, portando gli odori lontani del mio paese, dove i miei figli mi attesero invano e la mia donna fu data ad un altro.

Ci crearono gli Dei, e poi ci dissero di andare a combattere genti sconosciute, che gli ori, le femmine e le messi sarebbero stati nostri, perché così era scritto. -

Il guerriero si volse e si allontanò risalendo il sentiero che si perdeva sulla morena, ma la sua voce ancora giungeva chiara.

- Uomo, ora io lo so, tutto è un inganno che non abbiamo ancora imparato a riconoscere. Gli dei sono crudeli e indifferenti alla nostra sorte, e le stesse cose che dicono a noi le dicono anche ai nostri nemici. Così, in loro nome, ci spingono a dare e ricevere la morte, mentre loro amano, bevono il vino migliore, mangiano miele e ridono dell'umana stupidità.-

Io mi riscossi dal torpore e mi guardai intorno spaventato, ma non vidi altro che il lago e le montagne. Infine raccolsi lo zaino e scesi sulla riva, tra le rocce e i pini mughi. Mi bagnai il viso con l'acqua gelida, quasi a scacciare l'immagine che mi aveva appena invaso la mente, e tentai di specchiarmi in quel lucente grigiore increspato dal vento.

Dall'alto del ghiacciaio, con il consueto suono schioccante, si staccò un grosso frammento, uno dei tanti. Rimase a galleggiare sulla superficie, ondeggiando semisommerso come se fosse più pesante del normale.

All'interno, in attesa di essere liberato dalla sua prigione, mi parve di scorgere il corpo di un antico guerriero. Stringeva ancora la spada e aveva lunghi capelli biondi.

Di lì a poco il frammento, spinto dal vento verso il centro del lago, si spezzò ancora e quell'ombra appena intravvista s'inabissò nella sua dimora di fango e pietre.

Io rimasi a lungo a osservare la luce del sole che giocava con le increspature della tramontana.

Guardando attentamente, potevo vedere il riflesso dei secoli trascorsi da quando quell'acqua era scesa in forma di neve, lassù, al confine tra il cielo e la montagna, mentre il vento sembrava portarmi l'eco delle ultime parole di quell'uomo antico: "...umana stupidità".

 

 

 

 
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