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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Il suonatore d'armonica, di Milvia Comastri 12/04/2007
 

Il suonatore d'armonica               

                                                                          In un vortice di polvere

                                                                          gli altri vedevan siccità,

                                                                          a me ricordava

                                                                          la gonna di Jenny

                                                                          in un ballo di tanti anni fa

                                                                          libertà l'ho vista svegliarsi

                                                                          ogni volta che ho suonato

                                                                          per un fruscio di ragazze

                                                                          a un ballo

                                                                          per un compagno ubriaco.

                                                                                            (F.De Andrè: “Il Suonatore Jones)

 

Se ne avverte il profumo, quando è stagione, ancora prima di entrare nel cortile. E' un'essenza che non ci si aspetta di cogliere, in quel luogo. Ci si sorprende, poi, di trovare, al di là del portone –non certo il primo che si deve oltrepassare per arrivare fino a lì-, quell'albero dal portamento femmineo. Il tronco, in contrapposizione alla chioma, è diritto e slanciato, il gioco dei rami è armonioso: si chinano verso il terreno quelli più bassi, si innalzano quelli superiori verso il cielo, come a sfidare l'alto muro, lì accanto.

E' fine giugno, e l'albero è in piena fioritura. Dicono che gli antichi Greci lo associassero ad Afrodite proprio per questo profumo inebriante. Per i Romani era simbolo dell'amore coniugale. In Persia era considerato un albero oracolare. Sembra che in Lituania le donne gli facciano ancora oggi offerte per avere un buon raccolto nei campi.

Ma, qui, questo tiglio è lontanissimo da qualsiasi atmosfera di erotismo, dall'amore di una donna, dalla fertilità dei campi. Ed è inutile arrotolare e srotolare strisce della sua corteccia per la divinazione. L'oracolo ha già parlato.

         L'albero era ben piantato nella terra ancor prima che quel perimetro di muri alti e grigi lo racchiudesse in un angolo. Lui era lì da prima: da quando sotto i suoi rami passavano coppie innamorate, e madri con bambini, e vecchi stanchi in cerca di fresco, e uomini che tornavano dal lavoro, e bestie, e carri. Se lui avesse memoria, quella memoria del cuore che, quando ne tocchi le corde, ti riporta tutte le emozioni, piangerebbe di nostalgia ogni giorno.

Ma al di là di tutto, al di là dei Greci, dei Romani, dei Persiani e delle donne lituane, lui è solo un albero.

 

 

         Appoggiato al suo tronco, ora, c'è un ragazzo. Ha l'aspetto pulito, ordinato. Una maglietta bianca, un paio di jeans. Solo le scarpe, mocassini in finta pelle, sono imbiancate dalla polvere del cortile. Più in fondo, sotto il cesto da basket, una dozzina di uomini saltellano sudati. Vicino al portone, a dieci metri dal ragazzo, un uomo guarda immobile davanti a sé, la sigaretta che gli si consuma fra le dita. Due, sulla sinistra, giocano a carte. Un altro legge un quotidiano sportivo, vecchio di qualche giorno. Tre, sulla panchina di fianco al portoncino che conduce all'interno, parlano fitto.

         Valerio si sistema la fondina e gira lo sguardo intorno. Fa caldo e il colletto della divisa che gli sfrega contro la nuca lo irrita. Maledice il tempo, il luogo, il collega che si è imboscato già da un'ora, e maledice quelli, lì, che lo obbligano a starsene sempre a guardare, a controllare. Vorrebbe essere nel letto di Carla, le persiane socchiuse, il ventilatore acceso, e il suo calore di donna.

         Il ragazzo toglie l'armonica dalla tasca dei jeans e comincia a suonare.

Sono tre anni che è dentro e la musica è tutto quello che ha. Lo chiamano il suonatore. In un posto dove nessuno si chiama per nome anagrafico, ma solo con epiteti che a volte ricordano i crimini commessi, il suo soprannome è senz'altro il migliore.

I primi tempi lo chiamavano l'assassino. Ma poi anche i più duri avevano capito che non si adattava a lui, quel nome, nonostante i processi, nonostante le sentenze.

Erano poi successe altre cose, all'inizio. Degradanti, disumane.

Ma la musica lo ha aiutato a non perdersi nei labirinti della pazzia, o a non ripiegarsi nell'abbrutimento. E gli ha anche creato una sorta di corazza, intorno: gli altri hanno imparato a lasciarlo in pace, a non pretendere più.

A volte gli chiedono di suonare, e basta.

         Lui ama tutta la musica. E' una cosa che ha dentro, la sente nella testa, nel cuore, nelle ossa. Da quando ha potuto riavere la sua armonica non se ne separa mai. Non è solo per la musica.

E' che gliela aveva regalata Marta.

