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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Questa specie d'amore, di massimolegnani 09/06/2018
 

Questa specie d’amore

di massimolegnani




Non so se esiste ancora nel sughereto dei Mannoi, tra Orune e Bitti, il cumulo di pietre sotto il quale avevano seppellito Cosimo Sanna. A quel tempo gli uomini erano sbrigativi, una fossa, pochi sassi e due rami a far da croce, specie se si trattava di un servo-pastore morto suicida. Di riportarlo in paese per un vero funerale neanche a parlarne.

Aveva appena una ventina d’anni quando morì, ma vent’anni sono tanti se si è cominciato a lavorare da bambini, e lui a cinque spazzava la cucina dei padroni, a sette conduceva gli animali seguendo un servo anziano, dai dieci andava solo; a vent’anni, allora, si ha già tutta una vita alle spalle, orrenda per lo più, e poche prospettive avanti a sè, se non lavoro duro e precoce invecchiamento.

Cosimo però non si uccise per la disperazione di una vita peggiore di un ergastolo, morì per una specie d’amore finito male.

L’aveva vista nascere, le aveva scelto il nome, Betta, l’aveva portata a lungo in braccio e sulle spalle, le si era affezionato a poco a poco.

Da allora non l’aveva più lasciata.

A un occhio poco esperto Betta non aveva nulla di speciale, ma se aveste chiesto a Cosimo vi avrebbe detto della morbidezza della lana accarezzandola sul dorso, e del modo tutto suo di brucare l’erba, un piluccare schizzinoso quasi da gran dama, vi avrebbe parlato della sua salute delicata che richiedeva attenzioni e cure. Questo all’inizio, quando ancora credeva di contenere il sentimento nei limiti del giusto amore del pastore per la pecora più debole. Ma se la stessa domanda gliel’aveste posta qualche anno più tardi, probabilmente la sua risposta sarebbe stata più laconica. Le altre sono pecore, avrebbe detto guardandovi stupito che non coglieste anche voi la differenza.

Poche però in realtà le occasioni per fare domande a Cosimo, quasi tutto l’anno su e giù tra la Barbagia e la Gallura dietro al gregge alla ricerca dei pascoli più teneri o d’inverno al riparo dell’ovile in una valletta stretta, a spartire il buio e il freddo con le bestie. In paese ci tornava per Natale e a fine estate, per la tosatura. In nessun caso però aveva voglia di parlare coi cristiani. Se ne stava in disparte nel cortile dei padroni o addirittura si rintanava nell’ovile pur di non stare tra la gente. Ci dobbiamo quindi accontentare del poco che sappiamo e il resto indovinare.

E il poco che so io è il ricordo di un ceffone.


Mio nonno, uomo mite, aveva ritenuto che fossi sufficientemente cresciuto per conoscere la vicenda di quel servo-pastore vissuto e morto poco tempo addietro. Incominciò a raccontare, così come ho iniziato io con voi, ma ai primi accenni scabrosi io non avevo trattenuto uno sghignazzo. Lo schiaffo, l’unico che mai mi diede, fu fulmineo e interruppe in modo irrevocabile il suo racconto. Ricordo l’ira nei suoi occhi e le parole che scandì: Non ti permettere! Nessuno deve ridere di Cosimo. Non ero un bambino, avevo un’età in cui gli schiaffi lasciano un segno a fuoco non tanto sulla pelle quanto nell’anima, un po’ ferita dell’orgoglio un po’ memoria impressa a forza. Di certo non mi sarei più dimenticato di Cosimo Sanna. Anzi da quel giorno mi prese una smania di sapere e se possibile comprendere quell’amore e quella morte. Inutile chiedere ancora a mio nonno, sardo cocciuto, mi dovetti arrangiare da solo. Così ogni volta che ritornavo all’isola, mi spingevo nei paesi più nascosti dell’interno a interrogare i vecchi e visitare i luoghi aspri di una Barbagia che poco era cambiata nel frattempo. A poco a poco, setacciando i ricordi altrui, scremando le dicerie dalle memorie e immedesimandomi in lui, mi feci un’idea plausibile di quanto era successo.

Era stata una spirale lenta a trascinare Cosimo sempre più in basso, i passaggi quasi obbligati di tante storie che sentiamo, l’affetto, la passione, il sesso, la gelosia sempre più cieca.

