Il
saluto
di
Piera Maria Chessa
Beatrice
e suo marito Andrea arrivarono verso le tre e mezza del pomeriggio,
percorsero un lungo cortile prima di entrare nella casa, poi si
fermarono in un salone ampio e luminoso. Si accostarono quindi alla
porta di una piccola stanza.
L’anziana signora stava lì,
col viso sottile lievemente di profilo, composta già nella
bara che gli addetti al pietoso compito stavano ormai per
chiudere.
Andrea si avvicinò e fece una breve carezza sul
viso della zia Angela, l’unica che gli era rimasta, e che ora
salutava per l’ultima volta. Anche Beatrice si accostò
per qualche istante.
Vi erano diverse persone nel piccolo
ambiente in penombra, ma in breve uscirono tutte per attendere fuori.
Presto si sarebbero dirette verso la chiesa per la celebrazione
funebre, si doveva soltanto aspettare l’arrivo del
sacerdote.
Beatrice uscì e si fermò con Andrea
accanto a un’ampia finestra, non vi era posto perché
tutti sedessero. Erano numerosi infatti i parenti e gli amici
presenti, molti stavano già in piedi, in attesa.
Beatrice
notò subito il contrasto tra la luce che proveniva dal cortile
e inondava la sala e la malinconia che si avvertiva all’interno.
E d’altra parte non poteva che essere così.
Mentre
aspettavano, si guardò intorno. L’ambiente era
accogliente nella sua essenzialità, arredato con gusto, negli
spazi più ampi vi erano delle piante, alcune, in piena
fioritura, sembravano volere in qualche modo alleggerire il senso di
rimpianto che si percepiva.
In un angolo della sala, seduta su
una poltrona, stava Loredana, una delle figlie della signora, la
stessa che fino a quel momento l’aveva accudita e curata, le
altre, abitando fuori dall’isola, non avevano potuto farlo.
Ora
che tutto si era ormai concluso, improvvisamente ebbe un crollo. Si
mise a piangere piano, in modo sommesso, quasi priva di
forze.
Beatrice la guardò prima di avvicinarsi
timidamente, ogni gesto le sembrava inopportuno, ogni parola
inadeguata. Era magrissima, pallida, lo sguardo di chi non riposa da
giorni, occhiaie profonde sotto gli occhi. Sembrava una bella donna
sfiorita di colpo. Le posò una mano sul braccio e l’abbracciò
con delicatezza, come si fa nel prendere in mano un oggetto talmente
fragile da aver paura che possa frantumarsi in un
istante.
“Beatrice,, disse lei, “non riesco a non
piangere, mamma ed io in questi anni eravamo diventate un’unica
persona, c’era una sorta di simbiosi tra di noi”.
Stette
in silenzio per un istante prima di aggiungere: “Grazie, perché
siete venuti”, e lanciò uno sguardo riconoscente verso
di lei e verso Andrea.
Poco prima si era alzata dalla poltrona
per salutarli, ora si sedette nuovamente come se non riuscisse a
reggere il peso delle sue stesse gambe.
In quel momento Beatrice
guardò suo marito, cugino molto legato a Loredana, e ne
percepì la commozione. Si guardarono senza dirsi niente, in
fondo non c’era nulla da dire, anche uno sguardo intenso può
raccontare tante cose.
Rimasero nella sala ancora un po’
osservando gli amici che arrivavano e che, dopo i saluti, uscivano
nuovamente nel cortile.
Ad un certo punto Beatrice vide le altre
sorelle avvicinarsi a Loredana con l’intenzione di aiutarla a
rimettersi in piedi, era sfinita, non poteva rimanere ancora lì,
in mezzo a tanta gente.
L’accompagnarono nella stanza
accanto, chiudendo la porta alle spalle, la fatica e il dispiacere
l’avevano sopraffatta, temevano per lei un nuovo malore.
Riuscirono con difficoltà a farla riposare, e per fortuna dopo
un po’ si riprese.
Passò
del tempo, l’attesa per l’arrivo del sacerdote si
prolungò, poi, finalmente, qualcuno della famiglia gli andò
incontro nel cortile.
Come si è soliti fare ancora nei
piccoli paesi dell’isola, tutti si raggrupparono ordinatamente
dirigendosi verso la vicina chiesa. Nessuno parlava, ognuno assorto
nei suoi pensieri o nella recita silenziosa di una preghiera.
La
piccola chiesa accolse tutti nella sua penombra, la bara fu portata a
braccio dai parenti più stretti, giovani dalle braccia
muscolose, per quanto il peso fosse leggero, quello di una vecchina
diventata magrissima negli ultimi tempi.
Uomini e donne, e anche
qualche bambino, si sedettero nelle panche, c’era spazio per
tutti, sebbene quasi tutto il paese fosse lì riunito a
salutare per l’ultima volta la signora Angela.
La
cerimonia fu piuttosto breve, un affettuoso ricordo della defunta,
parole di conforto per i familiari.
Nello stesso modo ordinato e
silenzioso, si uscì poi dalla chiesa. L’officiante
indicò la direzione, guidando l’intera comunità
verso il cimitero.
Attraversarono
il paese, Beatrice e Andrea camminavano lentamente seguendo il passo
dell’intero gruppo. Ogni tanto il sacerdote faceva una breve
sosta nel percorrere le vie più strette o quelle in leggera
salita, e ognuno si uniformava alla sua scelta.
Si arrivò
finalmente all’ingresso del camposanto, il cancello era
accostato.
I parenti, gli amici, i conoscenti, si fermarono un
istante, forse per la camminata abbastanza lunga, forse per il caldo,
o semplicemente per quel senso di rispetto che comunque viene
avvertito nell’entrare in un luogo ritenuto sacro anche da chi
ha più dubbi che certezze.
E fu in quel momento, in quel
preciso istante, che il canto delicato di un uccellino, forse un
cardellino, si levò improvviso dai rami di in albero situato
esattamente accanto al cancello.
Nel silenzio, Beatrice sentì
nitidamente la voce di Loredana, un po’ distante da lei, che
diceva trattenendo la commozione:
” Ecco, anche lui vuole
salutare per l’ultima volta nostra madre, esattamente come
tutti noi facciamo in questo momento”.
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