Lettera
di un figlio alla madre (lunga una vita)
di
Marina Pasqualini
Cara
mamma, so che mi ami e mi hai amato e non ti scrivo per muoverti dei
rimproveri, ma semplicemente per comunicarti come io ho vissuto,
quando ancora non sapevo esprimermi né a voce né per
iscritto. Ora sono cresciuto, ho un buon lavoro e la mia vita, ma
devo dirti alcune cose, dopodichè girerò pagina, per
sempre.
Parto
da lontano, dal primo massaggio, dalla prima carezza che ho percepito
al momento del tuo parto e della mia nascita, da quel passaggio dal
tuo liquido amniotico, a questo mondo, che mi ha fatto percepire per
la prima volta di avere un corpo. Certo, ho pianto perché
stavo meglio in quel mondo ovattato ove tu mi nutrivi e mi
proteggevi, mentre i miei organi andavano costituendosi per nove
lunghi e meravigliosi mesi. Poi, improvvisamente, ho dovuto imparare
a respirare e a nutrirmi come individuo a parte. Tu mi hai cullato e
tenuto stretto al tuo seno, affinchè si affievolisse in me il
trauma della nascita, della nostra separazione. Ma quell’idillio
durante il quale io percepivo che tu c’eri ancora, attraverso
il tuo odore e il tuo calore, è durato poco. Troppo poco. Sono
stato presto affidato ad una balia, poi ad un asilo nido, ove persone
esperte si prendevano cura di me, è vero. Ma tu non c’eri
già più. Eri dovuta (o voluta) tornare al lavoro e
venivi a prendermi la sera, ed insieme tornavamo a casa. Quello era
il momento più bello, per me, che ti avevo atteso per tutto il
giorno, un tempo che mi sembrava interminabile. Oltre all’aria,
al cibo, ai pannolini puliti, che non mi sono mai mancati, nonché
qualche “coccola” da parte del personale addetto, io
soffrivo una mancanza: la tua. Tu eri, e sei, unica e insostituibile.
Nessuna donna, nonna o zia, avrebbe mai potuto prendere il tuo posto.
Quel valore aggiunto, costituito dal tuo amore costante, così
rassicurante e indispensabile alla mia crescita armoniosa, mi mancava
ogni giorno, ogni lungo istante in cui io ti cercavo, e non ti
trovavo. Poi la sera, finalmente, arrivavi, e con te la mia
consolazione, la mia pace. E avrei voluto che tu non mi lasciassi
più, ma il mattino dopo ero costretto a rivivere la dolorosa
esperienza della separazione. E alla sera, ma ti capisco, tu eri
stanca e oberata dai mille impegni che la casa e la famiglia ti
richiedevano. E non potevi certo stare tutto il tempo con me. Io non
avrei voluto addormentarmi presto, ma anche le mie piccole forze
venivano a mancare, e sprofondavo nel sonno, che avvicinava troppo
presto il sorgere di un nuovo giorno. Un nuovo giorno di attesa. Poi
sono cresciuto e mi hai portato alla Scuola Materna. Sì, lì
mi divertivo a giocare con i bambini, ma alla chiusura tu non potevi
ancora venire a riprendermi. Eri ancora lontana, ovviamente, quindi
venva la nonna, che mi intratteneva fino al tuo arrivo. E la scena si
ripeteva, uguale a se stessa: tu che preparavi la cena, che stiravi,
che pulivi sommariamente casa, cercando di intermediare quei gravosi
compiti, per te già sfinita, con qualche abbraccio e qualche
domanda, che per me avevano un valore incommensurabile: sentivo il
tuo amore. Poi ho frequentato le scuole dell’obbligo e mi sono
diplomato. Poi l’Università, in una città
lontana. E ci vedevamo solo nei fine settimana. Ora sono laureato ed
ho sposato una cara ragazza. Mi sono trasferito, come sai, per
opportunità di lavoro, in una città diversa dalla
nostra. E i nostri incontri si sono ulteriormente diradati. Per
fortuna, grazie al web, possiamo vederci su Skype, nonché alle
feste di rito. Ma ormai sono un uomo, sono strutturato: sono la
famosa freccia dell’arco che tu hai scoccato e che è
andata a parare dove il destino ha voluto. Tu sei ormai anziana e la
vita è naturalmente andata avanti. Ma penso a come sarebbe
stato bello averti potuto “gustare” di più, quando
ero piccolo e ne avevo un impellente bisogno. Come mi sarebbe
piaciuto trovarti, al mio rientro da scuola, con il tuo sorriso e il
tuo abbraccio, con le tue domande interessate su come era andata la
mia giornata scolastica, e non solo.. Avrei voluto che mi chiedessi
più spesso come stavo, se ero felice o no, quali erano i
fantasmi che mi tormentavano, per aiutarmi a fronteggiarli allo scopo
di sconfiggerli. Invece di scappare e farmi inseguire, come ho dovuto
fare, dando loro una forza maggiore. Ma ti capisco, tu dovevi portare
a casa i soldi per fare progredire meglio la famiglia. Non mi sono
mai mancate le scarpe e i vestiti alla moda e il decoro che si
conviene in una società come la nostra, improntata al valore
dell’immagine. La colpa non è sicuramente tua, ma della
nostra società che impone a tutti di correre, per esserne
all’altezza. Nessuno cammina, pena l’essere lasciato
indietro. Nessuno ascolta, se non la propria voce, e il dialogo
diventa perloppiù un monologo fra persone che hanno bisogno di
essere ascoltate. Pochi osservano, non ve n’è il tempo.
Si corre perdendo per strada il valore del viaggio, l’importanza
dei dettagli, che a volte contengono il tutto, ma che si trascurano
per guardare al grosso, all’evidente. Una casa di proprietà,
una o più macchine, vestiti firmati, regali ai compleanni. Ma
si perdono, in questa forsennata corsa che non si può definire
vita, ma sopravvivenza, i valori più profondi, che vengono
seppelliti sotto montagne di superficialità. Avrei voluto una
mamma a casa, con me, che mi abbracciasse quando piangevo, che
giocasse con me, che mi rassicurasse con il suo sorriso esclusivo,
che mi facesse sentire l’essere più importante
dell’universo, il più degno d’amore. E questo al
solo scopo di darmi delle fondamenta solide, mentre andavo edificando
a fatica la mia persona. Certo, sono cresciuto lo stesso, sono un
uomo, ma solo io conosco le mie insicurezze, la mia bassa autostima,
le mie paure. Forse tu, mamma, avresti potuto costituirne l’antidoto.
Ma forse nemmeno lo sapevi: la tua cultura semplice ti impediva di
vedere cosa albergava nel mio cuore, nella mia anima. Io ti perdono e
ti assolvo.
Un
abbraccio infinito
Tuo
figlio
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