Area riservata

Ricerca  
 
Siti amici  
 
Cookies Policy  
 
Diritti d'autore  
 
Biografia  
 
Canti celtici  
 
Il cerchio infinito  
 
News  
 
Bell'Italia  
 
Poesie  
 
Racconti  
 
Scritti di altri autori  
 
Editoriali  
 
Recensioni  
 
Letteratura  
 
Freschi di stampa  
 
Intervista all'autore  
 
Libri e interviste  
 
Il mondo dell'editoria  
 
Fotografie  
 
 
  Poesie  Narrativa  Poesie in vernacolo  Narrativa in vernacolo  I maestri della poesia  Poesie di Natale  Racconti di Natale 

  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Il melograno, di Antonio Covino 09/02/2007
 

Il melograno

 

 

 

Il vecchio tese la mano verso l'albero ma non ce la fece a cogliere il frutto, ritornò verso casa, mesto, appoggiandosi al bastone.

Si buttò nella sua poltrona, sentì le voci dei bambini correre nell'orto, guardò da dietro i vetri, vide null'altro che l'albero dai frutti vermigli e la nebbia che lenta andava ricoprendo la campagna: si assopì.

 

Il professore entra nell'aula, gli studenti si alzano causando un trambusto unisono tra i banchi di legno. Il luminare sale in cattedra, fa  cenno con la mano che si va ad iniziare. Lo stesso trambusto accompagna i giovani che si siedono e preparano i loro blocchi dalla copertina nera e i fogli bordati di rosso. La lezione di retorica dura un'ora, la fine del monologo del professore è salutato da uno scroscio d'applausi e voci impostate dal fondo dell'aula :”Bravo!”- “Bene”-…-“Deus!”- L'uscita dalla sala è accompagnata, come al solito, da un capannello di giovani che desiderano avere un contatto quasi fisico con il docente. Improvvisamente, tra quelle voci si sentono urla di bimbi che s'inseguono, e tra esse, quella del bimbo dai riccioli d'oro.

 

Il vecchio si ridestò, guardò di nuovo dalla finestra, cercò. La campagna era tutta ricoperta dalla nebbia, nonostante il Giugno inoltrato l'umido penetrava fin nelle ossa.  Scrutò per vedere il suo albero, nulla. Ritornò a sedersi. Il capo si abbassò più volte e si rialzò fino a rimanere adagiato sulla spalla.

 

Le ruote del calesse filano rumorose sui sassi sconnessi del viale che da Bòlgheri porta a San Guido. Una doppia fila di cipressi, ai lati della strada, ossequia il passaggio del papà e del figlio che si recano al cimitero per onorare i morti. Il cavallo viene legato alla staccionata sul piazzale antistante l'ingresso. L'uomo prende per mano il bambino ed entrano, si fermano di fronte ad una tomba di marmo grigio. Il papà abbandona la mano del fanciullo e si lascia andare ad un gesto di disperazione, dopo aver guardato la foto sulla tomba del bimbo dai lunghi boccoli d'oro. La sua attenzione è richiamata dal figlio che gli tira il mantello, l'uomo lo fissa, il bimbo è lì, non è nella tomba, sotto la terra negra, sotto la terra fredda. Il fanciullo prende la mano del genitore e lo tira, portandolo fuori da quel posto tetro dove non hanno motivo per restare.

 

Il vecchio alzò il capo dalla spalla, il collo indolenzito lo indusse a ruotare la testa più volte a destra e a sinistra. Vide attraverso i vetri che la nebbia si stava diradando. Si alzò barcollando, si portò verso il camino e fece scivolare un altro ceppo sulla fiamma, si aggiustò la giacca di flanella e andò a riprendere posto sulla poltrona. La pendola rintoccò per dieci volte, mancavano ancora due ore al pranzo che il buon Giulio gli avrebbe portato, si augurò un gustoso brodo caldo. Le palpebre si richiusero sui suoi occhi azzurri, cerchiati da una patina bianca.

 

Il suo nome riecheggia nel salone affollato di gentiluomini e dame. Fa fatica a decifrarlo scandito nel duro accento scandinavo. Si alza, si aggiusta il papillon e vola col pensiero a ricevere il premio dalle mani del re di Svezia, il premio più ambito, presente, anche se solo con il cuore.  Scruta tra la folla, cerca lo sguardo del suo bimbo, ma non lo trova, il figlio è altrove, nell'orto ad allungare la mano verso il verde melograno.

 

Il vecchio si alzò, vide che il sole aveva rischiarato la campagna e decise di uscire. Impugnò il bastone e si avviò verso il solito albero. Un frutto più grande degli altri, maturo al punto da essersi spaccato mettendo in mostra i chicchi rubini lo attrasse. Si allungò per prenderlo, lo afferrò, lo strinse e lo tirò. Il bastone gli cadde e lui perdendo l'equilibrio si ritrovò per terra, sulla terra umida. Tentò di alzarsi più volte, ma non ci riuscì e restò lì, in attesa degli eventi….

 

I bambini, mano nella mano, fanno il girotondo intorno all'albero, cantando un'allegra canzoncina. Il papà guarda dalla finestra dello studio il suo tesoro dai riccioli d'oro. Stanco per le lunghe corse il bimbo si ferma, cerca ristoro e tende la mano per prendere il bel frutto vermiglio, ma non ci riesce e cade, si rialza, allunga di nuovo la mano, salta, lo sfiora, poi… si lascia andare esausto sulla terra che si apre e lo inghiotte pian piano, ricoprendolo di zolle.

 

 “Cosa ci fa qui per terra? Siamo alle solite, lei non deve uscire da solo, venga professore, le ho portato il pranzo.-

“ Oh! Giulio, Giulio caro”.

“ Sì, sono io professor Carducci, andiamo”.

 

 

 

  

 

 
©2006 ArteInsieme, « 014037539 »