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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  La bicicletta nera, di Mario Malgieri 23/03/2007
 

La bicicletta nera

 

Avevano lasciato Mainz nella tarda mattinata e ora l'automobile percorreva a velocità turistica la bella strada che, costeggiando il Reno, li avrebbe portati a Koblenz dove contavano di pernottare.

Bingen am Rhein - willkommen zum winzerfest 1985”

recitava il cartello all'ingresso di una cittadina arrampicata tra il grande fiume e le alture verdeggianti di viti.

Il piede si sollevò di colpo dall'acceleratore e l'automobile iniziò a rallentare in mezzo alla strada, tra le proteste dei guidatori che la seguivano.

- Cosa fai Pietro, perché ti fermi?-

Le mani dell'uomo erano serrate sul volante.

- Bingen! Lia, ti dice niente questo nome?-

- Certo - la donna sollevò lo sguardo da un libretto che teneva sulle ginocchia - la guida dice che qui producono dell'ottimo vino, che “winzerfest” è la festa della vendemmia e che c'è un interessante museo dedicato a Ildegarda da Bingen, profetessa e scrittrice medioevale; che noia, mica vorrai visitarlo, vero?-

Pietro, un uomo di una settantina d'anni ben portati, accostò, fermò l'automobile e guardò la sua compagna di tutta una vita.

- La tua memoria se ne sta andando, Lia. Bingen: devi ricordare, te l'avrò raccontata centinaia di volte quella storia.-

Pietro aveva un'espressione irritata, era incredibile che Lia potesse dimenticare “quella” storia, lui l'aveva ancora vivida in mente come fosse accaduta da pochi giorni e non da quarant'anni.

- Pietro scusami, - la voce di Lia era dolce ma ferma – mi ricordo, certo. Ma a differenza di te ho cercato di rimuovere; tu hai fatto quello che dovevi per la tua famiglia, non potevi fare altro. Comunque ricordo: Bingen, il paese di quel soldato.-

- Sì, infatti. Fermiamoci, mi piacerebbe fare due passi, poi è quasi ora di pranzo.-

Lasciarono la macchina in un parcheggio e si avviarono a piedi verso il centro storico, attraverso stradine pulite e ordinate.

- Guarda – disse Pietro – in questi posti sembra che il tempo si sia fermato. Scommetto che quando quel ragazzone lasciò Bingen per andare in guerra tutto era esattamente così.-

- Non hai mai smesso di pensarci, dopo tutti questi anni, vero?.-

- Sì, tu lo sai, io non ho mai fatto del male a nessuno, la mia guerra l'ho combattuta impugnando un cacciavite, non un fucile. Ma quella volta, quella bicicletta era troppo importante, era la mia speranza per noi. Tu aspettavi Gianni, c'era già Franchina, dovevo fare qualcosa.-

Forse Bingen non era cambiata, ma la vita di una famiglia di quella cittadina lo era di certo, pensò Pietro, portato dal caso a chiudere il cerchio rimasto aperto da troppi anni. Esattamente dal Febbraio del 1945, non l'avrebbe mai dimenticato.

 

Stava pedalando faticosamente su per i tornanti della Cisa, l'antica via del sale che univa l'estremo lembo di Liguria orientale alla pianura padana.

La vecchia bicicletta nera, sua compagna da quando era adolescente, era stata adattata a trainare un piccolo rimorchio. Su quel carrettino, Pietro avrebbe caricato verdura fresca, uova, farina, magari dei conigli e qualche pollo.

O almeno lo sperava, perché aveva una moglie, una figlia di due anni e un'altra creatura era attesa per la tarda primavera, doveva cercare di farle mangiare tutti i giorni.

- Non mi deve succedere niente; non per me, ma per loro - era il pensiero ricorrente che tormentava Pietro.

Il pericolo c'era, anzi, di pericoli ce n'erano tanti.

Perché lui un lavoro, e pure buono, l'aveva avuto. Ma dopo l'otto settembre i tedeschi avevano preso il comando dell'arsenale militare che dava da vivere a buona parte della popolazione di La Spezia e dintorni. Grazie alla sua abilità di meccanico di precisione, specialista in bussole e meccanismi di controllo del tiro, sin dall'inizio della guerra lo avevano messo nella lista di quelle persone più utili a lavorare su incrociatori, sommergibili e fregate, piuttosto che a buttare il sangue al fronte. Ma lui con i tedeschi non voleva avere nulla a che fare e una mattina aveva deciso di averne abbastanza. Aveva preso moglie e figlia e, un po' a piedi, un po' sulla bicicletta, si era trasferito dove la Liguria sfuma tra Emilia e Toscana accarezzando l'ampia valle del Magra.

