La
vera umanità
di
massimolegnani
Ho
bisogno di parlarvi, perché devo trovare qualcuno che
comprenda. E io stesso devo capire quale sia la vera
umanità...
Pioggia
torrenziale l’altra notte. Attraversando il ponte sulla Dora,
per un istante i miei fari illuminano un’ombra in bilico al di
là della spalletta. Inchiodo l’auto, salto giù e
corro indietro urlando. Due occhi allucinati si voltano e mi scrutano
muti, in procinto di spiccare il volo. Non so come, riesco ad
agguantare la figura resa viscida dalla pioggia. Una lotta furiosa,
fatti i cazzi tuoi
mi grida,
lasciami andare, e tenta
di divincolarsi graffiando e mordendo. Sono molto più forte di
lei ed alla fine riesco a ribaltarla al di qua del muretto. Sì,
è una donna, una donna rabbiosa e disperata. Con le ultime
energie cerca ancora di prendermi a calci, mi maledice, alla fine si
affloscia tra le mie braccia priva di sensi. E’ incredibilmente
leggera, il peso di una bambina, mentre la porto verso la mia auto.
La stendo sul sedile e torno indietro a cercare se avesse lasciato
qualcosa. Trovo una borsetta con dentro una lettera, i documenti e un
mazzo di chiavi.
Ho
appena salvato una vita umana, è un turbinio di emozioni,
senso di onnipotenza, incertezza sul da farsi! Non so bene come
comportarmi, ma sono euforico. Leggo l’indirizzo sulla carta
d’identità, non è distante, così decido di
riportarla a casa, forse qualcuno la sta aspettando, forse riesco a
rimettere a posto le cose senza che si debba forza ufficializzare
l’accaduto. Cristina Donadoni, così si chiama, è
ancora svenuta e la sento tremare, forse delirare.
Ho
suonato a lungo alla porta senza ricevere risposta, allora cerco le
chiavi nella borsetta e apro con quelle. Accendo una luce, entro con
lei in braccio e la stendo su un divano. Finalmente la guardo, ha un
volto scarno, di un colore orrendo tra il grigio e il giallastro,
eppure un tempo, non so quando, doveva essere stata una bella
ragazza. Ora è una donna senza più un’età.
Le sfilo i vestiti zuppi d’acqua, il corpo è scavato,
come fosse stato risucchiato via, dall’interno. Sulle braccia i
segni di mille aghi.
Una
tossica! Mai sopportato i tossici.
L’avvolgo
in una coperta e decido di andarmene, la mia parte ormai l’ho
fatta. Non ho intenzione di saperne di più o di tentare
un’impossibile redenzione, non ho la stoffa del
missionario.
Riapre
gli occhi appena prima che abbia guadagnato l’uscio. Perchè
l’hai fatto?, è
lei che m’interroga!
-
Guarda che dovrei essere io a chiedertelo.
-
Adesso chissà quanto tempo passerà, quanto ancora dovrò
soffrire, prima di trovare la forza per riprovarci. È
faticoso, sai, uccidersi. Non te lo perdonerò mai. Per che
cosa, poi?
- Cazzo!
Non che mi aspettassi riconoscenza, ma trattarmi come fossi il tuo
assassino! La prossima volta fatti un’overdose delle tue
schifezze anzichè buttarti da un ponte, così non
rischierò di salvarti.
-
Non mi hai salvato. E non sono schifezze, è morfina.
-
Morfina? E non è una droga?
-
No! È l’unico modo per avere una tregua.
-
Chiamala come vuoi, per me è sempre una fuga dalla realtà.
Poi alla realtà ci devi tornare allora ecco che non trovi di
meglio che buttarti da un ponte.
Mi
dà sui nervi quella mentalità da struzzi e ancor più
mi irrita questa tossica che ha buttato via la vita ben prima di
tentare il suicidio.
Cristina
mi guarda senza più rabbia, solo desolazione.
-
Tu sai che cos’è il dolore fisico? Il dolore bastardo,
il tarlo schifoso che ti corrode il corpo e ti annienta la mente, tu
lo conosci il DOLORE?
Ha
scandito l’ultima parola senza urlare ma con la ferocia di una
scudisciata. E poi ha taciuto.
Di
colpo capisco. Sento nascermi dentro lo sgomento e con lo sgomento si
sgretolano le certezze, non so più dove è il bene e
dove il male. E si scolorano le etichette con cui ho sempre
classificato senza tentennamenti episodi e persone.
Cristina
cambia fisionomia sotto i miei occhi, non è più la
tossica strafatta ma una malata terminale.
Da
quel momento tutto si confonde.
Ammutolisco
mentre lei riprende a parlare. Parla di metastasi e di aspettative
spezzate, di cure palliative, è
un eufemismo che i medici usano per dirti che sei spacciata,
e di solitudine nel dolore, ti
si appiccica addosso come colla e non c’è affetto che te
lo possa togliere. E
mentre parla con fatica, lo vedo il dolore che le mozza le parole e
le sale fino agli occhi.
Sono
smarrito, non so che fare.
Le
prendo la mano ossuta, me la porto alle labbra. Improvvisamente
vorrei regalarle amore, vorrei rimediare. Non provo orrore per quel
corpo in sfacelo, vorrei farle l’amore dolce per ricongiungerla
alla vita. Lei mi passa dita faticose tra la barba e scuote la testa
con un sorriso mesto, come avesse letto i miei pensieri.
E
riprende a parlare con sempre maggior difficoltà, mi racconta
spezzoni di vita senza cronologia né un orientamento che mi
possa aiutare a ricomporre il suo mosaico. Ogni tanto mi chiede la
morfina che poi si inietta da sola e allora i suoi discorsi diventano
allucinati. Ha chiesto a Dio l’autorizzazione scritta a partire
ma manca un timbro, non può partire senza quel timbro. E mi
chiama coi nomi più bizzarri, forse di animali o di bambini, e
mi chiama anche amore e io le rispondo, le rispondo sempre, sono
qua, le dico, ma lei
forse non capisce e cambia nome e grida piano e io le rispondo
ancora, ma so balbettare solo sono
qua, lo ripeto di
continuo, perché in qualche modo devo rimediare.
Passiamo
ore in un’altalena macabra di delirio e lucidità. Ogni
volta, quando lentamente riacquista piena coscienza, assieme alla
coscienza le torna il dolore. Lei non lo dice, ma ho imparato in
fretta a riconoscerlo, il suo dolore. Lo vedo affiorare dal profondo
in zone del corpo sempre diverse e lì formare tante piccole
rughe e cambiare il colore alla pelle. E io guardo impotente questi
dolori rossi che sbocciano come papaveri in una giornata calda di
giugno. E vorrei falciare il suo campo di papaveri immondi e farle
crescere il grano, perchè devo rimediare.
È
mattino, abbiamo attraversato la notte parlando e soffrendo insieme.
La guardo, finalmente ha un volto disteso, quasi sereno.
Un’ora
fa mi ha detto mi fido di
te, Massimo, so che non mi deluderai.
Ho
masticato quelle parole per un’ora, come una foglia di coca che
piano piano mi stordisce e mi rafforza.
È
meglio che prima tu mi dia la morfina, non sono coraggiosa,
ha aggiunto pochi minuti fa.
Abbiamo
aspettato che facesse effetto tenendoci per mano, poi, quando lei è
entrata in quel sonno strano, le ho messo un cuscino sulla faccia.
Non
si è quasi dibattuta, come un pesce ormai spossato sul fondo
della barca.
La
guardo, ha impressa in volto un’espressione serena, come una
liberazione.
Dovevo
rimediare, mi capite, vero?
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