La bicicletta nera
Avevano
lasciato Mainz nella tarda mattinata e ora
l'automobile percorreva a velocità turistica la bella strada che, costeggiando
il Reno, li avrebbe portati a Koblenz dove contavano
di pernottare.
“Bingen am Rhein - willkommen zum winzerfest 1985”
recitava il cartello all'ingresso di una cittadina
arrampicata tra il grande fiume e le alture verdeggianti di viti.
Il piede
si sollevò di colpo dall'acceleratore e l'automobile iniziò a rallentare in
mezzo alla strada, tra le proteste dei guidatori che la seguivano.
- Cosa
fai Pietro, perché ti fermi?-
Le mani
dell'uomo erano serrate sul volante.
- Bingen! Lia, ti dice niente questo nome?-
- Certo -
la donna sollevò lo sguardo da un libretto che teneva sulle ginocchia - la
guida dice che qui producono dell'ottimo vino, che “winzerfest”
è la festa della vendemmia e che c'è un interessante museo dedicato a Ildegarda
da Bingen, profetessa e scrittrice medioevale; che
noia, mica vorrai visitarlo, vero?-
Pietro,
un uomo di una settantina d'anni ben portati, accostò, fermò l'automobile e
guardò la sua compagna di tutta una vita.
- La tua
memoria se ne sta andando, Lia. Bingen: devi
ricordare, te l'avrò raccontata centinaia di volte quella storia.-
Pietro
aveva un'espressione irritata, era incredibile che Lia potesse dimenticare
“quella” storia, lui l'aveva ancora vivida in mente come fosse
accaduta da pochi giorni e non da quarant'anni.
- Pietro
scusami, - la voce di Lia era dolce ma ferma – mi
ricordo, certo. Ma a differenza di te ho cercato di rimuovere; tu hai fatto
quello che dovevi per la tua famiglia, non potevi fare altro. Comunque ricordo:
Bingen, il paese di quel soldato.-
- Sì,
infatti. Fermiamoci, mi piacerebbe fare due passi, poi è quasi ora di pranzo.-
Lasciarono
la macchina in un parcheggio e si avviarono a piedi verso il centro storico,
attraverso stradine pulite e ordinate.
- Guarda
– disse Pietro – in questi posti sembra che il tempo si sia fermato. Scommetto
che quando quel ragazzone lasciò Bingen per andare in
guerra tutto era esattamente così.-
- Non hai
mai smesso di pensarci, dopo tutti questi anni, vero?.-
- Sì, tu
lo sai, io non ho mai fatto del male a nessuno, la mia guerra l'ho combattuta
impugnando un cacciavite, non un fucile. Ma quella volta, quella bicicletta era
troppo importante, era la mia speranza per noi. Tu aspettavi Gianni, c'era già
Franchina, dovevo fare qualcosa.-
Forse Bingen non era cambiata, ma la vita di una famiglia di
quella cittadina lo era di certo, pensò Pietro, portato dal caso a chiudere il
cerchio rimasto aperto da troppi anni. Esattamente dal Febbraio del 1945, non
l'avrebbe mai dimenticato.
Stava
pedalando faticosamente su per i tornanti della Cisa,
l'antica via del sale che univa l'estremo lembo di Liguria orientale alla
pianura padana.
La vecchia
bicicletta nera, sua compagna da quando era adolescente, era stata adattata a
trainare un piccolo rimorchio. Su quel carrettino, Pietro avrebbe caricato
verdura fresca, uova, farina, magari dei conigli e qualche pollo.
O almeno
lo sperava, perché aveva una moglie, una figlia di due anni e un'altra creatura
era attesa per la tarda primavera, doveva cercare di farle mangiare tutti i
giorni.
- Non mi
deve succedere niente; non per me, ma per loro - era il pensiero ricorrente che
tormentava Pietro.
Il pericolo
c'era, anzi, di pericoli ce n'erano tanti.