 

 

         Marta che lo guarda terrorizzata, pur nella morte. Marta piena di sangue, la testa fracassata. Marta che rantola. Marta che gli sembra più piccola, in mezzo a tutto quel rosso con il suo abitino giallo. Marta che lui, fratello maggiore, non ha saputo proteggere. Marta adolescente che gli chiede consigli sul suo primo appuntamento. Marta che lo tiene forte per mano al funerale dei genitori. Marta che gioca con lui, dopo la scuola, sotto il tiglio davanti a casa. Marta neonata, che dorme nella carrozzina blu, nell'ombra dell'albero.

Marta che esce per il primo appuntamento, e lui la incoraggia, ma vai, le dice, divertiti, è ora che ti smolli.

Ma lui non lo conosceva neppure quel tipo, il tipo che l'ha uccisa ed è sparito, e che nessuno –solo il ragazzo, per un attimo, prima che la sorella se ne allontanasse insieme- ha mai visto.

Si dice che da qualche parte, in tribunale, ci siano delle prove che potrebbero far luce sulla sua innocenza. Infilate chissà dove, in qualche scatolone, sommerse da altre pratiche. Pratiche: che asettica parola per parlare di vite.

Ma il ragazzo pensa da sempre che proprio del tutto innocente lui non è. Doveva essere più accorto, più prudente. Non doveva lasciarla andare così, senza controllare chi fosse quello con cui usciva, accontentandosi di un nome e nient'altro. Era lui il capofamiglia, era lui il responsabile delle loro vite. Leggerezza di ragazzo. Imperdonabile.

 

         Il suono malinconico dell'armonica arriva ad abbracciare il profumo del tiglio. Al ragazzo questo aroma ricorda il dipanarsi magico di pomeriggi estivi, nell'infanzia, le prime parole di Marta, i loro giochi, la merenda portata dalla mamma, il rientro del padre dal lavoro che parcheggiava l'auto all'ombra del tiglio. I pianti suoi e di sua sorella dopo l'incidente. La decisione di continuare insieme e da soli quando lui ha compiuto diciotto anni. Era l'albero della famiglia. Si riunivano spesso lì sotto, per la gioia e per la tristezza. Era il loro albero amico.

         Continua a suonare, la schiena appoggiata al tronco grigio e liscio.

L'ora d'aria sta per finire, ma lui non lo sa: è perso dietro il filo della musica, l'armonica gli vibra fra le labbra, le dita la tengono leggere. Ha gli occhi socchiusi.

 

         Valerio sente il sudore che gli appiccica la camicia alla schiena. In servizio non può neanche fumare, il direttore di quel carcere del cazzo è inflessibile su questi particolari. Crederà di dirigere Alcatraz, invece che questo buco con venti carcerati che per lo più vanno e vengono. Solo quello là, il suonatore, è ospite fisso. Ne avrà ancora per trent'anni. Chissà se è vero che è innocente, qui dicono tutti di esserlo. Certo che lui ha avuto un avvocato da schifo, da quanto dicono. Dicono che non c'era uno straccio di prova, che non c'era un movente. Solo le sue impronte sul ferro da stiro, arma del delitto. E le sue mani insanguinate.

         Gli uomini stanno rientrando. Il collega di Valerio è finalmente tornato e li accompagna.

Valerio si gratta la pancia. Ha sempre un dolorino vicino al fegato, gli sembra che sia anche un po' gonfio. E poi da qualche tempo gli brucia lo stomaco. Mah, se ne sentono dire tante… Guarda il direttore di prima, due mesi ed è andato. Tac, entrato in ospedale con i suoi piedi, uscito dentro una bara. Almeno quello lo faceva fumare…

 

         Il ragazzo e la sua musica e il profumo del tiglio formano un cerchio magico, nell'angolo del cortile polveroso.

La sberla arriva improvvisa. L'armonica cade nella polvere.

         “Deficiente, ti ho chiamato tre volte, chi credi di prendere in giro? La vedi questa? Guarda cosa ne faccio!”

Valerio mette l'armonica sotto i piedi e la calpesta con forza, con tutta la rabbia accumulata in quel mattino pieno di caldo e in tutti gli anni che lo hanno preceduto, quel giorno, pieni di vuoto e di paure.

Il ragazzo guarda a terra, poi, con un urlo terribile, scatta addosso alla guardia, picchia dove capita, con violenza.

Ma non può vincere. Non è nel suo carattere essere violento fino in fondo.

Il proiettile lo colpisce alla gola, a distanza così riavvicinata che si capisce subito che è finita.

         “Mi ha aggredito, mi ha aggredito!” urla istericamente Valerio, lasciando cadere la pistola.

         C'è molto sangue, a terra. Il tronco del tiglio ne è tutto macchiato.

 

         Le dita del suonatore vibrano piano, si stendono lentamente fino ad incontrare un oggetto accartocciato, irriconoscibile. Muto per sempre.

 

 

Ricordando Dominique Green, vittima, il 26 ottobre 2004, di omicidio premeditato da parte del democratico Governo degli Stati Uniti D'America.

 

 

 
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