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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Compagni di scuola, di Gordiano Lupi 16/03/2007
 

COMPAGNI DI SCUOLA

 

 

Esco dalla cucina portando la moka e le tazzine ben disposte su di un vassoio a fiori. Sono così affezionato alla mia moka che non la cambierei per niente al mondo con una di quelle assurde macchinette elettriche.

Il caffè si fa con la moka, da sempre. E poi servo Cubita, ricordo di frequenti viaggi a L'Avana, un caffè che ti fa sentire vivo, ti risveglia e ti scalda dentro. Porto anche l'immancabile bottiglia di rum, naturalmente Havana Club sette anni. Non ne conosco di migliori.

C'è Franco da me ed è comodamente seduto sul divano della sala, sotto braccio stringe una cartellina consumata ricolma di fogli.

E' rimasto solo lui di quel gruppo di amici che voleva cambiare il mondo, quei ragazzi che correvano in fretta fuori dalla scuola per andare al mare e che si ritrovavano alla sala giochi del Corso al pomeriggio o per lo struscio serale. Accade che adesso ci vediamo sempre più spesso e con la scusa del giornale ci fermiamo volentieri a rammentare il passato. Quasi fossimo dei vecchi, come se fosse passato un secolo…

“Ti va bene se parlo dei cannibali nel prossimo numero?” mi domanda.

“Credo di sì – dico – non li sopporto ma è un argomento di attualità. E poi ai giovani piacciono.”

Franco si occupa di critica letteraria nel nostro giornale. Non sceglie mai l'argomento se prima non ha il mio benestare. L'indecisione è una caratteristica che lo accompagna in quasi tutte le cose della vita.

Sorseggia il caffè lentamente.

“Buono” mi fa.

Sorride, è un'espressione del volto che non l'abbandona mai. 

Il giornale non è il nostro lavoro, nel senso che non ci dà da vivere.

E' solo una passione che portiamo avanti con impegno, niente di più.

Io lavoro in banca anche se avrei voluto fare tutt'altro in vita mia, odio con tutto il cuore numeri e problemi economici, ma a volte le cose accadono senza che noi ce ne accorgiamo e un bel giorno ti trovi dentro un ingranaggio e non sai perché, ma ormai è tardi. E poi la banca mi permette di vivere. Però accade che dai tempi del liceo mi porti dentro la passione di scrivere e ancora adesso, nel tempo che rubo al lavoro, invento storie e racconti che pubblico su qualche rivista. Ho dato alle stampe anche qualche libro che in pochi hanno letto. Forse Franco, forse qualche vecchio compagno. Però c'è sempre la speranza che qualcosa cambi. Un editore, un colpo di fortuna.

Lo so che sono sogni, ma si vive anche di questo.

Ho coinvolto anche Franco nell'impresa del giornale. E Franco, che mi è stato sempre vicino sin dai tempi della scuola, ci si è buttato con entusiasmo.

Adesso il rito del caffè è anche un modo per ordinare le idee e impostare il lavoro in redazione. Non so come farei senza di lui, preciso e pignolo nel correggere bozze e valutare articoli.

Termino anch'io il mio caffè. Franco ha già posato la tazzina sul tavolo.

“Chi l'avrebbe detto…” mi fa.

“Cosa?” rispondo incuriosito.

“…che tutto sarebbe cambiato così…che succedesse tutto questo…”

Indica mia moglie Celia.

E' stato anche lui con me a L'Avana qualche volta e mi ha fatto da testimone al matrimonio. Penso che è vero. Tante cose sono cambiate.

Celia sorride e viene a sedersi sulle mie gambe. Ha vent'anni e una dolcezza infinita. Ha sempre un sorriso per ogni parola.

Felice di niente. Tranquilla. Viene da un mondo dove tutto è mancanza.

“Tu almeno riesci a buttarti, a decidere. Non pensi a quel che dice la gente. Hai divorziato, sei scappato a L'Avana, ti sei sposato di nuovo. E lei ha vent'anni di meno. E se tu avessi sbagliato ancora?”

“C'era il rischio. Ma dovevo provare, non credi?”

Dovevo provare sì. O sarei rimasto in eterno nel dubbio d'aver perso un'occasione importante. Franco pare leggermi nel pensiero.

“Io invece ho perduto troppe occasioni e non so più decidere” dice.

Ci guardiamo negli occhi e sorseggiamo il caffè.

Celia è accanto a noi e ascolta con interesse. Ha appreso bene l'italiano ma spesso quello che non afferra è il senso dei nostri ricordi. E' normale. Tutto il nostro passato non le appartiene e ci sono cose che non si possono imparare da un libro se non si sono vissute. Come sono strani questi italiani, penserà, quanti problemi si fanno per nulla, se solo avessero la metà dei nostri guai…

Ha perfettamente ragione. Da quando sono stato al suo paese non riesco più a capire le angosce che abbiamo, lo stress, la fretta di raggiungere qualcosa che non arriverà mai. L'ingranaggio che stritola la nostra vita giorno dopo giorno, a ritmi di cellulare, fax, posta elettronica, auto rombanti che corrono su strade impazzite.

“Le occasioni si presentano di nuovo. E anche l'amore. Basta essere disposti ad accettarlo. E' ancora la cosa più importante, credimi” rispondo.