Perché
lui un lavoro, e pure buono, l'aveva avuto. Ma dopo l'otto settembre i tedeschi
avevano preso il comando dell'arsenale militare che dava da vivere a buona parte della popolazione di La Spezia e dintorni.
Grazie alla sua abilità di meccanico di precisione, specialista in bussole e
meccanismi di controllo del tiro, sin dall'inizio della guerra lo avevano messo
nella lista di quelle persone più utili a lavorare su incrociatori,
sommergibili e fregate, piuttosto che a buttare il sangue al fronte. Ma lui con
i tedeschi non voleva avere nulla a che fare e una mattina aveva deciso di
averne abbastanza. Aveva preso moglie e figlia e, un po' a piedi, un po' sulla
bicicletta, si era trasferito dove la Liguria sfuma tra Emilia e Toscana
accarezzando l'ampia valle del Magra.
In quella
zona passava la linea gotica, estrema difesa dei tedeschi e dei repubblichini
contro la risalita degli alleati che oramai erano arrivati sul litorale
toscano. Non c'era borgo o vallata che potesse
definirsi tranquilla, con le bande di partigiani impegnate a disturbare le
retrovie dei tedeschi i quali, aiutati dalle camicie nere, a loro volta
rastrellavano ogni angolo per quanto remoto, nel tentativo di neutralizzare i
partigiani e di far terra bruciata intorno a loro, terrorizzando la popolazione
civile con razzie e rappresaglie.
Naturalmente
Pietro doveva stare nascosto, ché se lo avessero trovato i tedeschi e se fosse
stato fortunato, lo avrebbero costretto a lavorare ancora per loro. Ma avrebbe
potuto essere meno fortunato. Il paesino, arrampicato sullo spartiacque a
cavallo tra il Magra e la val
di Vara, era quello della sua infanzia, e lì aveva trovato calda e semplice
ospitalità presso i suoi genitori, tipici contadini di montagna che tiravano
avanti spaccandosi la schiena a coltivare qualche fascia sassosa strappata al
bosco, raccogliendo le castagne e mungendo un paio di mucche più affamate e
macilente di loro stessi.
Quello
che c'era lo avevano diviso di cuore col figlio, la nuora, la bambina nata e la
creatura che doveva arrivare, ma in quel modo tutti facevano la fame,
soprattutto i vecchi che sacrificavano silenziosamente i loro magri bocconi per
quella vita che doveva nascere.
- Devo
andare a Berceto, dallo zio Giulio - aveva detto
Pietro una sera, mentre erano tutti intorno al tavolo a dividersi il nulla.
- Lo zio
Giulio? – aveva chiesto il padre con tono serio – quello sta coi fascisti, coi
tedeschi, capace che ti denuncia. -
- No, non
lo farà, a suo modo ci vuole bene, e poi lui se la cava alla grande, ha le
bestie e la terra, ci aiuterà. -
La
discussione era stata breve, ma alla fine tutti convennero che era l'unica cosa da fare, anche se pericolosa.
Per
quella ragione Pietro stava arrancando su per la Cisa,
un po' pedalando e un po' camminando, trascinandosi la bicicletta e il
rimorchio attaccato dietro. Lo aveva costruito lui quel il rimorchio, con due
ruote di bicicletta, un telaio di sottili tubi di ferro e tavole di legno. Poi,
a malincuore, aveva modificato la bicicletta, eliminando il freno posteriore
per prolungare il cavo flessibile in modo da azionare i freni montati sulle
ruote del carretto. Pensava, giustamente, che in discesa il rimorchio avrebbe
frenato anche la bicicletta senza rischiare pericolosi sbandamenti.
Mentre
saliva, ricordava con nostalgia quando percorreva
quella strada solo pochi anni prima. Da ragazzo era andato molte volte con la
sua bicicletta e gli amici di sempre oltre Pontremoli,
per veder rotolare nuvole di polvere giù per la statale, e dentro una nuvola
rombante c'era Caracciola, in un'altra Nuvolari, o Brilli-Peri, o Varzi o tanti altri coraggiosi, sporchi, rumorosi eroi che
attraversavano mezza Italia per quelle mille miglia di corsa spesso assassina.
