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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Al di là del cancello bianco, di massimolegnani 21/02/2019
 
Al di là del cancello bianco

di massimolegnani


Corrado aveva occhi chiari e sguardo seducente ma era troppo timido per sfruttare questa dote con le donne.

Agata aveva il talento del sorriso che gli uomini ancora non erano riusciti a spegnere del tutto.

Loro due avevano in comune l’altezza non eccelsa e l’appartenenza a quel sottobosco della vita dove è raro e faticoso un raggio di sole. Per il resto erano distanti per storia personale, un marito cacciato al primo sgarro, una donna inseguita a lungo e invano, si trovavano agli antipodi quanto a carattere, schivo uno, schietta l’altra, vivevano fedi differenti, lui ancora a servir messa la domenica come un chierichetto fuori corso, lei l’unica fede era in se stessa, ed erano opposti anche per origine, Corrado radici profonde nel paese, Agata un trapianto attecchito bene dalla Puglia, di cui aveva mantenuto la passionalità solare ma non le tradizioni soffocanti.

Due individui del genere avessero abitato in città non si sarebbero mai incontrati, ma in paese le vite disegnano orbite piccine, spesso sovrapposte, così capitava non di rado che loro s’incrociassero per via o si ritrovassero in attesa nell’ambulatorio del medico condotto o al bar del Gino ad ascoltare in un silenzio teso il gracchiare quasi incomprensibile della radiocronaca del Giro. Un ciao più o meno sostenuto ma poi ciascuno stava muto sulle sue, non che si evitassero ma di sicuro non facevano nulla per approfondire la conoscenza. Forse avevano ben presenti le tante diversità o erano troppo presi dal tentare una sopravvivenza dignitosa in quei tempi duri per potersi accorgere di altro.

Poi un giorno, casualmente, furono chiamati entrambi a servire in Villa. La Signora, così in paese la chiamavano da sempre senza mai aggiungere né nome né cognome (e la riverivano e temevano più del parroco o del podestà), aveva l’abitudine di rivolgersi ai paesani ogni volta che aveva bisogno di personale supplementare. Non c’era abitante che non avesse varcato almeno una volta la cancellata bianca che si schiudeva su un mondo dorato in cui i paesani erano semplici prestatori d’opera: frutteti, prati, un laghetto, il bosco di faggi, la Villa. Il viale d’accesso risaliva in eleganti tornanti fino alla dimora liberty che dalla cima della collina dominava le case di Cettignè come un castello feudale il suo contado. I prescelti andavano di volta in volta ad aggiungersi ai dipendenti fissi per eseguire lavori straordinari di giardinaggio, la falciatura, soprattutto, con una schiera di uomini che procedevano cantando al ritmo affilato della falce. Oppure erano piccole riparazioni alla casa, qualche tegola malmessa, le foglie che ostruivano una grondaia, o, per le donne, un aiuto in cucina o in lavanderia. Agata veniva chiamata spesso come stiratrice o per servire in sala e la Signora, che apprezzava le sue doti quanto la sua discrezione, le aveva proposto più volte un’assunzione in pianta stabile, ma lei aveva sempre rifiutato, si sentiva più libera a lavorare un po’ qui e un po’ là piuttosto che alle dipendenze di un’unica padrona. Corrado, al contrario, era convocato raramente ed esclusivamente per lavori di manovalanza in giardino. In pratica non aveva mai messo piede nella casa e ora, all’improvviso, gli veniva chiesto di servire in sala durante una cena con numerosi ospiti. I suoi occhi chiari s’intonano all’azzurro pallido dei piatti che ho scelto per la cena, gli aveva mormorato la Signora che amava non lasciare nulla al caso.

Lui non ci dormì la notte e il pomeriggio seguente era salito con ampio anticipo passando poi ore a girare a vuoto per i locali della servitù, angosciato come un condannato a morte il giorno dell’esecuzione. Agata, la cresta di pizzo tra i capelli portata con naturalezza, come lo vide scoppiò a ridere, mi sembri Charlot gli disse con poco tatto. Poi tornò seria, gli sistemò la divisa che lui indossava con una goffaggine da pagliaccio e gli spiegò come doveva comportarsi. Ma io non so servire a tavola! esclamò lui disperato. Dovrai solo portare zuppiere e vassoi dalla cucina alla sala, lo rassicurò la ragazza, sarò io a servire i commensali. Tu stammi sempre vicino e andrà tutto bene.

Corrado le ubbidì alla lettera e per tutta la sera la seguì ovunque in una sorta di estasi mistica, come lei fosse la Madonna di Ardena.

Era notte fonda quando finalmente conclusero il servizio e poterono lasciare la villa con poche lire in più nelle tasche. Scendevano lungo il viale illuminato dalla luna, Agata vagamente immusonita o quanto meno pensierosa, Corrado euforico, loquace come non era mai stato in vita sua: ti rendi conto, sembravo un vero cameriere e non l’avevo mai fatto prima! Le saltabeccava intorno, s’inciampava, ruzzolava, riprendeva a stento il passo e le parole, io in guanti bianchi, io gli occhi come i piatti, io non un guaio, non un errore, incredibile! E tutto grazie a te, sei stata il mio angelo custode. Agata fece una risata amara, sei proprio strano tu. Mi hanno chiamato in tanti modi, ma angelo custode mai. L’uomo non colse il suo sarcasmo e in un gesto maldestro di devozione tentò di baciarle la mano, rimediando un colpo secco sulle labbra, forse non voluto, dalla mano che si sottraeva di scatto. È che a lei sembrava uno spreco tutto quel cincischiare goffo in una notte di stelle e di luna, di cicale e di erba odorosa, dove tutto sembrava un invito all’amore. Lo guardò male ma poi si accorse di avergli provocato una piccola ferita al labbro da cui usciva qualche goccia di sangue che brillava alla luna. Si addolcì e si avvicinò per tamponargli il taglio con un fazzoletto. Sono un tipo semplice, io. Volevo dimostrarti la mia riconoscenza, il mio affetto, quasi si giustificò lui che aveva perso tutta la sua ingenua effervescenza. Agata gli sorrise, oggi ti devo insegnare proprio tutto. Se vuoi baciare una donna, non cercare la sua mano, cercale la bocca.

Lui abbozzò una replica, ma io…balbettò senza riuscire ad aggiungere altro perché lei lo stava già baciando.

Una volta sono stato a Torino a vedere i fuochi di San Giovanni, Corrado era tornato ciarliero, una meraviglia la notte squarciata dai bagliori, eppure nulla al confronto delle stelle di stanotte, tu la più luminosa e bella. Erano stesi nell’erba alta, i vestiti strapazzati, i corpi ancora caldi, i fiordalisi intorno, le cicale ammutolite, l’aurora che incalzava. Agata aveva avuto gesti sconfinati, scandalosi e straordinari come tulipani esplosi uno dopo l’altro a inizio maggio. Ora era morbida e lo avvolgeva come una coperta di lana, la bocca a cercargli la pelle del torace per piccoli baci di riconoscenza perché Corrado si era lasciato guidare da lei come un bambino, allo stesso modo fiducioso e incantato che aveva tenuto in sala.

Si rivestirono in due silenzi opposti, lui a fantasticare di futuri radiosi, lei a cercare di tornare con i piedi per terra. Ripresero il viale barcollando abbracciati. Appoggiati all’inferriata del cancello si scambiarono gli ultimi baci. Poi, varcato il cancello si separarono per tornare ognuno alla propria casa.

Corrado si voltò più volte sperando di incrociare i suoi occhi, ma vide sempre solo la sua schiena ostinata.

 
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