In quella zona passava la linea gotica, estrema difesa dei tedeschi e dei repubblichini contro la risalita degli alleati che oramai erano arrivati sul litorale toscano. Non c'era borgo o vallata che potesse definirsi tranquilla, con le bande di partigiani impegnate a disturbare le retrovie dei tedeschi i quali, aiutati dalle camicie nere, a loro volta rastrellavano ogni angolo per quanto remoto, nel tentativo di neutralizzare i partigiani e di far terra bruciata intorno a loro, terrorizzando la popolazione civile con razzie e rappresaglie.

Naturalmente Pietro doveva stare nascosto, ché se lo avessero trovato i tedeschi e se fosse stato fortunato, lo avrebbero costretto a lavorare ancora per loro. Ma avrebbe potuto essere meno fortunato. Il paesino, arrampicato sullo spartiacque a cavallo tra il Magra e la val di Vara, era quello della sua infanzia, e lì aveva trovato calda e semplice ospitalità presso i suoi genitori, tipici contadini di montagna che tiravano avanti spaccandosi la schiena a coltivare qualche fascia sassosa strappata al bosco, raccogliendo le castagne e mungendo un paio di mucche più affamate e macilente di loro stessi.

Quello che c'era lo avevano diviso di cuore col figlio, la nuora, la bambina nata e la creatura che doveva arrivare, ma in quel modo tutti facevano la fame, soprattutto i vecchi che sacrificavano silenziosamente i loro magri bocconi per quella vita che doveva nascere.

- Devo andare a Berceto, dallo zio Giulio - aveva detto Pietro una sera, mentre erano tutti intorno al tavolo a dividersi il nulla.

- Lo zio Giulio? – aveva chiesto il padre con tono serio – quello sta coi fascisti, coi tedeschi, capace che ti denuncia. -

- No, non lo farà, a suo modo ci vuole bene, e poi lui se la cava alla grande, ha le bestie e la terra, ci aiuterà. -

La discussione era stata breve, ma alla fine tutti convennero che era l'unica cosa da fare, anche se pericolosa.

Per quella ragione Pietro stava arrancando su per la Cisa, un po' pedalando e un po' camminando, trascinandosi la bicicletta e il rimorchio attaccato dietro. Lo aveva costruito lui quel il rimorchio, con due ruote di bicicletta, un telaio di sottili tubi di ferro e tavole di legno. Poi, a malincuore, aveva modificato la bicicletta, eliminando il freno posteriore per prolungare il cavo flessibile in modo da azionare i freni montati sulle ruote del carretto. Pensava, giustamente, che in discesa il rimorchio avrebbe frenato anche la bicicletta senza rischiare pericolosi sbandamenti.

Mentre saliva, ricordava con nostalgia quando percorreva quella strada solo pochi anni prima. Da ragazzo era andato molte volte con la sua bicicletta e gli amici di sempre oltre Pontremoli, per veder rotolare nuvole di polvere giù per la statale, e dentro una nuvola rombante c'era Caracciola, in un'altra Nuvolari, o Brilli-Peri, o Varzi o tanti altri coraggiosi, sporchi, rumorosi eroi che attraversavano mezza Italia per quelle mille miglia di corsa spesso assassina. Adesso l'assassina era la guerra, la miseria della polvere di marmo mischiata alla farina per fare più pane, e naturalmente le pallottole, le bombe, le granate, i cento modi ingegnosi di uccidere nemici e poveri cristi in cerca solo di un respiro per vivere.

Respiro, quello che gli bruciava i polmoni nonostante la neve ai lati della strada, mentre spingeva i pedali su per l'ultimo tratto di salita, il rimorchio a traballare pesante come piombo anche ora che era vuoto. Ma al ritorno, sperava, sarebbe stato pieno, quello era l'importante.

- Halt, fermo o io sparo! –

La voce secca, gridata con forte accento tedesco, lo scosse dai suoi pensieri. Pietro si era distratto, aveva superato una curva a gomito e ora si trovava davanti un soldato tedesco con una machine-pistole puntata dritta sul suo stomaco. Sulla strada, una motocicletta inservibile, l'occhio esperto di Pietro aveva colto in un attimo la catena di trasmissione spezzata che si allungava sullo sterrato come un viscido serpentello nero.

- Tu bandito? Dammi subito armi.-

Pietro capì che il soldato aveva paura. I partigiani, i banditi come venivano chiamati dai tedeschi, erano molto attivi in quelle vallate e un nemico isolato e appiedato sarebbe stata una preda sin troppo facile. In paese Pietro aveva sentito che solo la settimana precedente a Pian di Follo, non lontanissimo, due soldati tedeschi isolati erano stati uccisi da un gruppo di partigiani spezzini.