Non vi fu un giorno preciso in cui le attenzioni per Betta superarono il lecito, le cose seguirono un loro corso che non ho difficoltà a definire naturale. Cosimo aveva preso l’abitudine di dormire con lei per proteggerla dai piccoli dispetti delle pecore più forti e dai primi richiami del montone. Si scambiavano tepore e sonno e forse qualche sogno, lui le parlava a lungo prima di addormentarsi, discorsi ingenui, le diceva le piccole meraviglie che vedeva intorno e s’inventava anche parole ardite, più affettuose. Era sicuro che lei lo ascoltasse attenta prima di scivolare nel sonno. Cosimo allora la vegliava ancora qualche tempo, cullandosi poi al suo respiro regolare. Era felice.

Non so quale fu la notte in cui non gli bastò più quel contatto casto, penso ci fossero le stelle a stordirlo e forse un’insistente tramontana che li faceva più vicini. O forse accadde in pieno giorno, magari appena dopo la mungitura; lasciava sempre Betta per ultima, che le mammelle fossero più gonfie e avesse tempo lui di spremerle con lentezza e gesti morbidi. Mi sembra di sentire il belato prolungato della Betta, tra partecipe e stupita, le parole bisbigliate e le carezze sue sul muso e il sottopancia a tranquillizzarla. Può darsi che quella prima volta ci sia stata una certa violenza, ma questa probabilmente non risultò sgradita a Betta, che presto si adattò di buon grado a quell’amore rude. Belava forte quando lui la prendeva, e lo accoglieva piegandosi sulle zampe anteriori e scrollando le lunghe orecchie. Cosimo giurava che poi lei gli sorrideva.

Chi non sorrideva di sicuro era il montone, che, come spesso accade, si sentiva attratto da quell’unica pecora che gli veniva proibita. Ogni occasione era buona per starle appresso e strusciarsi contro, soprattutto durante gli spostamenti da un pascolo all’altro, quando non c’erano steccati a separarli. Allora il pastorello furibondo gli urlava dietro tirandogli dei sassi e gli aizzava contro il cane che andava a mordergli i garretti. Il montone resisteva al dolore finchè i morsi non si facevano insopportabili, pur di stare vicino alla pecora più ambita. E questo suo coraggio andava commovendo Betta. Fu l’inizio di una tragedia che si trascinò a lungo, Cosimo sempre più roso dalla gelosia, Betta combattuta tra due amori così diversi tra loro. Se di notte l’uomo riusciva ancora a farla sua e a illudersi che nulla fosse cambiato nel cuore di Betta, di giorno era una tortura assistere ai tentativi sempre più sfacciati del suo rivale e non era facile fingere di non vedere gli sguardi languidi che lei gli lanciava.

Il tracollo avvenne una sera di primavera. Betta si divincolò dal suo abbraccio e trotterellò decisa verso il recinto del montone. Questa volta aveva fatto la sua scelta, in un modo che non lasciava dubbi. Attraverso le maglie della rete gli leccava il muso e gli belava con un suono quasi stridulo che Cosimo non le aveva mai sentito, era lei che sollecitava il maschio, ma non era lui quel maschio. Cosimo annichilito rimase ad osservare Betta che con il muso e le zampe tentava di abbattere la barriera che la separava dal compagno. In un gesto autodistruttivo tolse lui stesso la rete, voleva assistere fino in fondo alla propria sconfitta. L’accoppiamento fu aspro, devastante, un’affermazione di possesso del maschio e una sottomissione totale e consapevole di Betta al nuovo amore.

Agli ultimi bagliori del falò Cosimo, seduto in ombra, non riusciva ancora a staccare gli occhi dalla coppia che ora giaceva addormentata, i corpi acciambellati uno nell’altro.

Senza Betta non gli restava nulla.

Alzò una prima volta lo sguardo verso i rami delle querce già cercando il più robusto. Non aveva paura e nemmeno fretta.

Passò le ultime ore a rivedere la propria breve felicità e a guardare in faccia lo smarrimento del futuro.

All’alba sciolse il cane e liberò le pecore, urlando loro dietro perché si allontanassero, non so se per pudore o se per dare loro la libertà. Quando rimase solo si arrampicò su un albero con il collo già nel cappio. Fissò la corda a un ramo e senza pentimenti si lasciò volare giù.

Aveva ragione mio nonno, nessuno deve ridere di Cosimo.

Pietà per lui.


 
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