Quell’uomo
di
massimolegnani
Quell’uomo
mi ha incuriosito.
Mi
capita, una o due volte al mese, di vederlo passare sotto la finestra
del mio studio mentre affronta la salita dai ciottoli sconnessi che
porta al castello. Non so come si chiami né da dove venga,
sicuramente non abita nel borgo, siamo talmente pochi che ci
conosciamo tutti. Probabilmente arriva da una qualche casa dei
paraggi e vuol dire che si sobbarca ogni volta un bel cammino.
Ha
un’eleganza sobria, d’inverno un loden verde e un
cappello di feltro scuro che gli nasconde il volto, posso notare
solo il pizzetto curato, nei mesi caldi una giacca sportiva senza
cravatta e un fresco panama in testa. Ai piedi, in qualunque
stagione, scarpe inglesi che con la loro suola in cuoio risultano
poco pratiche sui sassi sdrucciolevoli della via, e infatti gli vien
fuori una camminata piena di cautela che lo invecchia.
Sembra
un turista solitario interessato ai tesori del castello.
Ma
al castello lui non arriva mai.
Si
siede sulla panchina rivolta a valle, vicino alla grande quercia e
non lontana dalla cancellata d’ingresso, come voglia rifiatare
pochi istanti.
Poi
ci resta delle ore.
Ogni
tanto mi affaccio per vedere se sia ancora lì. C’è.
Predilige
venire di pomeriggio, qualche ora prima del tramonto, per cui dalla
mia finestra vedo di spalle la sua sagoma scura nel controluce
d’occidente. Sta seduto quasi immobile, nelle ore muta magari
la posizione di un braccio, l’inclinazione del capo ma poco
altro.
A
volte una gazza gli saltella intorno. Non so se sia sempre la stessa,
ma la cosa straordinaria è che dopo qualche saltello la gazza
si blocca ai piedi della panchina, per nulla intimorita dall’uomo.
Credo che si blocchi per adeguarsi al suo immobilismo, sai come
quando uno parla e l’altro tace fino a che anche il primo si
zittisce per non essere importuno.
M’incuriosisce
quest’uomo e la cosa più curiosa è che finora non
ho mai colto l’istante in cui si alza e se ne va.
Sembrano,
lui, la gazza e la panchina, intagliati in una lastra di metallo
nero.
La
Gazza
di
massimolegnani
Ieri
mi sono deciso, era da tempo che volevo conoscere quell’uomo.
Di
ritorno dalla consueta passeggiata tra le vigne, anziché
rientrare in casa, ho proseguito lungo la salita a ciottoli che porta
al castello. Prima ancora di scorgere la panchina della quercia
sapevo che lo avrei trovato lì.
Eccolo,
infatti. Era seduto al centro di questa: le braccia distese lungo lo
schienale, il corpo rilassato sulle stecche di legno, occupava da
solo l’intera panchina. Mentre mi avvicinavo, unaa gazza che
stava impettita ai suoi piedi si spostò prudentemente, con
piccoli saltelli, sotto i rami bassi della quercia, ma non volò
via come mi aspettavo.
L’uomo
non parve accorgersi della mia presenza, in effetti gli ero arrivato
alle spalle con poco rumore e lui doveva essere assorto in qualche
suo pensiero. Dovetti schiarirmi la voce e accennare un “permette?”
per ottenere la sua attenzione. Mi guardò inespressivo e
scostò il braccio sinistro spostandosi un poco a destra per
farmi spazio, ma non disse una parola. Controllò con lo
sguardo tra le foglie che la gazza fosse ancora lì, poi
riprese a fissare l’orizzonte.
Mi
sedetti e feci qualche osservazione banale sul tempo, lì in
cima al poggio tirava un’aria piuttosto fredda, e sul panorama
di campi, colline e vigne, imbastardito da sgradevoli capannoni
industriali. L’uomo al mio fianco rispondeva distrattamente,
più per educazione che per interesse, anzi era evidente che
sebbene venisse lì spesso non era affatto attratto dal
paesaggio circostante.