- Nein, io non sono un bandito, non ho armi – si affrettò a dire Pietro alzando le mani.

Il tedesco, un ragazzone alto e rubizzo, si avvicinò e lo perquisì sommariamente, poi, apparentemente soddisfatto fece un passo indietro e tenendolo sotto tiro gli chiese:

- Tu cosa fai qui, dove vai?

- Io vado a cercare da mangiare, io sono padre, vater - rispose Pietro accennando col palmo della mano all'altezza di un bambino piccolo - e mia moglie aspetta un altro bambino - e fece segno di un ventre prominente – noi niente da mangiare.-

Il soldato sembrò accettare la spiegazione, scosse la testa e il suo tono era meno ostile quando riprese a parlare.

- Io capito, io anche vater, brutta cosa fame, brutta cosa guerra. Mi spiace, ma tu stacca subito carro, io prendo bici, io devo tornare a Carrara. -

Era giovane, spaventato e armato sino ai denti. In un attimo Pietro valutò che non poteva farci nulla, doveva solo pensare a salvare la vita.

- D'accordo, d'accordo, stacco il rimorchio e ti do la bicicletta, stai calmo.-

Pietro scese, spinse a mano la bicicletta e il carretto in modo che fossero di traverso rispetto alla strada. La pendenza era forte e il rimorchio avrebbe potuto prendere a rotolare all'indietro senza possibilità di fermarlo.

Il soldato si avvicinò, sempre con l'arma puntata.

- Tu non fare scherzi, dammi la bici.-

Pietro si diede da fare, staccò la prolunga dei freni e la barra di traino. La bicicletta separata dal rimorchio avrebbe avuto solo il freno anteriore. Affari del crucco, pensò Pietro, se ne accorgerà presto.

- Ecco, prendi e vattene – disse Pietro al tedesco, spingendo verso di lui la bici.

Il soldato salì agilmente sul sellino, mise l'arma a tracolla e con poche pedalate prese velocità giù per la discesa.

Pietro corse sul ciglio della strada da dove poteva osservare le curve sottostanti. La bici correva veloce, era in prossimità di un tornante. Il tedesco tirò la leva del freno posteriore. Si accorse subito che non accadeva nulla. Si aggrappò al freno anteriore, in pieno panico. Quello funzionava, anche troppo. La ruota anteriore bloccata fece impennare la bicicletta, catapultando il soldato oltre il ciglio della strada, nella scarpata irta di cespugli e massi affioranti tra la neve. Pietro vide il corpo rotolare per una decina di metri e gli parve persino di sentire lo schianto del cranio, quando una roccia interruppe per sempre la corsa del soldato verso qualunque meta terrena intendesse raggiungere.

Pietro si guardò intorno per essere certo che non ci fossero altri tedeschi in vista, ma la strada sembrava deserta. Raggiunse di corsa la curva dell'incidente e scese con prudenza nella scarpata. La bicicletta era subito oltre il ciglio, impigliata in un roveto. Pietro diede uno sguardo al tedesco, immobile qualche metro più in basso. La testa era insanguinata, il collo piegato in maniera innaturale. Era certamente morto, non costituiva più un pericolo. La cosa importante, vitale per la sua famiglia, era la bicicletta.

La ruota anteriore era piegata in modo pietoso. Pietro l'esaminò con attenzione, c'erano almeno tre raggi spezzati, ma gli altri avevano retto; tirandoli con molta cura con l'apposita chiavetta che ogni ciclista dell'epoca si portava appresso, c'era la speranza di arrivare a Berceto, dove, con ancora un po' di fortuna, si sarebbero potuti sostituire i raggi inservibili.

Si chinò per sollevare la bicicletta e lo sguardo gli cadde su qualcosa scivolato dalla tasca del tedesco durante la caduta fatale.

Era un portafoglio; Pietro lo raccolse, non voleva certo derubare un morto, non l'avrebbe fatto nemmeno per salvarsi la vita. Ma voleva sapere.

Delle banconote, poche, un tesserino dal quale la foto di un ragazzone lo guardava serio. Lesse: Manfred Schoenefelder. Quello era il nome della persona che lui aveva ucciso, perché lo sapeva benissimo che non avvisandolo della mancanza del freno avrebbe potuto ucciderlo. Riuscì a leggere un indirizzo “Mainzstrasse 35, Bingen am Rhein”. Bingen? Mai sentito, si disse rimettendo il documento nel portafoglio.