Adesso l'assassina era la guerra, la miseria della polvere di marmo mischiata
alla farina per fare più pane, e naturalmente le pallottole, le bombe, le
granate, i cento modi ingegnosi di uccidere nemici e poveri cristi in cerca
solo di un respiro per vivere.
Respiro,
quello che gli bruciava i polmoni nonostante la neve ai lati della strada,
mentre spingeva i pedali su per l'ultimo tratto di salita, il rimorchio a
traballare pesante come piombo anche ora che era vuoto. Ma al ritorno, sperava,
sarebbe stato pieno, quello era l'importante.
- Halt, fermo o io sparo! –
La voce
secca, gridata con forte accento tedesco, lo scosse dai suoi pensieri. Pietro
si era distratto, aveva superato una curva a gomito e ora si trovava davanti un
soldato tedesco con una machine-pistole puntata
dritta sul suo stomaco. Sulla strada, una motocicletta inservibile, l'occhio
esperto di Pietro aveva colto in un attimo la catena di trasmissione spezzata
che si allungava sullo sterrato come un viscido serpentello
nero.
- Tu bandito?
Dammi subito armi.-
Pietro
capì che il soldato aveva paura. I partigiani, i banditi come venivano chiamati dai tedeschi, erano molto attivi in quelle
vallate e un nemico isolato e appiedato sarebbe stata una preda sin troppo
facile. In paese Pietro aveva sentito che solo la settimana precedente a Pian
di Follo, non lontanissimo, due soldati tedeschi
isolati erano stati uccisi da un gruppo di partigiani spezzini.
- Nein, io non sono un bandito, non ho armi – si
affrettò a dire Pietro alzando le mani.
Il
tedesco, un ragazzone alto e rubizzo, si avvicinò e lo perquisì sommariamente,
poi, apparentemente soddisfatto fece un passo indietro e tenendolo sotto tiro gli chiese:
- Tu cosa
fai qui, dove vai?
- Io vado
a cercare da mangiare, io sono padre, vater - rispose Pietro accennando col palmo
della mano all'altezza di un bambino piccolo - e mia moglie aspetta un altro
bambino - e fece segno di un ventre prominente – noi niente da mangiare.-
Il
soldato sembrò accettare la spiegazione, scosse la testa e il suo tono era meno
ostile quando riprese a parlare.
- Io
capito, io anche vater, brutta cosa fame,
brutta cosa guerra. Mi spiace, ma tu stacca subito carro, io prendo bici, io
devo tornare a Carrara. -
Era
giovane, spaventato e armato sino ai denti. In un attimo Pietro valutò che non poteva farci nulla, doveva solo pensare a salvare la vita.
-
D'accordo, d'accordo, stacco il rimorchio e ti do la bicicletta, stai calmo.-
Pietro scese, spinse a mano la bicicletta e il carretto in modo
che fossero di traverso rispetto alla strada. La pendenza era forte e il
rimorchio avrebbe potuto prendere a rotolare all'indietro senza possibilità di
fermarlo.
Il
soldato si avvicinò, sempre con l'arma puntata.
- Tu non
fare scherzi, dammi la bici.-
Pietro si
diede da fare, staccò la prolunga dei freni e la barra di traino. La bicicletta
separata dal rimorchio avrebbe avuto solo il freno anteriore. Affari del
crucco, pensò Pietro, se ne accorgerà presto.
- Ecco,
prendi e vattene – disse Pietro al tedesco, spingendo verso di lui la bici.
Il
soldato salì agilmente sul sellino, mise l'arma a tracolla e con poche pedalate
prese velocità giù per la discesa.
