Questa
specie d’amore
di
massimolegnani
Non
so se esiste ancora nel sughereto dei Mannoi, tra Orune e Bitti, il
cumulo di pietre sotto il quale avevano seppellito Cosimo Sanna. A
quel tempo gli uomini erano sbrigativi, una fossa, pochi sassi e due
rami a far da croce, specie se si trattava di un servo-pastore morto
suicida. Di riportarlo in paese per un vero funerale neanche a
parlarne.
Aveva
appena una ventina d’anni quando morì, ma vent’anni
sono tanti se si è cominciato a lavorare da bambini, e lui a
cinque spazzava la cucina dei padroni, a sette conduceva gli animali
seguendo un servo anziano, dai dieci andava solo; a vent’anni,
allora, si ha già tutta una vita alle spalle, orrenda per lo
più, e poche prospettive avanti a sè, se non lavoro
duro e precoce invecchiamento.
Cosimo
però non si uccise per la disperazione di una vita peggiore di
un ergastolo, morì per una specie d’amore finito male.
L’aveva
vista nascere, le aveva scelto il nome, Betta, l’aveva portata
a lungo in braccio e sulle spalle, le si era affezionato a poco a
poco.
Da
allora non l’aveva più lasciata.
A
un occhio poco esperto Betta non aveva nulla di speciale, ma se
aveste chiesto a Cosimo vi avrebbe detto della morbidezza della lana
accarezzandola sul dorso, e del modo tutto suo di brucare l’erba,
un piluccare schizzinoso quasi da gran dama, vi avrebbe parlato della
sua salute delicata che richiedeva attenzioni e cure. Questo
all’inizio, quando ancora credeva di contenere il sentimento
nei limiti del giusto amore del pastore per la pecora più
debole. Ma se la stessa domanda gliel’aveste posta qualche anno
più tardi, probabilmente la sua risposta sarebbe stata più
laconica. Le altre sono pecore, avrebbe detto guardandovi
stupito che non coglieste anche voi la differenza.
Poche
però in realtà le occasioni per fare domande a Cosimo,
quasi tutto l’anno su e giù tra la Barbagia e la Gallura
dietro al gregge alla ricerca dei pascoli più teneri o
d’inverno al riparo dell’ovile in una valletta stretta, a
spartire il buio e il freddo con le bestie. In paese ci tornava per
Natale e a fine estate, per la tosatura. In nessun caso però
aveva voglia di parlare coi cristiani. Se ne stava in disparte nel
cortile dei padroni o addirittura si rintanava nell’ovile pur
di non stare tra la gente. Ci dobbiamo quindi accontentare del poco
che sappiamo e il resto indovinare.
E
il poco che so io è il ricordo di un ceffone.
Mio
nonno, uomo mite, aveva ritenuto che fossi sufficientemente cresciuto
per conoscere la vicenda di quel servo-pastore vissuto e morto poco
tempo addietro. Incominciò a raccontare, così come ho
iniziato io con voi, ma ai primi accenni scabrosi io non avevo
trattenuto uno sghignazzo. Lo schiaffo, l’unico che mai mi
diede, fu fulmineo e interruppe in modo irrevocabile il suo racconto.
Ricordo l’ira nei suoi occhi e le parole che scandì: Non
ti permettere! Nessuno deve ridere di Cosimo. Non ero un bambino,
avevo un’età in cui gli schiaffi lasciano un segno a
fuoco non tanto sulla pelle quanto nell’anima, un po’
ferita dell’orgoglio un po’ memoria impressa a forza. Di
certo non mi sarei più dimenticato di Cosimo Sanna. Anzi da
quel giorno mi prese una smania di sapere e se possibile comprendere
quell’amore e quella morte. Inutile chiedere ancora a mio
nonno, sardo cocciuto, mi dovetti arrangiare da solo. Così
ogni volta che ritornavo all’isola, mi spingevo nei paesi più
nascosti dell’interno a interrogare i vecchi e visitare i
luoghi aspri di una Barbagia che poco era cambiata nel frattempo. A
poco a poco, setacciando i ricordi altrui, scremando le dicerie dalle
memorie e immedesimandomi in lui, mi feci un’idea plausibile di
quanto era successo.
Era
stata una spirale lenta a trascinare Cosimo sempre più in
basso, i passaggi quasi obbligati di tante storie che sentiamo,
l’affetto, la passione, il sesso, la gelosia sempre più
cieca.