C'era anche una fotografia, dove una donna bionda sorrideva tenendo in braccio un bambino di pochi mesi. La girò. Sul retro una data e delle parole che non poteva capire, una firma incomprensibile e un'altra vergata con una calligrafia che voleva imitare quella di un bambino, quindi molto più leggibile: “Ulrich”. Pietro osservò per un attimo la fotografia, poi la lasciò cadere sulla neve assieme al portafoglio.

- Bella famiglia, povero crucco. Mi spiace, ma è meglio che io abbia guardato la tua fotografia piuttosto che tu la mia - disse Pietro a voce alta, quasi a convincersi che quanto aveva fatto fosse giusto.

Di colpo un altro pensiero lo assalì. Era risaputo, anzi, il comando tedesco faceva di tutto per inculcarlo nella memoria della popolazione, che a ciascuna uccisione di militari tedeschi da parte dei partigiani corrispondeva una immediata e spietata rappresaglia, con esecuzioni sommarie di ostaggi e di civili.

Nomi quali Sant'Anna di Stazzema, Vinca, Guadine, Filettole, le Fosse del Frigido e tanti altri, con le centinaia di innocenti trucidati per la sola colpa di essere del posto, si affacciarono di colpo alla sua mente mentre liberava faticosamente la grossa bicicletta dai rovi e la issava sulla strada. Lui non voleva essere la causa di altre morti, ma se i tedeschi avessero trovato quel corpo apparentemente gettato in una scarpata, la motocicletta distante centinaia di metri, avrebbero potuto trarre le conclusioni sbagliate; o forse giuste – pensò Piero con un brivido, - in fondo lui, un civile, aveva causato la morte di un soldato tedesco, quindi era un “bandito” passibile di fucilazione, e in ogni caso quella morte poteva essere la giustificazione per un'altra rappresaglia senza pietà.

Un rumore attrasse la sua attenzione; guardò verso valle e vide il polverone sollevato da una colonna di camion militari che stava risalendo la strada; se ne iniziava a udire il rombo. Non c'era tempo da perdere. Pietro, spingendo a mano la bicicletta danneggiata, si affrettò su per la strada, giunse trafelato dove giaceva la motocicletta del soldato e la rimise in piedi. Non avrebbe fatto in tempo a riportarla giù sino al tornante, poi risalire e allontanarsi. I camion oramai erano a meno di un paio di chilometri. Con la forza della disperazione spinse la moto sul ciglio della strada, dove poco prima si era affacciato per osservare gli ultimi momenti della vita del soldato Ulrich, oramai quel nome se lo sarebbe ricordato per sempre. La spinse giù, sperando che arrivasse abbastanza vicino alla curva sottostante da non ingenerare sospetti, e ne osservò la corsa sino a quando, urtato un masso, si impenno e rotolò in mezzo al tornante, arrestandosi sul bordo della scarpata. La fortuna lo aveva aiutato, in quel modo la colonna di camion avrebbe sicuramente visto l'ostacolo, si sarebbe fermata trovando anche il corpo del militare e avrebbe dato il tempo a lui di caricare la bicicletta sul rimorchio e di nascondersi in qualche anfratto, sino a quando il pericolo fosse passato.

Col cuore in gola Pietro si disse che dopotutto sarebbe riuscito ad arrivare a Berceto e poi a tornare a casa dalla sua famiglia. Ma Ulrich dalla sua, a Bingen, non ci sarebbe più tornato, pensò, ricordando il viso del bambino e della donna sorridente nella fotografia.

 

La strada era in salita, s'inerpicava verso la parte alta di Bingen. Pietro e Lia si tenevano per mano, facevano fatica, in fondo non erano più due ragazzini.

Mainzstrasse”, era scritto sulla targa all'angolo. Poco più avanti una bella insegna in ferro battuto annunciava il ristorante “Zum Ritter”, posto al piano terreno di una vecchia casa a due piani con travi di legno scuro a vista. Pietro osservò la targhetta vicino alla porta:

- Numero 35, un ristorante; mi sento una stretta allo stomaco, chissà se...-

- Vorresti entrare, Pietro? Ti sembra il caso?- l'interruppe Lia

- Sì - il tono dell'uomo era deciso – a questo punto devo entrare, voglio sapere.-

L'interno era piuttosto scuro, tutto di legno, con graziose tendine bianche ricamate a coprire le basse finestre. Vennero fatti accomodare a un tavolo vicino al grande bancone dove troneggiavano i rubinetti della birra e, poco discosto, un registratore di cassa. Dietro, appese al muro, alcune vecchie fotografie incorniciate. Pietro inforcò gli occhiali, si alzò e si avvicinò al bancone. Non si era sbagliato.

