Come
le mele
di
Gloria Venturini
Mi
guardo di sfuggita allo specchio e mentre mi rado, dico tra me e me:
"Non sono poi tanto vecchio". In realtà la
mia campana ha suonato settantadue volte.
Mi
accorgo che il tempo delle parole è scivolato via, tra le
risate cristalline dei miei figli e la voce lieve come un sussurro di
mia moglie. Ora è rimasto il tempo "dell'accorgersi",
di sentire che la vecchiaia riempie la vita di tanti silenzi. Gli
impulsi ardenti della giovinezza, l'indisciplina a scuola, la fragile
timidezza dei primi incontri, l'ingenuità sbrigliata
dell'acerbo amore, delle urla rabbiose gridate in riva al mare, la
musica a manetta sparata dalla radio della vecchia 500, sono ricordi
dimenticati e deposti nello scatolone "dell'inutilizzabile"
giù in cantina. I grandi sogni si sono spenti, lasciando il
posto a una lanterna a petrolio che mi conduce verso il cammino
obbligato della vecchiaia. Ascolto la mente e le memorie, il
crepuscolo spietato del mio corpo, il rumore degli acciacchi che
aumentano, i mezzi toni delle emozioni, la percezione del senso di
ogni singola parola e mi accorgo che sono riverberi di una spietata e
precisa schiettezza.
La
verità è che sembro l'ombra di un altro uomo.
Intravvedo tra le rughe del volto, tra il candore dei capelli
diradati, tra il luccicore dello sguardo, una figura che non conosco,
che non mi appartiene; eppure non sono mai stato così
intimamente vicino a me stesso.
Nel
giardino fioriscono silenzi, appassiti dalle solitudini.
Cammino
tra le stanze della casa come il rintocco delle ore di un orologio a
pendolo, alla ricerca di un qualcosa che dimentico. Passi fiacchi e
lenti come il mio udito che ancora vuole afferrare un rumore, una
voce, una parola, una sbiadita passione, una sensazione che mi parli
di lei.
Il
borbottare della caffettiera riempie la cucina di un aroma delizioso.
Il
calendario appeso alla parete mi ricorda che sta per finire un altro
anno.
Quanti
calendari abbiamo cambiato lei ed io, quanta vita abbiamo scorso e
perso, tra le corse al lavoro e le faccende, tra la nascita dei
nostri figli e gli addii, alternando dolorosi momenti ad attimi di
semplice serenità.
Mi
mancano i pianti e le grida dei bambini, le loro risate argentine, le
marachelle che lei chiamava malanni. Mi manca il noi, le litigate
accese e il poi, la pace, la tenerezza del suo sorriso, la carezza
sul viso, mi manca lei.
Ora
sono continuamente solo.
Nella
notte ascolto il crepitio dei mobili, il fruscio del vento, le
canzoni della pioggia.
Non
so se alla mia età è bene avere ancora la facoltà
di pensare nella testa.
Un
figlio è andato dall'altra parte del mondo, per inseguire il
suo sogno, la sua missione, e grazie a Dio, ci è riuscito. Mi
chiama ogni mese, per me è una festa ascoltare le storie dei
suoi viaggi, sentire che sta bene, mi sembra felice, o almeno così
pare. Mia figlia, infuriata come un maroso, ha seguito la sua indole
di paciere del mondo. Adesso vive in un campo di volontariato in
America meridionale. Per fortuna mi chiama per Natale.
Mia
moglie è scivolata via in una notte di settembre, una decina
d'anni fa, non mi sono scordato di lei. La sua immagine è
incisa ancora dentro il mio cuore. Le fotografie sono sbiadite, come
i ricordi. Non è rimasto acceso solo il lume al cimitero, la
fiamma del mio amore arde tuttora, anche se sono vecchio. Vecchio e
solo.
Nei
silenzi che mi avvolgono e mi fanno compagnia, ondeggiano
impercettibili carezzevoli sensazioni d'amore. Nell'aria sottile
vibrano sussurri di melodie, il delicato effluvio del suo profumo.
Declinano
lentamente i giorni. Al fare stanco della sera cerco d'interpretare
le indicazioni dei silenzi, dove mi vogliono accompagnare, ed ecco
che la malinconia diventa preghiera; la tristezza, un leggero gemito;
la gioia, un sorriso e la tenerezza, una dolce ninna nanna. Guardo
fuori dalla finestra, la luna illumina soffusamente l'ulivo che
abbiamo interrato tanti anni fa, sembra siano passati dei secoli, mi
assomiglia, è contorto e incurvato come me. Il pino cresce
ancora solenne, la quercia invece perde le sue foglie come coriandoli
al vento.
Una
sera io e mia moglie ballammo in giardino, le sue fragili braccia
flettevano nell'aria come esili rami, come deboli ossa consumate
dalla malattia.
Lo
schianto della perdita è un assolo senza voce, ne sono
conferma le vecchie tracce di lei, un rossetto lasciato in cucina, il
grembiule da stirare; le memorie chiuse in un cassetto come le poesie
d'amore che scriveva. Versi così delicati da sfiorare la luna,
un tocco leggero in una notte senza stelle.
Credo
che gli alberi di mele che abbiamo piantato per la nascita dei nostri
figli, germoglino ancora, fioriscano e facciano molti frutti. E anche
se io sono stato un genitore disattento, e lei una mamma di corsa,
sono certo che abbiamo seminato il seme dell'amore nel loro cuore, il
principio del rispetto per la vita.
Forse
le tempeste, i tuoni e i lampi, la furia delle tormente, hanno
aumentato le loro fragilità, le inquietudini, ma noi abbiamo a
nostro modo tentato di guarire e ricucire le loro ferite.
Li
aspetto ancora, nella nostra casa, speriamo non il giorno della mia
morte.
Mi
piace pensare che ogni volta che mangeranno una mela sentiranno il
sapore di noi, della loro infanzia, dei momenti allegri che hanno
sicuramente nutrito il loro modo di essere.
Domani
sarà domenica, assaggerò un po' di torta di mele…
"per sentirvi tutti più vicino".
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