Albergo
Fiorucci
di
massimolegnani
Vittorio
Fiorucci aveva una faccia da topo e un animo da artista. Del roditore
aveva gli occhi vispi, una barbetta ispida e un muoversi a scatti
imprevedibili, come un topino di laboratorio di cui peraltro
possedeva anche la taglia contenuta. Dell’artista la vena
innata e il sogno di suonare in un locale sui Navigli a Milano.
Suonare cosa? Bè, il pianoforte o il contrabbasso, o magari
il clarinetto, buttava lì con aria divertita e tu non
capivi se fosse segno di una solida e vasta preparazione musicale o
di una propensione alla spacconata da bar. Ma ancora non aveva deciso
quale strumento suonare che dovette abbandonare il progetto, su
qualunque dei tre fosse caduta la sua scelta. Il padre sopraffatto
dai debiti,dal vino e dalle donne, si era arreso con una corda
stretta attorno al collo, lasciandogli in eredità, tra
cambiali e ipoteche, l’alberghetto di famiglia che anno dopo
anno aveva ormai ridotto a uno stato miserevole.
In
paese rimpiangevano il signor Corrado, capostipite dei Fiorucci, che
a suo tempo aveva avuto fiuto nel fondare la “Pensione
Esmeralda” e abilità nel portarla a un minimo
splendore, e che ora, a detta di tutti, sarebbe stato l’unico
in grado di raddrizzare la baracca, non fosse morto da quasi mezzo
secolo. Se qualcuno accennava a Vittorio, magari lui ce la farà,
gli altri lo zittivano con un oh, quello è un artista,
scuotendo le capocce come stessero parlando di un mezzo delinquente.
Insomma, bocciato ai loro occhi prima ancora di tentare.
Era
subentrata anche un’ulteriore difficoltà oggettiva,
proprio quell’anno era stata inaugurata una bretella a mezza
costa che velocizzava il traffico e tagliava fuori il paese
rivierasco dalle rotte turistiche. Sarà la morte del paese,
dicevano sul sagrato dopo messa e poi lo ripetevano trangugiando
bianchetti come ostie. Sarà la nostra fortuna,
replicava lui, per amore di polemica o forse perché vedeva più
lontano.
Il
signor Fiorucci, prima di iniziare i lavori di ristrutturazione, fece
due mosse fondamentali, cambiò il nome all’edificio che
divenne “Albergo Fiorucci” a simboleggiare la
rinascita nella continuità della stirpe, lui l’unico
Fiorucci rimasto. E sposò Adalgisa Stacchetti, ragazza poco
avvenente ma dotata di un senso pratico impareggiabile. L’Adalgisa,
fresca diplomata in segretariato d’azienda che in paese
equivaleva a una laurea alla Bocconi, era il contrappeso necessario
agli slanci troppo fantasiosi del marito. Lei prese in mano i conti,
trattò con i creditori ottenendo dilazioni e contattò
con successo una banca per un piccolo finanziamento. Lui, con la
solida lentezza di un cavallo da tiro, le briglie alla moglie,
affidatele volutamente, iniziò ad apportare alcune modifiche
alla struttura, via la vecchia carta da parati, pareti lasciate nude
e rinfrescate con un sobrio color panna, ampie vetrate a chiudere la
veranda affacciata sul lago e a farne il cuore dell’albergo in
tutte le stagioni, un pergolato a ricavare uno spazio ombroso con
qualche tavolino a ridosso del versante dell’edificio che dava
sulla piazzetta spoglia del paese, piccole cose che però nel
loro insieme offrivano un’immagine nuova della struttura. Come
ultimo atto prima di ridare l’avvio all’attività,
Vittorio dipinse su due grandi lastre rettangolari un girasole e,
sotto a questo la semplice scritta in giallo albergo fiorucci
con una freccia a indicare la giusta direzione. Li appese ben
visibili a un palo, ai due estremi della bretella stradale, dove
questa si raccordava con la vecchia strada lungolago.
Certo
non è che i clienti arrivarono a frotte, semmai alla
spicciolata, gente senza fretta disposta a una deviazione, amanti
della quiete di un paese divenuto solitario, turisti stanchi del
viaggio attratti dal girasole dell’insegna, stranieri che sulla
via del ritorno, affamati di un ultimo scorcio d’Italia,
facevano tappa in quel luogo che si erano lasciati sfuggire
all’andata. Vittorio li accoglieva in guanti bianchi, non
quelli di filo da compassato maestro di sala, quelli gommosi e spessi
da cucina, perché c’era sempre qualche lavoretto da
fare, annaffiare il glicine, riparare una panchina, sistemare un
lampioncino sotto il pergolato, zappettare attorno alle begonie in
vaso, che se non li faceva lui quei lavoretti nessun altro li faceva.