Il soldato tedesco, quello della Cisa, gli sorrideva. In divisa, forse ripreso nella sua ultima licenza, stava in piedi davanti alla porta del ristorante. Con lui un altro viso conosciuto, incorniciato da corti capelli biondi, la moglie. In braccio, un fagottino che si intuiva fosse un neonato. Sotto la foto, una piccola targa indicava “Manfred, Therese und Ulrich Schoenefelder1944

Pietro tornò a sedere, pallido, col respiro quasi affannoso. Lia gli versò un bicchiere d'acqua dalla caraffa guardandolo preoccupata.

- Stai bene caro?-

- Sì, ora sto bene. Quello era lui, l'uomo che ho ucciso.-

- E allora vuoi dire che il ristorante è ancora della famiglia, che magari chi ci servirà sarà suo figlio?-

Senza parlare, Pietro indicò l'intestazione del menù: “Zum Ritter café und restaurant” poi, nella riga sottostante, in bei caratteri gotici, “Inhaber: Ulrich Schoenefelder” – “Inhaber” vuol dire “proprietario”; è lui, il figlio.-

In quel momento una bella ragazza nemmeno ventenne, in grembiule e treccia bionda, si avvicinò sorridendo al tavolo.

Durante gli anni di lavoro che lo avevano portato spesso in giro per il mondo, Pietro aveva imparato un po' di tedesco e molto inglese, e riuscì subito a capirsi con la giovane cameriera. Ordinò un menù leggero e chiese una bottiglia di vino locale, che si rivelò un ottimo bianco dalle sfumature dorate.

- Sai cara, ora sto bene, anzi, sono contento; è come se mi fossi levato un peso che mi stava sulle spalle da troppi anni.-

Infatti Pietro mangiava d'appetito, guardandosi intorno con aria di approvazione.

La moglie lo osservava sorridendo, era felice del buonumore ritrovato dal marito e pensava di conoscerne la ragione. La conferma non tardò ad arrivare:

- Lo sai, vero? In tutti questi anni mi sono chiesto che fine avesse fatto il figlio. Io gli avevo ammazzato il padre, e di quella morte non mi sentivo colpevole, era un soldato e minacciava voi e me; però sentivo la responsabilità di quello che era accaduto alla sua famiglia, a suo figlio.- Fece una pausa, poi indicò con la mano il locale - Bene, mi pare che se la sia cavata, questo posto è bello, e sembra che la vita gli abbia sorriso.-

Alla fine del pranzo Pietro chiamò la cameriera con un cenno.

- Vorrei parlare al proprietario, è possibile?-

- Mio padre è in cucina, glielo chiamo subito.-

Ulrich Schoenefelder arrivò dopo pochi minuti, asciugandosi le mani sul grembiule immacolato. Pietro lo guardò bene, alla ricerca di una somiglianza che gli apparve subito marcata e inequivocabile.

- Volevo solo farle i complimenti, un ottimo pranzo in un bel ristorante.-

Il viso del proprietario s'illuminò in un largo sorriso – Molte grazie, mi fa piacere che abbiate apprezzato.-

Scambiarono qualche parola sul paese, sul viaggio che Pietro stava facendo, sul fatto che il proprietario andasse spesso in vacanza in Italia. Ulrich era una persona aperta e cordiale, e sembrava che tra lui e Pietro fosse nata una corrente di simpatia.

Alla fine Pietro ai alzò, strinse la mano di Ulrich che accompagnò i due ospiti sino alla porta.

- Suo padre?- Disse Pietro indicando la fotografia.

- No, lui era mio zio, il fratello di mio padre. E' morto in guerra, proprio in Italia.

- Ma io pensavo… in nome Ulrich, il bambino, è lei, vero?

 Un lampo di malinconia attraversò gli occhi dell'uomo.

- No signore; è una storia triste: mio zio fu ucciso nel '45, mia zia non resse al dolore e si uccise a sua volta, portando con sé il mio cuginetto Ulrich. Io nacqui pochi mesi dopo e mio padre volle chiamarmi come lui, per ricordare quel povero bambino. Brutta cosa la guerra, signore.-

Pietro barcollò come se gli fosse piombato addosso un peso insopportabile.

A fatica, sorretto dalla moglie, spinse la porta e uscì all'aria aperta; ne sentiva un bisogno disperato.

- E' vero, l'aveva detto anche quel soldato, gran brutta cosa la guerra - mormorò alla fine, con un filo di voce.

 

 

 

 

 

 
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