Tre
tonalità di viola
di
massimo legnani
L’archetto
Tutte
le sere del mondo Camillo apre i vetri rivolti a occidente e si
siede, estate e inverno, a ridosso dell’aria senza patire
calura o gelo. Sta lì e scruta il tramonto attendendo la
tonalità esatta per l’attacco, come fosse parte di
un’orchestra. E infine suona in armonia con le tinte che vede
in cielo, uno spartito variopinto, il viola è il prediletto,
omaggio, forse, allo strumento che serra tra le gambe. L’archetto
allora, dopo i guizzi azzurri, le note rosse, i trilli gialli, si
distende in un suono prolungato, malinconico e tenace, che solo il
viola gli può dare.
L’accento
Lui
ama il brivido e il livido che lascia al suo passaggio. Pensa sia un
fiore quello che poi mi nasce lento sulla pelle. Ma non è una
viola, è che lui mi vìola, ogni maledetta volta.
Questione di accento e di quella violenza che lui chiama amore.
Viola
nel pensiero
Non
potevi chiamarti in altro modo, tu che sempre sei nei miei pensieri.
Tu
(pre)occupi i miei giorni e tormenti le mie notti. Tu hai petali di
pelle e un cuore in ferro, arrugginito dal non uso. Delicata e dura,
sei il bene che mi esalta, il male che mi annienta.
E
mi chiedo quando è stato che mi sei entrata in testa con la
spietatezza esatta di un cavatappi nel sughero, la tua spirale che
giro dopo giro si è conficcata nel lobo astratto della mia
quiete, distruggendolo. Forse subito, al primo impatto, quando pure
avevo il bisturi dalla parte del manico: ti ho visto sorridere alla
morte sul lettino operatorio, appena prima del sonno artificiale che
avrebbe potuto essere l’ultimo. Avrei dovuto mantenere il
compassionevole distacco d’Ippocrate, invece già
fantasticavo sulla tua riconoscenza, possibilmente calda, mentre
ricucivo la tua pelle, a cose fatte e fatte bene. O forse è
stato qualche mese dopo, quando mi sorridesti con la stessa
sfrontatezza usata con la morte, e io già ti chiamavo angelo
viola, senza conoscere le sfumature ambigue del tuo nome. No,
credo sia stata quella sera in cui non sei passata da casa mia,
d’altronde non c’erano patti tra noi solo stuzzicanti
consuetudini. Ho resistito poche ore cercando un impossibile
interesse in un romanzo, poi sono uscito sperando d’incontrarti
come per caso per le vie della città. Che patetico calvario
entrare nei locali, ordinare qualcosa da bere, dare un’occhiata
delusa intorno e buttare giù l’intruglio, bruciato dalla
fretta di battere altri luoghi. Ti ho trovato alla quindicesima
stazione di quella mia personalissima via crucis, una bettola da
giovani annoiati, io così fuori posto lì a bere vino
cattivo al banco, tu mezzo piegata a un tavolaccio sul fondo del
locale, un ragazzotto che ti sbaciucchiava il collo. Incrociammo gli
sguardi, non un cenno di saluto.
La
strada verso casa fu un tormento, ero scosso da emozioni
contrastanti, ira, gelosia, frustrazione, sollievo. Sì, per
brevi momenti m’illudevo di essere sollevato dal fatto che tu
avessi una tua vita affettiva dalla quale ero escluso, questo
sgomberava il campo da ogni implicazione e complicazione
sentimentale. Avevo il tuo corpo, saltuariamente, e questo doveva
bastarmi. Ma era un sollievo effimero, subito soffocato dalla rabbia
al pensiero di te tra le braccia di un altro.
Ecco,
sì, fu quella notte. Nel momento stesso in cui decisi di
toglierti dalla testa, tu desti un altro giro di vite al cavatappi.
Arrivasti non so più a che ora, io un broncio furioso, più
adatto a un padre verso la figlia scapestrata, tu allegra e ubriaca,
impermeabile ai rimbrotti. Ti buttasti sul divano e prima di
addormentarti, Matteo, sto pensando di trasferirmi da te, in
pianta stabile. E di nuovo quel sorriso sfrontato, come davanti
alla morte.
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