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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  La vera umanità, di massimolegnani 10/10/2018
 

La vera umanità

di massimolegnani



Ho bisogno di parlarvi, perché devo trovare qualcuno che comprenda. E io stesso devo capire quale sia la vera umanità... 

Pioggia torrenziale l’altra notte. Attraversando il ponte sulla Dora, per un istante i miei fari illuminano un’ombra in bilico al di là della spalletta. Inchiodo l’auto, salto giù e corro indietro urlando. Due occhi allucinati si voltano e mi scrutano muti, in procinto di spiccare il volo. Non so come, riesco ad agguantare la figura resa viscida dalla pioggia. Una lotta furiosa, fatti i cazzi tuoi mi grida, lasciami andare, e tenta di divincolarsi graffiando e mordendo. Sono molto più forte di lei ed alla fine riesco a ribaltarla al di qua del muretto. Sì, è una donna, una donna rabbiosa e disperata. Con le ultime energie cerca ancora di prendermi a calci, mi maledice, alla fine si affloscia tra le mie braccia priva di sensi. E’ incredibilmente leggera, il peso di una bambina, mentre la porto verso la mia auto. La stendo sul sedile e torno indietro a cercare se avesse lasciato qualcosa. Trovo una borsetta con dentro una lettera, i documenti e un mazzo di chiavi. 
Ho appena salvato una vita umana, è un turbinio di emozioni, senso di onnipotenza, incertezza sul da farsi! Non so bene come comportarmi, ma sono euforico. Leggo l’indirizzo sulla carta d’identità, non è distante, così decido di riportarla a casa, forse qualcuno la sta aspettando, forse riesco a rimettere a posto le cose senza che si debba forza ufficializzare l’accaduto. Cristina Donadoni, così si chiama, è ancora svenuta e la sento tremare, forse delirare. 
Ho suonato a lungo alla porta senza ricevere risposta, allora cerco le chiavi nella borsetta e apro con quelle. Accendo una luce, entro con lei in braccio e la stendo su un divano. Finalmente la guardo, ha un volto scarno, di un colore orrendo tra il grigio e il giallastro, eppure un tempo, non so quando, doveva essere stata una bella ragazza. Ora è una donna senza più un’età. Le sfilo i vestiti zuppi d’acqua, il corpo è scavato, come fosse stato risucchiato via, dall’interno. Sulle braccia i segni di mille aghi. 
Una tossica! Mai sopportato i tossici. 
L’avvolgo in una coperta e decido di andarmene, la mia parte ormai l’ho fatta. Non ho intenzione di saperne di più o di tentare un’impossibile redenzione, non ho la stoffa del missionario. 
Riapre gli occhi appena prima che abbia guadagnato l’uscio. Perchè l’hai fatto?, è lei che m’interroga! 
- Guarda che dovrei essere io a chiedertelo.
- Adesso chissà quanto tempo passerà, quanto ancora dovrò soffrire, prima di trovare la forza per riprovarci. È faticoso, sai, uccidersi. Non te lo perdonerò mai. Per che cosa, poi?
- Cazzo! Non che mi aspettassi riconoscenza, ma trattarmi come fossi il tuo assassino! La prossima volta fatti un’overdose delle tue schifezze anzichè buttarti da un ponte, così non rischierò di salvarti.
- Non mi hai salvato. E non sono schifezze, è morfina. 
- Morfina? E non è una droga?
- No! È l’unico modo per avere una tregua.  
- Chiamala come vuoi, per me è sempre una fuga dalla realtà. Poi alla realtà ci devi tornare allora ecco che non trovi di meglio che buttarti da un ponte.

 
Mi dà sui nervi quella mentalità da struzzi e ancor più mi irrita questa tossica che ha buttato via la vita ben prima di tentare il suicidio. 
Cristina mi guarda senza più rabbia, solo desolazione. 
- Tu sai che cos’è il dolore fisico? Il dolore bastardo, il tarlo schifoso che ti corrode il corpo e ti annienta la mente, tu lo conosci il DOLORE?

Ha scandito l’ultima parola senza urlare ma con la ferocia di una scudisciata. E poi ha taciuto.

Di colpo capisco. Sento nascermi dentro lo sgomento e con lo sgomento si sgretolano le certezze, non so più dove è il bene e dove il male. E si scolorano le etichette con cui ho sempre classificato senza tentennamenti episodi e persone. 
Cristina cambia fisionomia sotto i miei occhi, non è più la tossica strafatta ma una malata terminale. 
Da quel momento tutto si confonde. 
Ammutolisco mentre lei riprende a parlare. Parla di metastasi e di aspettative spezzate, di cure palliative, è un eufemismo che i medici usano per dirti che sei spacciata, e di solitudine nel dolore, ti si appiccica addosso come colla e non c’è affetto che te lo possa togliere. E mentre parla con fatica, lo vedo il dolore che le mozza le parole e le sale fino agli occhi. 
Sono smarrito, non so che fare. 
Le prendo la mano ossuta, me la porto alle labbra. Improvvisamente vorrei regalarle amore, vorrei rimediare. Non provo orrore per quel corpo in sfacelo, vorrei farle l’amore dolce per ricongiungerla alla vita. Lei mi passa dita faticose tra la barba e scuote la testa con un sorriso mesto, come avesse letto i miei pensieri. 
E riprende a parlare con sempre maggior difficoltà, mi racconta spezzoni di vita senza cronologia né un orientamento che mi possa aiutare a ricomporre il suo mosaico. Ogni tanto mi chiede la morfina che poi si inietta da sola e allora i suoi discorsi diventano allucinati. Ha chiesto a Dio l’autorizzazione scritta a partire ma manca un timbro, non può partire senza quel timbro. E mi chiama coi nomi più bizzarri, forse di animali o di bambini, e mi chiama anche amore e io le rispondo, le rispondo sempre, sono qua, le dico, ma lei forse non capisce e cambia nome e grida piano e io le rispondo ancora, ma so balbettare solo sono qua, lo ripeto di continuo, perché in qualche modo devo rimediare. 
Passiamo ore in un’altalena macabra di delirio e lucidità. Ogni volta, quando lentamente riacquista piena coscienza, assieme alla coscienza le torna il dolore. Lei non lo dice, ma ho imparato in fretta a riconoscerlo, il suo dolore. Lo vedo affiorare dal profondo in zone del corpo sempre diverse e lì formare tante piccole rughe e cambiare il colore alla pelle. E io guardo impotente questi dolori rossi che sbocciano come papaveri in una giornata calda di giugno. E vorrei falciare il suo campo di papaveri immondi e farle crescere il grano, perchè devo rimediare. 
È mattino, abbiamo attraversato la notte parlando e soffrendo insieme. La guardo, finalmente ha un volto disteso, quasi sereno. 
Un’ora fa mi ha detto mi fido di te, Massimo, so che non mi deluderai.

Ho masticato quelle parole per un’ora, come una foglia di coca che piano piano mi stordisce e mi rafforza. 
È meglio che prima tu mi dia la morfina, non sono coraggiosa, ha aggiunto pochi minuti fa. 
Abbiamo aspettato che facesse effetto tenendoci per mano, poi, quando lei è entrata in quel sonno strano, le ho messo un cuscino sulla faccia.

Non si è quasi dibattuta, come un pesce ormai spossato sul fondo della barca. 
La guardo, ha impressa in volto un’espressione serena, come una liberazione. 

Dovevo rimediare, mi capite, vero? 

 
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