Maledetto
Magadino
di
massimolegnani
La
Svizzera mi mette l’ansia.
Mi
basta varcare la frontiera, anche se in pratica la dogana non esiste
più, per sentirmi a disagio. Forse è il ricordo di
quando la gita domenicale a Chiasso era un’avventura di
piccolissimo contrabbando, due o tre pacchetti di sigarette più
del consentito per papà, gomitoli di lana per mamma,
cioccolata a iosa per me e mia sorella. Tutto costava meno che da noi
ma i quantitativi permessi erano assai limitati e i controlli di
dogana erano severi. Entravo in Svizzera con la coscienza del piccolo
malfattore e la certezza di essere smascherato al rientro. Quella
sensazione di essere fuori posto e a rischio di sanzione o di sopruso
appena messo piede in territorio elvetico mi è rimasta.
Francia, Germania, Austria o Istria non mi danno alcun patema, è
proprio una questione tra me e questo scomodo vicino che, piazzato lì
in mezzo all’Europa, ogni tanto lo dobbiamo attraversare. Come
l’altro giorno.
Dopo
tanta pioggia avevano preannunciato due giornate di sole e io in
tutta fretta ho preparato la bici e un minimo bagaglio (sono
diventato un esperto in essenzialità) e sono partito alla
volta del Lago Maggiore. L’idea era quella di fare il giro
completo del lago, passando quindi anche per la sua porzione
elvetica. Di questa stagione le ore di luce sono poche, perciò
occorre macinare chilometri di buona lena per non farsi sorprendere
dall’oscurità lontani da un punto d’approdo.
La
gamba è discreta e il tempo ottimo, non potevano capitarmi
giornate migliori. Quando raggiungo il confine ho il morale a mille,
questa volta la Svizzera non mi spaventa. Me lo dico e me lo
ripeto come un mantra e per un buon tratto sembra che funzioni.
Ma
poi arrivo a Magadino.
Maledetto
Magadino, paesotto insignificante ma anche snodo cruciale dove è
facile sbagliare. Lì il Ticino si butta nel lago formando un
delta acquitrinoso che si deve aggirare risalendo il fiume per alcuni
chilometri. Nella stessa aerea ci sono anche l’aeroporto, lo
scalo ferroviario e molte industrie che costituiscono ulteriori
ostacoli a quella che sarebbe la direzione naturale del mio viaggio.
Ho già un centinaio di chilometri sulle spalle, la stanchezza
comincia a farsi sentire e con la stanchezza inizia a serpeggiarmi
dentro l’ansia svizzera.
Entro
in una bettola per prendere un caffè e chiedere informazioni.
Mi dicono di proseguire dritto fino a un incrocio con una chiesa ben
visibile e lì di girare a sinistra. A cose fatte posso dire
che nella bettola mi sono preso una doppia fregatura, il caffè
(un brodetto imbevibile) l’ho pagato 2 euro e 30 e la chiesa ho
ancora da trovarla.
Continuo
a pedalare in una piana sterminata, consapevole di allontanarmi
sempre più da Locarno, la mia meta in cima al lago, e impiego
del tempo prima di capire che la chiesa, se esiste, l’ho
superata e non l’ho vista.
Per
non rifare lo stesso percorso a ritroso prendo, a naso, una strada a
sinistra che sembra promettente. Convinto di sbucare prima o poi
sulla direttrice principale per la città, non faccio tanto
caso che la strada si va sempre più restringendo. Solo quando
diventa un viottolo fangoso mi preoccupo. Sono in aperta campagna,
probabilmente a ridosso del Ticino che ancora non ho superato, il
sole ormai è tramontato e non vedo all’orizzonte le luci
di un paese: c’è poco da stare allegri, mi sono perso.
Tornare
verso Magadino significa allungare di parecchio, l’unica è
andare avanti sperando in bene. Ma bene ce n’è davvero
poco, procedo tra fango, foglie ed enormi pozzanghere, la bici
scivola, cado più volte imbrattandomi tutto, alla fine decido
di andare avanti a piedi. Sono sfinito e disorientato in un paesaggio
surreale dominato dal crepuscolo. Maledico la mia voglia di
avventura, rimpiango le pantofole.
In
un silenzio spettrale a un certo punto sento un lontano nitrire di
cavalli e qualche voce. Sono capitato vicino a un maneggio. Entro nel
capannone, mi si avvicina un’amazzone che mi parla senza
scendere di sella. Ho gli occhiali appannati e sporchi, non vedo il
volto della donna, distinguo solo la faccia del cavallo a pochi
centimetri dai miei occhi e, rincoglionito come sono, mi rivolgo a
lui, il cavallo, per avere informazioni. Lui mastica annoiato e
sembra che doppi la voce della donna. Inframmezzate da qualche
nitrito escono parole rassicuranti, è semplice, vengo tutti
giorni da Locarno seguendo l’argine. Prosegui lungo il
sentiero e tra qualche chilometro sbucherai sulla statale vicino
all’aeroporto. Basta che superi il ponte sul Ticino e sei...a
cavallo. Un nitrito stridulo come una risata satanica sottolinea
la battuta. Il cavallo ha una inflessione ticinese che sembra una
parodia dell’italiano, ma non è il momento di
disquisiire sulla purezza della nostra lingua rovinata dalla parlata
sgraziata degli svizzeri, tantopiù trattandosi di un cavallo.
Lo ringrazio per la sua cortesia, faccio anche un cenno di saluto
vago verso la donna che non vedo e riprendo la mia marcia.
Dopo
una mezz’ora vedo nel buio più completo le prime luci
della città.
Sono
salvo, l’incubo è finito.
Grazie
cavallo, mio salvatore senza nome!
|