Pietro
corse sul ciglio della strada da dove poteva osservare le curve sottostanti. La
bici correva veloce, era in prossimità di un tornante. Il tedesco tirò la leva
del freno posteriore. Si accorse subito che non accadeva nulla. Si aggrappò al
freno anteriore, in pieno panico. Quello funzionava, anche troppo. La ruota
anteriore bloccata fece impennare la bicicletta, catapultando il soldato oltre
il ciglio della strada, nella scarpata irta di cespugli e massi affioranti tra
la neve. Pietro vide il corpo rotolare per una decina di metri e gli parve
persino di sentire lo schianto del cranio, quando una roccia interruppe per
sempre la corsa del soldato verso qualunque meta terrena intendesse
raggiungere.
Pietro si
guardò intorno per essere certo che non ci fossero
altri tedeschi in vista, ma la strada sembrava deserta. Raggiunse di corsa la
curva dell'incidente e scese con prudenza nella scarpata. La bicicletta era
subito oltre il ciglio, impigliata in un roveto. Pietro diede uno sguardo al
tedesco, immobile qualche metro più in basso. La testa era insanguinata, il
collo piegato in maniera innaturale. Era certamente morto, non costituiva più
un pericolo. La cosa importante, vitale per la sua famiglia, era la bicicletta.
La ruota
anteriore era piegata in modo pietoso. Pietro l'esaminò con attenzione, c'erano
almeno tre raggi spezzati, ma gli altri avevano retto; tirandoli con molta cura
con l'apposita chiavetta che ogni ciclista dell'epoca si portava appresso,
c'era la speranza di arrivare a Berceto, dove, con
ancora un po' di fortuna, si sarebbero potuti sostituire i raggi inservibili.
Si chinò
per sollevare la bicicletta e lo sguardo gli cadde su qualcosa scivolato dalla
tasca del tedesco durante la caduta fatale.
Era un
portafoglio; Pietro lo raccolse, non voleva certo derubare un morto, non
l'avrebbe fatto nemmeno per salvarsi la vita. Ma voleva sapere.
Delle
banconote, poche, un tesserino dal quale la foto di un ragazzone lo guardava
serio. Lesse: Manfred Schoenefelder.
Quello era il nome della persona che lui aveva ucciso, perché lo sapeva
benissimo che non avvisandolo della mancanza del freno avrebbe potuto
ucciderlo. Riuscì a leggere un indirizzo “Mainzstrasse
35, Bingen am Rhein”. Bingen? Mai sentito, si
disse rimettendo il documento nel portafoglio.
C'era
anche una fotografia, dove una donna bionda sorrideva tenendo in braccio un
bambino di pochi mesi. La girò. Sul retro una data e delle parole che non
poteva capire, una firma incomprensibile e un'altra vergata con una calligrafia
che voleva imitare quella di un bambino, quindi molto più leggibile: “Ulrich”. Pietro osservò per un attimo la fotografia, poi la
lasciò cadere sulla neve assieme al portafoglio.
- Bella
famiglia, povero crucco. Mi spiace, ma è meglio che io abbia guardato la tua
fotografia piuttosto che tu la mia - disse Pietro a voce alta, quasi a
convincersi che quanto aveva fatto fosse giusto.
Di colpo
un altro pensiero lo assalì. Era risaputo, anzi, il comando tedesco faceva di
tutto per inculcarlo nella memoria della popolazione, che a ciascuna uccisione
di militari tedeschi da parte dei partigiani corrispondeva una
immediata e spietata rappresaglia, con esecuzioni sommarie di ostaggi e
di civili.
Nomi
quali Sant'Anna di Stazzema, Vinca, Guadine, Filettole, le Fosse del
Frigido e tanti altri, con le centinaia di innocenti trucidati per la sola
colpa di essere del posto, si affacciarono di colpo alla sua mente mentre liberava faticosamente la grossa bicicletta dai
rovi e la issava sulla strada. Lui non voleva essere la causa di altre morti,
ma se i tedeschi avessero trovato quel corpo apparentemente gettato in una
scarpata, la motocicletta distante centinaia di metri, avrebbero potuto trarre
le conclusioni sbagliate; o forse giuste – pensò Piero con un brivido, - in
fondo lui, un civile, aveva causato la morte di un soldato tedesco, quindi era
un “bandito” passibile di fucilazione, e in ogni caso quella morte poteva essere
la giustificazione per un'altra rappresaglia senza pietà.