Nonostante
i miei sforzi, la conversazione non decollava. Dopo un tentativo più
diretto, la vedo spesso qui dalle mie finestre, a cui lui
aveva risposto con un sospiro senza nemmeno voltarsi verso di me, mi
adeguai a quel suo stare lento, quasi assente, e tacqui.
Speravo
di trovare nel silenzio una nuova modalità di contatto con
quell’uomo, ma il silenzio rimase tale, anzi i nostri erano due
silenzi separati.
Ormai
la mia curiosità andava scemando, avevo immaginato chissà
quale mistero dietro il suo stare assorto per ore alla panchina,
invece era semplicemente una persona abulica, per lui essere qui o in
un qualunque altrove era la medesima noia. Così pensavo,
quando a un tratto l’uomo parlò. Ma non a me.
Gaia,
su, Gaia non essere timida, torna qui.
La
voce era pacata, il volto sereno, e quando dal folto della quercia la
gazza con un breve volo andò a posarsi sul suo ginocchio,
l’uomo sorrise. Cavò dalla tasca un pezzetto di pane e
gliel’offrì, sminuzzato, sul palmo aperto. L’uccello
becchettò a lungo, poi, terminato il pasto, spiccò il
volo. La gazza volteggiava sopra di noi gorgheggiando e compiendo
evoluzioni allegre. Io la seguivo, meravigliato che non si
allontanasse più che tanto da noi, il suo volo sembrava una
danza, oserei dire un ringraziamento, nell’unico modo con cui
poteva manifestarlo. Quindi planò con eleganza tra i piedi
dell’uomo e lì rimase, come un cane accucciato tra i
piedi del suo padrone.
Finalmente
l’uomo si voltò verso di me con un sorriso sornione:
l’ho incontrata la prima volta che sono venuto qui e ci
siamo subito intesi. E da allora ogni volta sembra che sappia che sto
per tornare. La trovo già qui che mi aspetta.
Con
poco tatto commentai: chissà se è sempre lo stesso
esemplare, magari c’è stato un passaparola tra le gazze
e si alternano nello scroccare il suo cibo.
L’uomo
mi guardò con un’aria di compatimento come non fossi in
grado di capire.
Ma
questa è la Gazza!, disse calcando la voce sulla G, come
avesse usato una maiuscola che doveva spiegare tutto.
Non
risposi e attesi che aggiungesse qualcosa ma lui stette in silenzio.
Si diede un colpetto sulla coscia destra e la gazza sbattendo le ali
vi saltò su. Ogni tanto lui la sfiorava con la mano e lei gli
becchettava delicatamente le dita senza pizzicare. Era un dialogo
muto e intenso. Si sbottonò il loden e tenne le falde aperte
in un invito. L’animale vi si tuffò in mezzo e lui
richiuse il cappotto a regalargli il tepore della lana cotta.
Lei
crede nella reincarnazione?, mi domandò a bruciapelo.
Bè,
francamente no.
Nemmeno
io. Ma questo animaletto ha i modi delicati e l’eleganza di una
persona che mi era molto cara. Sapeva accogliermi col sorriso
qualunque malumore avessi e riusciva sempre a smorzare la mia
inquietudine. La Gazza mi dà la stessa pace, per questo l’ho
chiamata Gaia. Credessi nella reincarnazione l’avrei chiamata
direttamente col suo nome.
Mi
guardò, non come se cercasse la mia approvazione di cui non
aveva bisogno, ma come se verificasse se riuscivo a districarmi tra
logica, affetti e minima follia. Forse la mia espressione imbarazzata
lo deluse perché mi fece uno stanco, quanto educato, gesto di
saluto a mo’ di congedo.
Tornai
verso casa frastornato, non è facile entrare nello spazio
stretto dove si rifugiano le persone forse candide o forse un poco
folli. Ma se non dentro almeno mi sono affacciato a quello spazio ed
è stata una vista salutare.
|