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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Albergo Fiorucci, di massimolegnani. 18/09/2018
 

Albergo Fiorucci

di massimolegnani



Vittorio Fiorucci aveva una faccia da topo e un animo da artista. Del roditore aveva gli occhi vispi, una barbetta ispida e un muoversi a scatti imprevedibili, come un topino di laboratorio di cui peraltro possedeva anche la taglia contenuta. Dell’artista la vena innata e il sogno di suonare in un locale sui Navigli a Milano. Suonare cosa? Bè, il pianoforte o il contrabbasso, o magari il clarinetto, buttava lì con aria divertita e tu non capivi se fosse segno di una solida e vasta preparazione musicale o di una propensione alla spacconata da bar. Ma ancora non aveva deciso quale strumento suonare che dovette abbandonare il progetto, su qualunque dei tre fosse caduta la sua scelta. Il padre sopraffatto dai debiti,dal vino e dalle donne, si era arreso con una corda stretta attorno al collo, lasciandogli in eredità, tra cambiali e ipoteche, l’alberghetto di famiglia che anno dopo anno aveva ormai ridotto a uno stato miserevole.

In paese rimpiangevano il signor Corrado, capostipite dei Fiorucci, che a suo tempo aveva avuto fiuto nel fondare la “Pensione Esmeralda” e abilità nel portarla a un minimo splendore, e che ora, a detta di tutti, sarebbe stato l’unico in grado di raddrizzare la baracca, non fosse morto da quasi mezzo secolo. Se qualcuno accennava a Vittorio, magari lui ce la farà, gli altri lo zittivano con un oh, quello è un artista, scuotendo le capocce come stessero parlando di un mezzo delinquente. Insomma, bocciato ai loro occhi prima ancora di tentare.

Era subentrata anche un’ulteriore difficoltà oggettiva, proprio quell’anno era stata inaugurata una bretella a mezza costa che velocizzava il traffico e tagliava fuori il paese rivierasco dalle rotte turistiche. Sarà la morte del paese, dicevano sul sagrato dopo messa e poi lo ripetevano trangugiando bianchetti come ostie. Sarà la nostra fortuna, replicava lui, per amore di polemica o forse perché vedeva più lontano.

Il signor Fiorucci, prima di iniziare i lavori di ristrutturazione, fece due mosse fondamentali, cambiò il nome all’edificio che divenne “Albergo Fiorucci” a simboleggiare la rinascita nella continuità della stirpe, lui l’unico Fiorucci rimasto. E sposò Adalgisa Stacchetti, ragazza poco avvenente ma dotata di un senso pratico impareggiabile. L’Adalgisa, fresca diplomata in segretariato d’azienda che in paese equivaleva a una laurea alla Bocconi, era il contrappeso necessario agli slanci troppo fantasiosi del marito. Lei prese in mano i conti, trattò con i creditori ottenendo dilazioni e contattò con successo una banca per un piccolo finanziamento. Lui, con la solida lentezza di un cavallo da tiro, le briglie alla moglie, affidatele volutamente, iniziò ad apportare alcune modifiche alla struttura, via la vecchia carta da parati, pareti lasciate nude e rinfrescate con un sobrio color panna, ampie vetrate a chiudere la veranda affacciata sul lago e a farne il cuore dell’albergo in tutte le stagioni, un pergolato a ricavare uno spazio ombroso con qualche tavolino a ridosso del versante dell’edificio che dava sulla piazzetta spoglia del paese, piccole cose che però nel loro insieme offrivano un’immagine nuova della struttura. Come ultimo atto prima di ridare l’avvio all’attività, Vittorio dipinse su due grandi lastre rettangolari un girasole e, sotto a questo la semplice scritta in giallo albergo fiorucci con una freccia a indicare la giusta direzione. Li appese ben visibili a un palo, ai due estremi della bretella stradale, dove questa si raccordava con la vecchia strada lungolago.