Un rumore attrasse la sua attenzione; guardò verso valle e vide il
polverone sollevato da una colonna di camion militari che stava risalendo la
strada; se ne iniziava a udire il rombo. Non c'era tempo da perdere. Pietro,
spingendo a mano la bicicletta danneggiata, si affrettò su per la strada,
giunse trafelato dove giaceva la motocicletta del soldato e la rimise in piedi.
Non avrebbe fatto in tempo a riportarla giù sino al tornante, poi risalire e
allontanarsi. I camion oramai erano a meno di un paio di chilometri. Con la
forza della disperazione spinse la moto sul ciglio della strada, dove poco
prima si era affacciato per osservare gli ultimi momenti della vita del soldato
Ulrich, oramai quel nome se lo sarebbe ricordato per
sempre. La spinse giù, sperando che arrivasse abbastanza vicino alla curva
sottostante da non ingenerare sospetti, e ne osservò la corsa sino a quando, urtato un masso, si impenno e rotolò in mezzo al
tornante, arrestandosi sul bordo della scarpata. La fortuna lo aveva aiutato,
in quel modo la colonna di camion avrebbe sicuramente visto l'ostacolo, si
sarebbe fermata trovando anche il corpo del militare e avrebbe dato il tempo a
lui di caricare la bicicletta sul rimorchio e di nascondersi in qualche
anfratto, sino a quando il pericolo fosse passato.
Col cuore
in gola Pietro si disse che dopotutto sarebbe riuscito ad arrivare a Berceto e poi a tornare a casa dalla sua famiglia. Ma Ulrich dalla sua, a Bingen, non
ci sarebbe più tornato, pensò, ricordando il viso del bambino e della donna
sorridente nella fotografia.
La strada
era in salita, s'inerpicava verso la parte alta di Bingen.
Pietro e Lia si tenevano per mano, facevano fatica, in fondo non erano più due
ragazzini.
“Mainzstrasse”, era scritto sulla targa all'angolo. Poco più
avanti una bella insegna in ferro battuto annunciava
il ristorante “Zum Ritter”,
posto al piano terreno di una vecchia casa a due piani con travi di legno scuro
a vista. Pietro osservò la targhetta vicino alla porta:
- Numero
35, un ristorante; mi sento una stretta allo stomaco, chissà se...-
-
Vorresti entrare, Pietro? Ti sembra il caso?- l'interruppe Lia
- Sì - il
tono dell'uomo era deciso – a questo punto devo entrare, voglio sapere.-
L'interno
era piuttosto scuro, tutto di legno, con graziose tendine bianche ricamate a
coprire le basse finestre. Vennero fatti accomodare a
un tavolo vicino al grande bancone dove troneggiavano i rubinetti della birra
e, poco discosto, un registratore di cassa. Dietro, appese al muro, alcune
vecchie fotografie incorniciate. Pietro inforcò gli occhiali, si alzò e si
avvicinò al bancone. Non si era sbagliato.
Il
soldato tedesco, quello della Cisa, gli sorrideva. In
divisa, forse ripreso nella sua ultima licenza, stava in piedi davanti alla
porta del ristorante. Con lui un altro viso conosciuto, incorniciato da corti
capelli biondi, la moglie. In braccio, un fagottino che si intuiva fosse un neonato. Sotto la foto, una piccola targa indicava
“Manfred, Therese
und Ulrich Schoenefelder – 1944”
Pietro
tornò a sedere, pallido, col respiro quasi affannoso. Lia gli versò un
bicchiere d'acqua dalla caraffa guardandolo preoccupata.
