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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Un grido e uno sparo, di massimolegnani 27/03/2019
 
Un grido e uno sparo

di massimolegnani



Camillo, seppellitosi sotto quattro coperte pur di tenere la finestra spalancata, non si era ancora addormentato. Si trovava in quella fase in cui i sensi compiono un’ultima registrazione dei suoni provenienti dall’esterno per avere una mappa precisa di ciò che accade intorno mentre ci si lascia andare all’addormentamento. La sua era l’ultima casa del paese, isolata, in prossimità del bosco. Gli piaceva quella posizione in bilico tra natura e mondo umano, che gli permetteva a sera di cullarsi a minimi rumori di varia origine.

Dapprima c’era stato un prolungato miagolio al quale l’uomo aveva sorriso in cuor suo immaginandosi un raduno di gatti spelacchiati che, nonostante il freddo e magari la pancia vuota, non rinunciavano al richiamo dell’amore. Non era stato diverso lui, da giovane, quella volta che aveva investito gli ultimi soldi in un doppio whisky al posto della cena pur di far colpo su una ragazza appena conosciuta. Le cose non erano poi andate come avrebbe voluto, ma l’importante per lui era l’averci provato.

I gatti s’erano momentaneamente acquetati e il silenzio era rotto solamente dal sommesso ondeggiare delle piante lì vicino e dal sibilo lontano di una qualche sirena, difficile dire se di un’ambulanza, vigili del fuoco, polizia. Di solito cercava dei dettagli acustici attorno a quel suono che lo orientassero, lo sferragliare di un camion, allora erano i pompieri, uno sgommare scomposto, squadra mobile, un lento e costante incremento del sibilo, 118. Ma questa volta la sirena era troppo lontana per permettergli un’identificazione. Comunque gli bastò averlo udito, il suono, per provare una sorta di conforto, di rassicurazione, il mondo continua a vivere e a lavorare, lui poteva dormire tranquillo.

Il grido lo raggiunse un istante dopo che si era assopito: forse del grido aveva udito solo la coda, oppure davvero questo era stato molto breve. Una nota acuta, molto alta, raggiungibile solo da un ragazzino prepubere o da una donna giovane. Camillo valutò mentalmente le due opzioni e propese per la seconda, improbabile che un ragazzetto fosse in giro a quell’ora. Tese l’orecchio in allarme, né voci né rumore di passi, silenzio assoluto, il paese dormiva. Si chiese se non avesse sognato, rimase seduto sul letto in attesa: nulla, e alla fine si convinse che era andata proprio così.

Non si era ancora riaddormentato che un rumore secco, violento, lacerò l’aria come una frustata. Senza dubbio uno sparo e questa volta non poteva aver sognato. Balzò dal letto, corse alla porta, infilò il cappotto, afferrò la piccozza che incongruamente teneva nel portaombrelli e si precipitò in strada con le ciabatte ai piedi.

Vide delle ombre vicino al ponte sul canale, dove gli sembrò ci fosse una piccola rissa. Si avviò deciso e tremante in quella direzione brandendo la piccozza, vittima allo stesso tempo della propria paura e di un indomito senso del dovere.

Ehi, gridò trafelato verso il gruppetto ancora indistinto, ma la sua voce fu sommersa dal crepitio di petardi fatti scoppiare contro le pietre del ponte. Mentre lui si era bloccato come inebetito, alcuni razzetti illuminarono per pochi istanti il cielo e i volti eccitati di quattro ragazzini intenti ad accendere le ultime micce del loro piccolo arsenale. Camillo ancora non riusciva a capire che cosa stesse succedendo. Solo quando dal paese partirono fuochi artificiali ben più consistenti si rese conto che era scoccata la mezzanotte dell’ultimo dell’anno, lui fino a quel momento non aveva fatto caso che fosse il 31. Allora nascose malamente la piccozza dentro il cappotto come una vergogna, fece un cenno di saluto ai quattro ragazzetti, che nemmeno s’erano accorti di lui, e tornò a testa bassa verso casa, deluso di sé.

 
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