Certo non è che i clienti arrivarono a frotte, semmai alla spicciolata, gente senza fretta disposta a una deviazione, amanti della quiete di un paese divenuto solitario, turisti stanchi del viaggio attratti dal girasole dell’insegna, stranieri che sulla via del ritorno, affamati di un ultimo scorcio d’Italia, facevano tappa in quel luogo che si erano lasciati sfuggire all’andata. Vittorio li accoglieva in guanti bianchi, non quelli di filo da compassato maestro di sala, quelli gommosi e spessi da cucina, perché c’era sempre qualche lavoretto da fare, annaffiare il glicine, riparare una panchina, sistemare un lampioncino sotto il pergolato, zappettare attorno alle begonie in vaso, che se non li faceva lui quei lavoretti nessun altro li faceva. I clienti lo scambiavano per un garzone ma lui se ne fregava, con il suo sorrisetto da topo si sfilava un guanto e stringeva mani perplesse imbastendo un linguaggio tutto suo dove mescolava dialetto locale, italiano, qualche parola tedesca, pochi termini in inglese, un minestrone naif che risultava quasi comprensibile, ma vista lago lo sapeva dire in dodici lingue, anche a sproposito che magari spalancavi le ante della camera e ti trovavi davanti un muro.

Con i primi guadagni acquistò un pianoforte a coda che piazzò a un estremo della sala da pranzo. Adalgisa si oppose a più riprese, perdiamo tre tavoli! E poi non serve a nulla, mica possiamo assoldare un pianista e chi lo suona, tu?!, e sull’ultima battuta velenosa era come avesse dato uno strattone alle briglie a ricondurre il suo cavallo al passo giusto. Ma Vittorio questa volta fu irremovibile, sta lì, è un tocco di bellezza.

E per lungo tempo il pianoforte rimase lì, inoperoso, con sopra un centrino e un vaso di gerani. L’uomo ci passava accanto mentre serviva ai tavoli e ogni volta aveva un piccolo fremito come una nostalgia a cui non riusciva a dare forma. Finchè una sera di settembre non diversa dalle altre, la sala un vociare bisbigliato, tranne un tavolo di milanesi dell’hinterland, Abbiategrasso o giù di lì, che stavano d’istinto parecchi decibel sopra gli altri, i finestroni spalancati sull’odore pungente del lago, i piatti che viaggiavano veloci dalla cucina ai tavoli, Vittorio si bloccò a metà di una comanda. Con un cenno si fece sostituire al tavolo dalla figlia, che prese intimidita la sua prima ordinazione, e si sedette al piano. La moglie arcigna dalla cassa, suo trono incontrastato, gli lanciò occhiate di fuoco, ma lui aveva gli occhi chiusi e le dita che fremevano come le zampette del topino di un tempo. Attaccò con la vie en rose storpiandola non poco, si rinfrancò con il cielo in una stanza, accompagnò la musica di stranger in the night con un mugolio a bocca chiusa. Non si interrompeva tra un brano e l’altro, era un accavallarsi di suoni, come fanno a volte le onde del mare che non sai dove finisce una e inizia un’altra, a mano a mano che le canzoni gli tornavano in mente, Mina, Battisti, i Beatles, Bruno Lauzi, Donovan. Una musica dolce e frenetica, dall’intenzione appassionata e dalla resa non certo impeccabile. Ai tavoli nessuno sembrava badargli, gli svizzeri cenavano in silenzio, i tedeschi appena più rumorosi, i milanesi il chiasso solito, una coppia giovane discuteva in una lingua sconosciuta che poteva essere estone o gallurese. Ma di quanto succedeva nella sala a lui non importava, stava suonando per se stesso, non per intrattenere un pubblico. O forse gli sembrava di intrattenere un pubblico di un altrove lontano nel tempo e nello spazio.

Quando cessò la musica cessò anche il brusio ai tavoli in un silenzio imbarazzato. Poi un tipo che cenava da solo in braghette da ciclista accennò un battimani. Contemporaneamente la ragazza estone si alzò dal suo tavolo, si avvicinò al pianoforte, staccò un geranio dal vaso e rossa in viso, ma forse aveva solo preso troppo sole italiano, lo offrì all’esterrefatto pianista. A quel punto anche il ghiaccio nordico si sciolse e svizzeri, tedeschi, i pochi inglesi, pure i due ragazzotti norvegesi fino a quel momento indifferenti come soprammobili, si unirono in un applauso davvero fragoroso, almeno per i loro standard compassati.

Il signor Fiorucci fece un mezzo inchino e poi fissò i suoi clienti con un sorriso furbetto a metà tra il topino che ha superato indenne l’esperimento di laboratorio e il bambino che l’ha combinata grossa ma sa che nessuna punizione potrà togliergli la gioia del momento.





 
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