Mare
d’inverno
di
Grazia Giordani
Credevo
scherzasse. Faceva sul serio, invece, più rapida nel muoversi
che nel dire, tanto dava per scontato che l’avrei accompagnata
verso il suo tanto amato mare invernale. Valigetta pronta, scarpe da
casa rapidamente sostituite con calzature più robuste, la
riottosa soltanto nel volermi accontentare (ricordate la mia
richiesta di una biografia?), ma fulminea nel prepararsi al viaggio -
non sapevo nemmeno verso quale precisa località -, ha
indossato un corto giacchetto di un’improbabile pelliccia,
suppongo sua coetanea, chinandosi poi ad arrotolare alla caviglia i
risvolti dei jeans scoloriti, con la disinvoltura di una
ragazza.
Speriamo di persuaderla durante il tragitto in auto, mi
sono detto.
Vedovo da anni, i figli fuori casa, non dovevo
giustificarmi con nessuno. Potevo andare ovunque, denaro permettendo.
Anche per questo motivo avevo cominciato a palpeggiarmi le tasche,
prima di salire sulla gelida auto, lucida di ghiaccio. E se avessi
scordato nel cassetto lo sguarnito portafoglio o l’altrettanto
magra carta di credito, costantemente a dieta?
Quasi mi leggesse
nel pensiero, la mia fortuita – non oserei definirla fortunata
– compagna di viaggio, mormorò, aspra, quasi senza
guardarmi in volto: «Non pensi alle spese. Quello è
affar mio».
«Non sono ancora diventato un gigolo,
Signora, dissi cercando di apparire spiritoso» .
«Non
s’illuda. Per me ci vuole ben altro. È solo che mi
seccava prendere un mezzo pubblico. E poi, tutto sommato, la sua
storia m’interessa. Sono una ladra di racconti…»
«Intende
dire che userà per sé la mia storia?»
«Forse
che sì, forse che no. Del resto dovrebbe ritenersene
onorato».
Ma lo disse col suo impercettibile sorriso
obliquo che regalava mistero a quel suo insolito volto triangolare,
dove le rughe attorno al mento non davano fastidio, quasi una cipria
del tempo l’avesse ingentilito.
La Lotus fece i soliti
capricci. Singhiozzò più a lungo del consueto, prima di
entrare in marcia con un gemito lungo, anche lui partecipe dei miei
umani dolori.
«Che strada prendiamo?»
«Verso
Volano, nel Bassoferrarese. Là posseggo da anni un minuscolo
monolocale, quasi un ventre materno. Ma non pranzeremo in casa. Ci
sarà certamente qualche locale aperto, anche se siamo del
tutto fuori stagione.»
M’imbarazzava l’idea di
questo tête à tête con una sconosciuta.
Condividere un pasto non è solo posizionare all’unisono
posate all’interno della bocca, piene di cibo che magari non ti
piace. Sono astemio e, una volta, in Scozia, ho fatto morire quasi un
intero giardino, irrorandolo del wisky che non riuscivo ad
ingurgitare. Però, la speranza di indurre l’imprevedibile
signora ad interessarsi veramente alla mia biografia, mi ammorbidiva
e piegava fino al punto di mostrarmi arrendevole.
«Questi
sono stati i luoghi delle mie beate vacanze infantili – mi
raccontava, con voce addolcita, le guance ravvivate da un calice di
vino di cui m’infastidiva persino l’odore (ormai sapete
quanto sia schizzinoso il mio olfatto) – arrivavamo in questa
spiaggia, allora desolata, veleggiando lungo il Volano. Era solcato
da vele di molti colori. C’erano i burchi dei comacchiesi che
vivevano la loro pigra vita corale di gente d’acqua,
all’aperto, senza ritegno. Avevano, sulle loro barche, il cane,
il gatto, il lavoro a maglia, la suocera, lo zio e sempre risonanti
zoccoli di legno ai piedi. Parlavano una lingua strascicata e
comprensibile, forse, solo a loro, tanto ostica era ai nostri
orecchi. Le donne erano pienotte, languide nell’occhio e
candide nella pelle. I fiume aveva un fascino quasi magico su di me e
questo senso dell’acqua mi è rimasto nelle vene come una
voce cantante; raramente mi abbandona e mi fa pensare ai perlati
grigiori del Tamigi, alla canzone senza fine delle vene sotterranee
di Granada, allo sciabordio del mare aperto, al satanico suono della
tortuosa cascata del Varone, come se tutte le acque avessero
un’origine unica, per poi differenziarsi secondo cause
contingenti…»
Che lagna! – pensavo fra me e
me, sempre più desideroso di interromperla, per riprendere il
filo della mia disgraziata infanzia sarda, dei colpi mancini che mi
aveva inferto la vita.
«Beata lei, Signora, che ha avuto
un’esistenza così piena di dolcezza, mentre io facevo il
pecoraio, il necroforo di bambini, quasi il mendicante…»
«Stia
zitto, non interrompa il flusso dei miei lirici ricordi. Dal fiume
ebbero origine le mie prime vacanze al mare. Dopo due ore o più
di lentissima navigazione, accompagnati in cielo dalla bianca ala di
famelici gabbiani, sul barcone dal rumore assordante del motore e dal
cicaleccio delle varie nonne e mamme onuste di prole e di sporte,
credo che avremmo mangiato anche un piatto del Burundi. A proposito,
anzi a sproposito, lei non sta mangiando e bevendo quasi niente.
L’annoio, forse?»
«No, no. È solo che
speravo di interessarla alla mia vita. Agli altri casi dolorosi che
mi sono capitati: moglie morta giovanissima, dopo atroci sofferenze,
una giovane cognata, finita sotto un camion, una figlia caduta nel
tunnel della droga….»
«Quisquilie, ma cosa
vuole che sia! Banalità della vita di tutti i giorni, prive di
poesia. La gente non ne può più di questi fatti noiosi.
Ormai nulla fa più notizia. Non vede com’è
diventato il mondo? Si è fatto tardi, riprendiamo la strada di
casa, non prima di aver fatto una corsetta digestiva verso il
litorale».
Rapida, pagò il conto e si diresse verso
un mare incolore come le sue vecchie chiome, mentre un fiacco sole
tentava di aprirsi un varco in un cielo di latte.
Oddio –
ho pensato – mi ha attaccato la malattia e mi son messo a
parlare quasi come lei, mentre meditavo e ponevo in atto lo sleale
proposito di salire sulla Lotus che partì ubbidiente e
complice nell’abbandonare quell’egocentrica scrittrice
dentro l’estasi dei suoi ricordi.
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