La
cravatta
di
massimolegnani
Stava
attraversando il grande parcheggio antistante all’edificio
dell’università per andare a lezione. No, un momento,
Camillo non era né uno studente fuoricorso né tantomeno
un professore emerito, no, lui, meno pomposamente, si sarebbe dovuto
infilare in una porticina laterale per accedere a uno stanzone poco
riscaldato per seguire un corso sul teatro tenuto dall’università
della terza età. Era quella la sua età ed era pure in
ritardo, non sull’età, quella la portava abbastanza
bene, ma sull’inizio dei lavori. Stava attraversando il
parcheggio, dicevo, quando si sentì chiamare, ingegnere,
ehi, ingegnere!
A
dir la verità lui non era ingegnere e già questo
avrebbe dovuto metterlo in allarme, ma era sempre stato contento
quando qualcuno per errore o per scherno lo apostrofava con titoli di
studio che non possedeva. E poi non c’era nessun altro nel
parcheggio tranne lui e un individuo che, a bordo di un suv nero
tirato a lucido, si sbracciava per attirare la sua attenzione.
L’uomo, una volta intercettato il suo sguardo, balzò giù
dalla macchina e corse ad abbracciare con grande trasporto un Camillo
stupefatto che boccheggiava nel tentativo frenetico di ricordarsi chi
fosse costui, un vecchio amico, un collega di lavoro, un compagno dei
tempi della scuola? Nebbia assoluta e questo lo fece sentire in
colpa.
L’altro,
intanto, lo inondava di parole impedendogli di riflettere, hai
visto come sono dimagrito? Ora vivo in Germania, ma tu ti ricordi
quante ne abbiamo fatte ai bei tempi? Dobbiamo restare in contatto.
Un
fiume in piena che Camillo non riusciva ad arginare. Dopo tanto
parlare a vuoto l’uomo, che il nostro non era ancora riuscito a
mettere a fuoco, gli disse di aver impiantato una piccola sartoria
d’alta moda. Lavoro anche per Armani, gli confidò
mostrandogli un elegante cofanetto che aveva stampigliata la sigla
dello stilista. Apri! Guarda che stupenda cravatta. Camillo
guardò soprattutto il prezzo e gli venne male: 130 euro!
Fu
quasi sollevato quando quello gli disse che gliela regalava in nome
della loro antica amicizia.
In
ogni caso, per evitare equivoci, rifiutò il dono ringraziando.
L’altro attaccò una pantomima degna del teatro greco più
classico, tu mi offendi, non puoi rifiutare. E come uno
scaltro giocatore di poker rilanciò mettendo sul piatto, o
meglio tra le braccia dell’amico, una lussuosa cintura in
pelle, l’etichetta col prezzo ben in vista: 200 euro! A me
interessa che tu mi faccia un po’ di pubblicità, gli
disse con solennità. Non ti chiedo altro, con una persona
famosa come te, sai che ritorno di immagine che ne avrò.
Camillo
si chiese in quali ambienti potesse essere famoso, forse alla
bocciofila, ma neanche.
Il
tipo stava per risalire in macchina quando all’ultimo istante
sembrò ricordarsi di qualcosa con la noncuranza del ricco che
ha dimenticato il portafogli a casa: sto per tornare in Germania,
potresti contribuire al costo della benzina. Nonostante il
condizionale, la sua non era una domanda né tantomeno
un’ipotesi teorica, ma un’affermazione perentoria.
Sebbene
qualcosa del genere fosse nell’aria dall’inizio, Camillo
fu colto alla sprovvista. Annaspò in un patetico tentativo di
sottrarsi al vicolo cieco in cui si era ficcato. Certo avrebbe potuto
rendere la mercanzia ma lo disturbava l’idea di essere sgarbato
e di offendere nuovamente l’amico sconosciuto. Così con
una certa riluttanza ma anche con la precisa sensazione della cosa
inevitabile, tirò fuori di tasca il pinzadenari e da quello
sfilò una banconota da 50 euro. L’altro fu lesto ad
afferrarla, ma, anziché ringraziare, protestò per
l’esiguità della cifra, con questi non arrivo nemmeno
in Svizzera! È che lui nei brevi istanti in cui era
apparso il pinzadenari aveva valutato al centesimo la somma contenuta
e voleva l’intero malloppo. Facciamo così, io ti do
anche questa splendida borsa, nota il prezzo per cortesia, 500 euro
tondi tondi, e tu mi dai i 175 euro che ti restano.
A
quell’ultima proposta finalmente Camillo si risvegliò
dal torpore ed ebbe un inaspettato moto d’orgoglio, inaspettato
perché l’orgoglio non era propriamente nelle sue corde.
Basta!
Manco mi ricordo di preciso chi sei, ti rendo la merce, tu mi
restituisci i soldi e amici come prima.
Insomma,
ancora non aveva capito che quell’individuo era un truffatore,
mai visto e conosciuto prima di allora. Rimase lì con il palmo
aperto in attesa del denaro. L’altro, invece dei soldi, gli
rimise in mano la cravatta e gli diede pure un buffetto sulla
guancia: dovrei offendermi, ma va bene così, dai. Tu mi sei
simpatico.
Salì
in macchina e, scrivimi, mi raccomando, gli gridò
ripartendo.
Camillo
se ne stette a lungo impalato in mezzo al piazzale, cercava di
ricostruire la girandola di eventi che lo avevano travolto. Era
demoralizzato, non solo per i cinquanta euro persi, ma anche per la
propria memoria colabrodo che non gli faceva riconoscere le persone
incontrate nella vita.
E
poi io la cravatta non la metto mai, si disse tornando sconsolato
alla macchina.
Ormai
la lezione di teatro era persa.
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