Non
vi fu un giorno preciso in cui le attenzioni per Betta superarono il
lecito, le cose seguirono un loro corso che non ho difficoltà
a definire naturale. Cosimo aveva preso l’abitudine di dormire
con lei per proteggerla dai piccoli dispetti delle pecore più
forti e dai primi richiami del montone. Si scambiavano tepore e sonno
e forse qualche sogno, lui le parlava a lungo prima di addormentarsi,
discorsi ingenui, le diceva le piccole meraviglie che vedeva intorno
e s’inventava anche parole ardite, più affettuose. Era
sicuro che lei lo ascoltasse attenta prima di scivolare nel sonno.
Cosimo allora la vegliava ancora qualche tempo, cullandosi poi al suo
respiro regolare. Era felice.
Non
so quale fu la notte in cui non gli bastò più quel
contatto casto, penso ci fossero le stelle a stordirlo e forse
un’insistente tramontana che li faceva più vicini. O
forse accadde in pieno giorno, magari appena dopo la mungitura;
lasciava sempre Betta per ultima, che le mammelle fossero più
gonfie e avesse tempo lui di spremerle con lentezza e gesti morbidi.
Mi sembra di sentire il belato prolungato della Betta, tra partecipe
e stupita, le parole bisbigliate e le carezze sue sul muso e il
sottopancia a tranquillizzarla. Può darsi che quella prima
volta ci sia stata una certa violenza, ma questa probabilmente non
risultò sgradita a Betta, che presto si adattò di buon
grado a quell’amore rude. Belava forte quando lui la prendeva,
e lo accoglieva piegandosi sulle zampe anteriori e scrollando le
lunghe orecchie. Cosimo giurava che poi lei gli sorrideva.
Chi
non sorrideva di sicuro era il montone, che, come spesso accade, si
sentiva attratto da quell’unica pecora che gli veniva proibita.
Ogni occasione era buona per starle appresso e strusciarsi contro,
soprattutto durante gli spostamenti da un pascolo all’altro,
quando non c’erano steccati a separarli. Allora il pastorello
furibondo gli urlava dietro tirandogli dei sassi e gli aizzava contro
il cane che andava a mordergli i garretti. Il montone resisteva al
dolore finchè i morsi non si facevano insopportabili, pur di
stare vicino alla pecora più ambita. E questo suo coraggio
andava commovendo Betta. Fu l’inizio di una tragedia che si
trascinò a lungo, Cosimo sempre più roso dalla gelosia,
Betta combattuta tra due amori così diversi tra loro. Se di
notte l’uomo riusciva ancora a farla sua e a illudersi che
nulla fosse cambiato nel cuore di Betta, di giorno era una tortura
assistere ai tentativi sempre più sfacciati del suo rivale e
non era facile fingere di non vedere gli sguardi languidi che lei gli
lanciava.
Il
tracollo avvenne una sera di primavera. Betta si divincolò dal
suo abbraccio e trotterellò decisa verso il recinto del
montone. Questa volta aveva fatto la sua scelta, in un modo che non
lasciava dubbi. Attraverso le maglie della rete gli leccava il muso e
gli belava con un suono quasi stridulo che Cosimo non le aveva mai
sentito, era lei che sollecitava il maschio, ma non era lui quel
maschio. Cosimo annichilito rimase ad osservare Betta che con il muso
e le zampe tentava di abbattere la barriera che la separava dal
compagno. In un gesto autodistruttivo tolse lui stesso la rete,
voleva assistere fino in fondo alla propria sconfitta.
L’accoppiamento fu aspro, devastante, un’affermazione di
possesso del maschio e una sottomissione totale e consapevole di
Betta al nuovo amore.
Agli
ultimi bagliori del falò Cosimo, seduto in ombra, non riusciva
ancora a staccare gli occhi dalla coppia che ora giaceva
addormentata, i corpi acciambellati uno nell’altro.
Senza
Betta non gli restava nulla.
Alzò
una prima volta lo sguardo verso i rami delle querce già
cercando il più robusto. Non aveva paura e nemmeno fretta.
Passò
le ultime ore a rivedere la propria breve felicità e a
guardare in faccia lo smarrimento del futuro.
All’alba
sciolse il cane e liberò le pecore, urlando loro dietro perché
si allontanassero, non so se per pudore o se per dare loro la
libertà. Quando rimase solo si arrampicò su un albero
con il collo già nel cappio. Fissò la corda a un ramo e
senza pentimenti si lasciò volare giù.
Aveva
ragione mio nonno, nessuno deve ridere di Cosimo.
Pietà
per lui.
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