I clienti lo scambiavano per un garzone ma lui se ne fregava, con il
suo sorrisetto da topo si sfilava un guanto e stringeva mani
perplesse imbastendo un linguaggio tutto suo dove mescolava dialetto
locale, italiano, qualche parola tedesca, pochi termini in inglese,
un minestrone naif che risultava quasi comprensibile, ma vista
lago lo sapeva dire in dodici lingue, anche a sproposito che
magari spalancavi le ante della camera e ti trovavi davanti un muro.
Con
i primi guadagni acquistò un pianoforte a coda che piazzò
a un estremo della sala da pranzo. Adalgisa si oppose a più
riprese, perdiamo tre tavoli! E poi non serve a nulla, mica
possiamo assoldare un pianista e chi lo suona, tu?!, e
sull’ultima battuta velenosa era come avesse dato uno strattone
alle briglie a ricondurre il suo cavallo al passo giusto. Ma Vittorio
questa volta fu irremovibile, sta lì, è un tocco di
bellezza.
E
per lungo tempo il pianoforte rimase lì, inoperoso, con sopra
un centrino e un vaso di gerani. L’uomo ci passava accanto
mentre serviva ai tavoli e ogni volta aveva un piccolo fremito come
una nostalgia a cui non riusciva a dare forma. Finchè una sera
di settembre non diversa dalle altre, la sala un vociare bisbigliato,
tranne un tavolo di milanesi dell’hinterland, Abbiategrasso o
giù di lì, che stavano d’istinto parecchi decibel
sopra gli altri, i finestroni spalancati sull’odore pungente
del lago, i piatti che viaggiavano veloci dalla cucina ai tavoli,
Vittorio si bloccò a metà di una comanda. Con un cenno
si fece sostituire al tavolo dalla figlia, che prese intimidita la
sua prima ordinazione, e si sedette al piano. La moglie arcigna dalla
cassa, suo trono incontrastato, gli lanciò occhiate di fuoco,
ma lui aveva gli occhi chiusi e le dita che fremevano come le
zampette del topino di un tempo. Attaccò con la vie en rose
storpiandola non poco, si rinfrancò con il cielo in una
stanza, accompagnò la musica di stranger in the night
con un mugolio a bocca chiusa. Non si interrompeva tra un brano e
l’altro, era un accavallarsi di suoni, come fanno a volte le
onde del mare che non sai dove finisce una e inizia un’altra, a
mano a mano che le canzoni gli tornavano in mente, Mina, Battisti, i
Beatles, Bruno Lauzi, Donovan. Una musica dolce e frenetica,
dall’intenzione appassionata e dalla resa non certo
impeccabile. Ai tavoli nessuno sembrava badargli, gli svizzeri
cenavano in silenzio, i tedeschi appena più rumorosi, i
milanesi il chiasso solito, una coppia giovane discuteva in una
lingua sconosciuta che poteva essere estone o gallurese. Ma di quanto
succedeva nella sala a lui non importava, stava suonando per se
stesso, non per intrattenere un pubblico. O forse gli sembrava di
intrattenere un pubblico di un altrove lontano nel tempo e nello
spazio.
Quando
cessò la musica cessò anche il brusio ai tavoli in un
silenzio imbarazzato. Poi un tipo che cenava da solo in braghette da
ciclista accennò un battimani. Contemporaneamente la ragazza
estone si alzò dal suo tavolo, si avvicinò al
pianoforte, staccò un geranio dal vaso e rossa in viso, ma
forse aveva solo preso troppo sole italiano, lo offrì
all’esterrefatto pianista. A quel punto anche il ghiaccio
nordico si sciolse e svizzeri, tedeschi, i pochi inglesi, pure i due
ragazzotti norvegesi fino a quel momento indifferenti come
soprammobili, si unirono in un applauso davvero fragoroso, almeno per
i loro standard compassati.
Il
signor Fiorucci fece un mezzo inchino e poi fissò i suoi
clienti con un sorriso furbetto a metà tra il topino che ha
superato indenne l’esperimento di laboratorio e il bambino che
l’ha combinata grossa ma sa che nessuna punizione potrà
togliergli la gioia del momento.
|