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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Il saluto, di Piera Maria Chessa 18/09/2017
 

Il saluto

di Piera Maria Chessa



Beatrice e suo marito Andrea arrivarono verso le tre e mezza del pomeriggio, percorsero un lungo cortile prima di entrare nella casa, poi si fermarono in un salone ampio e luminoso. Si accostarono quindi alla porta di una piccola stanza.
L’anziana signora stava lì, col viso sottile lievemente di profilo, composta già nella bara che gli addetti al pietoso compito stavano ormai per chiudere.
Andrea si avvicinò e fece una breve carezza sul viso della zia Angela, l’unica che gli era rimasta, e che ora salutava per l’ultima volta. Anche Beatrice si accostò per qualche istante.
Vi erano diverse persone nel piccolo ambiente in penombra, ma in breve uscirono tutte per attendere fuori. Presto si sarebbero dirette verso la chiesa per la celebrazione funebre, si doveva soltanto aspettare l’arrivo del sacerdote.
Beatrice uscì e si fermò con Andrea accanto a un’ampia finestra, non vi era posto perché tutti sedessero. Erano numerosi infatti i parenti e gli amici presenti, molti stavano già in piedi, in attesa.
Beatrice notò subito il contrasto tra la luce che proveniva dal cortile e inondava la sala e la malinconia che si avvertiva all’interno. E d’altra parte non poteva che essere così.
Mentre aspettavano, si guardò intorno. L’ambiente era accogliente nella sua essenzialità, arredato con gusto, negli spazi più ampi vi erano delle piante, alcune, in piena fioritura, sembravano volere in qualche modo alleggerire il senso di rimpianto che si percepiva.
In un angolo della sala, seduta su una poltrona, stava Loredana, una delle figlie della signora, la stessa che fino a quel momento l’aveva accudita e curata, le altre, abitando fuori dall’isola, non avevano potuto farlo.
Ora che tutto si era ormai concluso, improvvisamente ebbe un crollo. Si mise a piangere piano, in modo sommesso, quasi priva di forze.
Beatrice la guardò prima di avvicinarsi timidamente, ogni gesto le sembrava inopportuno, ogni parola inadeguata. Era magrissima, pallida, lo sguardo di chi non riposa da giorni, occhiaie profonde sotto gli occhi. Sembrava una bella donna sfiorita di colpo. Le posò una mano sul braccio e l’abbracciò con delicatezza, come si fa nel prendere in mano un oggetto talmente fragile da aver paura che possa frantumarsi in un istante.
“Beatrice,, disse lei, “non riesco a non piangere, mamma ed io in questi anni eravamo diventate un’unica persona, c’era una sorta di simbiosi tra di noi”.
Stette in silenzio per un istante prima di aggiungere: “Grazie, perché siete venuti”, e lanciò uno sguardo riconoscente verso di lei e verso Andrea.
Poco prima si era alzata dalla poltrona per salutarli, ora si sedette nuovamente come se non riuscisse a reggere il peso delle sue stesse gambe.
In quel momento Beatrice guardò suo marito, cugino molto legato a Loredana, e ne percepì la commozione. Si guardarono senza dirsi niente, in fondo non c’era nulla da dire, anche uno sguardo intenso può raccontare tante cose.
Rimasero nella sala ancora un po’ osservando gli amici che arrivavano e che, dopo i saluti, uscivano nuovamente nel cortile.
Ad un certo punto Beatrice vide le altre sorelle avvicinarsi a Loredana con l’intenzione di aiutarla a rimettersi in piedi, era sfinita, non poteva rimanere ancora lì, in mezzo a tanta gente.
L’accompagnarono nella stanza accanto, chiudendo la porta alle spalle, la fatica e il dispiacere l’avevano sopraffatta, temevano per lei un nuovo malore. Riuscirono con difficoltà a farla riposare, e per fortuna dopo un po’ si riprese.

Passò del tempo, l’attesa per l’arrivo del sacerdote si prolungò, poi, finalmente, qualcuno della famiglia gli andò incontro nel cortile.
Come si è soliti fare ancora nei piccoli paesi dell’isola, tutti si raggrupparono ordinatamente dirigendosi verso la vicina chiesa. Nessuno parlava, ognuno assorto nei suoi pensieri o nella recita silenziosa di una preghiera.
La piccola chiesa accolse tutti nella sua penombra, la bara fu portata a braccio dai parenti più stretti, giovani dalle braccia muscolose, per quanto il peso fosse leggero, quello di una vecchina diventata magrissima negli ultimi tempi.
Uomini e donne, e anche qualche bambino, si sedettero nelle panche, c’era spazio per tutti, sebbene quasi tutto il paese fosse lì riunito a salutare per l’ultima volta la signora Angela.
La cerimonia fu piuttosto breve, un affettuoso ricordo della defunta, parole di conforto per i familiari.
Nello stesso modo ordinato e silenzioso, si uscì poi dalla chiesa. L’officiante indicò la direzione, guidando l’intera comunità verso il cimitero.

Attraversarono il paese, Beatrice e Andrea camminavano lentamente seguendo il passo dell’intero gruppo. Ogni tanto il sacerdote faceva una breve sosta nel percorrere le vie più strette o quelle in leggera salita, e ognuno si uniformava alla sua scelta.
Si arrivò finalmente all’ingresso del camposanto, il cancello era accostato.
I parenti, gli amici, i conoscenti, si fermarono un istante, forse per la camminata abbastanza lunga, forse per il caldo, o semplicemente per quel senso di rispetto che comunque viene avvertito nell’entrare in un luogo ritenuto sacro anche da chi ha più dubbi che certezze.
E fu in quel momento, in quel preciso istante, che il canto delicato di un uccellino, forse un cardellino, si levò improvviso dai rami di in albero situato esattamente accanto al cancello.
Nel silenzio, Beatrice sentì nitidamente la voce di Loredana, un po’ distante da lei, che diceva trattenendo la commozione:
” Ecco, anche lui vuole salutare per l’ultima volta nostra madre, esattamente come tutti noi facciamo in questo momento”.


 
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