- Stai
bene caro?-
- Sì, ora
sto bene. Quello era lui, l'uomo che ho ucciso.-
- E
allora vuoi dire che il ristorante è ancora della famiglia, che magari chi ci
servirà sarà suo figlio?-
Senza
parlare, Pietro indicò l'intestazione del menù: “Zum
Ritter café und restaurant” poi, nella riga
sottostante, in bei caratteri gotici, “Inhaber:
Ulrich Schoenefelder” –
“Inhaber” vuol dire “proprietario”; è lui, il figlio.-
In quel
momento una bella ragazza nemmeno ventenne, in grembiule e treccia bionda, si
avvicinò sorridendo al tavolo.
Durante
gli anni di lavoro che lo avevano portato spesso in giro per il mondo, Pietro
aveva imparato un po' di tedesco e molto inglese, e riuscì subito a capirsi con
la giovane cameriera. Ordinò un menù leggero e chiese una bottiglia di vino
locale, che si rivelò un ottimo bianco dalle sfumature dorate.
- Sai
cara, ora sto bene, anzi, sono contento; è come se mi fossi levato un peso che
mi stava sulle spalle da troppi anni.-
Infatti Pietro mangiava d'appetito, guardandosi intorno
con aria di approvazione.
La moglie
lo osservava sorridendo, era felice del buonumore ritrovato dal marito e
pensava di conoscerne la ragione. La conferma non tardò ad arrivare:
- Lo sai,
vero? In tutti questi anni mi sono chiesto che fine avesse fatto il figlio. Io
gli avevo ammazzato il padre, e di quella morte non mi sentivo colpevole, era un
soldato e minacciava voi e me; però sentivo la responsabilità di quello che era
accaduto alla sua famiglia, a suo figlio.- Fece una pausa, poi indicò con la
mano il locale - Bene, mi pare che se la sia cavata, questo posto è bello, e
sembra che la vita gli abbia sorriso.-
Alla fine
del pranzo Pietro chiamò la cameriera con un cenno.
- Vorrei
parlare al proprietario, è possibile?-
- Mio
padre è in cucina, glielo chiamo subito.-
Ulrich Schoenefelder arrivò
dopo pochi minuti, asciugandosi le mani sul grembiule immacolato. Pietro lo
guardò bene, alla ricerca di una somiglianza che gli apparve subito marcata e
inequivocabile.
- Volevo
solo farle i complimenti, un ottimo pranzo in un bel ristorante.-
Il viso
del proprietario s'illuminò in un largo sorriso – Molte grazie, mi fa piacere
che abbiate apprezzato.-
Scambiarono
qualche parola sul paese, sul viaggio che Pietro stava facendo, sul fatto che
il proprietario andasse spesso in vacanza in Italia. Ulrich
era una persona aperta e cordiale, e sembrava che tra lui e Pietro fosse nata
una corrente di simpatia.
Alla fine Pietro ai alzò, strinse la mano di Ulrich
che accompagnò i due ospiti sino alla porta.
- Suo
padre?- Disse Pietro indicando la fotografia.
- No, lui
era mio zio, il fratello di mio padre. E' morto in guerra, proprio in Italia.
- Ma io
pensavo… in nome Ulrich, il bambino, è lei, vero?
Un lampo di malinconia attraversò gli occhi
dell'uomo.
- No
signore; è una storia triste: mio zio fu ucciso nel '45, mia zia non resse al
dolore e si uccise a sua volta, portando con sé il mio cuginetto
Ulrich. Io nacqui pochi mesi dopo e mio padre volle
chiamarmi come lui, per ricordare quel povero bambino. Brutta cosa la guerra,
signore.-
Pietro
barcollò come se gli fosse piombato addosso un peso
insopportabile.
A fatica,
sorretto dalla moglie, spinse la porta e uscì all'aria aperta; ne sentiva un
bisogno disperato.
- E'
vero, l'aveva detto anche quel soldato, gran brutta cosa la guerra - mormorò
alla fine, con un filo di voce.