Franco scuote la testa. Si vede che non è convinto.

“Fai tutto facile” mi dice.

Io non aggiungo niente. Verso un poco di rum nei bicchieri e lo mandiamo giù con un cubetto di ghiaccio. E' settembre, ma fa ancora caldo e lo scirocco pesante di questa terra di mare talvolta sa colpire duro. Ricordo il caldo secco a L'Avana. Penso che un giorno o l'altro me ne scapperò laggiù, magari quando sarò in pensione, con la mia Celia.

E' un pensiero che mi aiuta a superare un quotidiano fatto di abitudini.

“Quante volte abbiamo parlato di Cuba ai tempi della scuola. Quante assemblee per la guerra fredda, i missili americani, la Baia dei Porci…” dico.

“Era un simbolo di lotta. Che Guevara era morto da poco. C'era aria di cambiamento in tutto il mondo. E adesso?” aggiunge Franco.

“Adesso è tutto più difficile e sono diventate troppe le cose che non comprendo” concludo.

“I ricordi però non ce li possono cambiare” dice lui.

E' vero penso. E' vero che i ricordi ci restano dentro e continuano a farsi sentire e che ancora siamo capaci di emozionarci ascoltando certe canzoni. Guccini, Venditti, De Andrè, le nostalgie della scuola. E il pensiero vola verso quei giorni di fedi convinte e passioni violente. Giorni in cui potevamo andare orgogliosi di usare tra noi la parola compagno.  Ricordo il disprezzo con cui davamo del fascista al compagno di scuola figlio di papà, quello che aveva sempre tutto facile e vestiva con i jeans firmati e guidava la moto di moda e le ragazzine gli cadevano ai piedi. Eravamo anche un poco invidiosi, lo ammetto, ma quella parola diceva ancora molto e sapeva colpire come un maglio sul ferro bollente. So che abbiamo entrambi gli stessi pensieri. Non c'è bisogno di dirlo, basta guardarsi negli occhi.

“Tutto cambia in fretta. Le piccole cose e le grandi” aggiunge Franco.

“Cosa vuoi dire?” domando.

“Che anche la mia vita sta cambiando” risponde.

Io poso il bicchiere di rum sul tavolo, anche Celia si avvicina per comprendere meglio. Sembra il momento di una notizia importante, di quelle da ascoltare con attenzione.

“Tra qualche giorno parto. Mi hanno assunto in quell'ufficio legale a Milano. Finalmente dopo tanti concorsi e domande ho trovato un lavoro” dice.

Franco si è laureato in legge insieme a me, abbiamo passato tanti anni nella stessa casa di Pisa, abbiamo fatto le levatacce il lunedì mattina per prendere il treno delle sei e trenta, le stesse interminabili code alla mensa dello studente e abbiamo avuto gli stessi timori nel cortile della Sapienza prima di un esame. Adesso siamo ancora qui, nonostante tutto, a raccontarci i giorni del nostro passato. E ora lui se ne va, mi lascia solo con i ricordi che abbiamo sempre diviso a metà e tutto questo fardello pare d'improvviso troppo pesante.

“Sono contento” dico. Ed è vero ma non fino in fondo.

Lui sorride e forse comprende.

“Mi mancheranno queste giornate. Mi mancheranno i ricordi, il giornale, questa città di mare tranquilla e tutto il nostro passato…”

Lo interrompo.

“Quello non lo puoi perdere, Franco”.

“Non avrò più con chi parlarne e allora non esisterà più. I nostri ricordi vivono solo perché ogni tanto li rituffiamo in questa tazzina di caffè”.

Sono parole amare come i pensieri che si voltano indietro.

I miti perduti, le discussioni in classe con i professori, le assemblee di istituto, la voglia di contestare un mondo e di rifarlo nuovo.

E' vero che a volte gli scioperi erano solo una scusa e che le bandiere restavano a casa e noi scappavamo sul mare, specialmente ai primi giorni di primavera. E' vero che non tutti credevamo di cambiare il mondo, però volava libera nell'aria quella voglia di cambiarlo ed era l'aria che tutti respiravamo. C'era Il Male con le sue vignette al veleno, Lotta Continua che leggevamo di nascosto, Il Manifesto che metteva in discussione molte certezze. E tante falci e martello sulle schede elettorali.

Tutti quei sogni di rivolta. Tutte quelle cose perdute.

Abbiamo entrambi gli stessi ricordi.

La stessa scuola sul mare, gli stessi scogli d'estate, le gite di classe e l'ultimo abbraccio su d'una spiaggia renosa. Il compagno secchione e la ragazzina più bella, che tutti guardavamo quando si alzava per l'interrogazione. L'amico vittima di scherzi feroci, tanto era timido e strano. L'esame finale così temuto e dopo sognato come incubo ricorrente. Rimbaud e Pasolini letti sotto il banco durante l'ora di religione e poi Pavese, Moravia e letture proibite al posto di Dante e Manzoni. E la voglia di cambiare tutto domani, di fare qualcosa di grande. Abbiamo gli stessi ricordi. E ci basta un sorriso. Un sorriso che mi mancherà e non so dire quanto. Un sorriso per dirci che non ci siamo riusciti. Ma che c'è ancora tempo, in fondo.

 

 

 

 

 
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