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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Tre tonalità di viola, di massimolegnani 23/06/2017
 

Tre tonalità di viola

di massimo legnani



L’archetto


Tutte le sere del mondo Camillo apre i vetri rivolti a occidente e si siede, estate e inverno, a ridosso dell’aria senza patire calura o gelo. Sta lì e scruta il tramonto attendendo la tonalità esatta per l’attacco, come fosse parte di un’orchestra. E infine suona in armonia con le tinte che vede in cielo, uno spartito variopinto, il viola è il prediletto, omaggio, forse, allo strumento che serra tra le gambe. L’archetto allora, dopo i guizzi azzurri, le note rosse, i trilli gialli, si distende in un suono prolungato, malinconico e tenace, che solo il viola gli può dare.



L’accento


Lui ama il brivido e il livido che lascia al suo passaggio. Pensa sia un fiore quello che poi mi nasce lento sulla pelle. Ma non è una viola, è che lui mi vìola, ogni maledetta volta. Questione di accento e di quella violenza che lui chiama amore.



Viola nel pensiero


Non potevi chiamarti in altro modo, tu che sempre sei nei miei pensieri.

Tu (pre)occupi i miei giorni e tormenti le mie notti. Tu hai petali di pelle e un cuore in ferro, arrugginito dal non uso. Delicata e dura, sei il bene che mi esalta, il male che mi annienta.

E mi chiedo quando è stato che mi sei entrata in testa con la spietatezza esatta di un cavatappi nel sughero, la tua spirale che giro dopo giro si è conficcata nel lobo astratto della mia quiete, distruggendolo. Forse subito, al primo impatto, quando pure avevo il bisturi dalla parte del manico: ti ho visto sorridere alla morte sul lettino operatorio, appena prima del sonno artificiale che avrebbe potuto essere l’ultimo. Avrei dovuto mantenere il compassionevole distacco d’Ippocrate, invece già fantasticavo sulla tua riconoscenza, possibilmente calda, mentre ricucivo la tua pelle, a cose fatte e fatte bene. O forse è stato qualche mese dopo, quando mi sorridesti con la stessa sfrontatezza usata con la morte, e io già ti chiamavo angelo viola, senza conoscere le sfumature ambigue del tuo nome. No, credo sia stata quella sera in cui non sei passata da casa mia, d’altronde non c’erano patti tra noi solo stuzzicanti consuetudini. Ho resistito poche ore cercando un impossibile interesse in un romanzo, poi sono uscito sperando d’incontrarti come per caso per le vie della città. Che patetico calvario entrare nei locali, ordinare qualcosa da bere, dare un’occhiata delusa intorno e buttare giù l’intruglio, bruciato dalla fretta di battere altri luoghi. Ti ho trovato alla quindicesima stazione di quella mia personalissima via crucis, una bettola da giovani annoiati, io così fuori posto lì a bere vino cattivo al banco, tu mezzo piegata a un tavolaccio sul fondo del locale, un ragazzotto che ti sbaciucchiava il collo. Incrociammo gli sguardi, non un cenno di saluto.

La strada verso casa fu un tormento, ero scosso da emozioni contrastanti, ira, gelosia, frustrazione, sollievo. Sì, per brevi momenti m’illudevo di essere sollevato dal fatto che tu avessi una tua vita affettiva dalla quale ero escluso, questo sgomberava il campo da ogni implicazione e complicazione sentimentale. Avevo il tuo corpo, saltuariamente, e questo doveva bastarmi. Ma era un sollievo effimero, subito soffocato dalla rabbia al pensiero di te tra le braccia di un altro.

Ecco, sì, fu quella notte. Nel momento stesso in cui decisi di toglierti dalla testa, tu desti un altro giro di vite al cavatappi. Arrivasti non so più a che ora, io un broncio furioso, più adatto a un padre verso la figlia scapestrata, tu allegra e ubriaca, impermeabile ai rimbrotti. Ti buttasti sul divano e prima di addormentarti, Matteo, sto pensando di trasferirmi da te, in pianta stabile. E di nuovo quel sorriso sfrontato, come davanti alla morte.





 
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