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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  La cravatta, di massimolegnani 30/03/2020
 
La cravatta

di massimolegnani



Stava attraversando il grande parcheggio antistante all’edificio dell’università per andare a lezione. No, un momento, Camillo non era né uno studente fuoricorso né tantomeno un professore emerito, no, lui, meno pomposamente, si sarebbe dovuto infilare in una porticina laterale per accedere a uno stanzone poco riscaldato per seguire un corso sul teatro tenuto dall’università della terza età. Era quella la sua età ed era pure in ritardo, non sull’età, quella la portava abbastanza bene, ma sull’inizio dei lavori. Stava attraversando il parcheggio, dicevo, quando si sentì chiamare, ingegnere, ehi, ingegnere!

A dir la verità lui non era ingegnere e già questo avrebbe dovuto metterlo in allarme, ma era sempre stato contento quando qualcuno per errore o per scherno lo apostrofava con titoli di studio che non possedeva. E poi non c’era nessun altro nel parcheggio tranne lui e un individuo che, a bordo di un suv nero tirato a lucido, si sbracciava per attirare la sua attenzione. L’uomo, una volta intercettato il suo sguardo, balzò giù dalla macchina e corse ad abbracciare con grande trasporto un Camillo stupefatto che boccheggiava nel tentativo frenetico di ricordarsi chi fosse costui, un vecchio amico, un collega di lavoro, un compagno dei tempi della scuola? Nebbia assoluta e questo lo fece sentire in colpa.

L’altro, intanto, lo inondava di parole impedendogli di riflettere, hai visto come sono dimagrito? Ora vivo in Germania, ma tu ti ricordi quante ne abbiamo fatte ai bei tempi? Dobbiamo restare in contatto.

Un fiume in piena che Camillo non riusciva ad arginare. Dopo tanto parlare a vuoto l’uomo, che il nostro non era ancora riuscito a mettere a fuoco, gli disse di aver impiantato una piccola sartoria d’alta moda. Lavoro anche per Armani, gli confidò mostrandogli un elegante cofanetto che aveva stampigliata la sigla dello stilista. Apri! Guarda che stupenda cravatta. Camillo guardò soprattutto il prezzo e gli venne male: 130 euro!

Fu quasi sollevato quando quello gli disse che gliela regalava in nome della loro antica amicizia.

In ogni caso, per evitare equivoci, rifiutò il dono ringraziando. L’altro attaccò una pantomima degna del teatro greco più classico, tu mi offendi, non puoi rifiutare. E come uno scaltro giocatore di poker rilanciò mettendo sul piatto, o meglio tra le braccia dell’amico, una lussuosa cintura in pelle, l’etichetta col prezzo ben in vista: 200 euro! A me interessa che tu mi faccia un po’ di pubblicità, gli disse con solennità. Non ti chiedo altro, con una persona famosa come te, sai che ritorno di immagine che ne avrò.

Camillo si chiese in quali ambienti potesse essere famoso, forse alla bocciofila, ma neanche.

Il tipo stava per risalire in macchina quando all’ultimo istante sembrò ricordarsi di qualcosa con la noncuranza del ricco che ha dimenticato il portafogli a casa: sto per tornare in Germania, potresti contribuire al costo della benzina. Nonostante il condizionale, la sua non era una domanda né tantomeno un’ipotesi teorica, ma un’affermazione perentoria.

Sebbene qualcosa del genere fosse nell’aria dall’inizio, Camillo fu colto alla sprovvista. Annaspò in un patetico tentativo di sottrarsi al vicolo cieco in cui si era ficcato. Certo avrebbe potuto rendere la mercanzia ma lo disturbava l’idea di essere sgarbato e di offendere nuovamente l’amico sconosciuto. Così con una certa riluttanza ma anche con la precisa sensazione della cosa inevitabile, tirò fuori di tasca il pinzadenari e da quello sfilò una banconota da 50 euro. L’altro fu lesto ad afferrarla, ma, anziché ringraziare, protestò per l’esiguità della cifra, con questi non arrivo nemmeno in Svizzera! È che lui nei brevi istanti in cui era apparso il pinzadenari aveva valutato al centesimo la somma contenuta e voleva l’intero malloppo. Facciamo così, io ti do anche questa splendida borsa, nota il prezzo per cortesia, 500 euro tondi tondi, e tu mi dai i 175 euro che ti restano.

A quell’ultima proposta finalmente Camillo si risvegliò dal torpore ed ebbe un inaspettato moto d’orgoglio, inaspettato perché l’orgoglio non era propriamente nelle sue corde.

Basta! Manco mi ricordo di preciso chi sei, ti rendo la merce, tu mi restituisci i soldi e amici come prima.

Insomma, ancora non aveva capito che quell’individuo era un truffatore, mai visto e conosciuto prima di allora. Rimase lì con il palmo aperto in attesa del denaro. L’altro, invece dei soldi, gli rimise in mano la cravatta e gli diede pure un buffetto sulla guancia: dovrei offendermi, ma va bene così, dai. Tu mi sei simpatico.

Salì in macchina e, scrivimi, mi raccomando, gli gridò ripartendo.

Camillo se ne stette a lungo impalato in mezzo al piazzale, cercava di ricostruire la girandola di eventi che lo avevano travolto. Era demoralizzato, non solo per i cinquanta euro persi, ma anche per la propria memoria colabrodo che non gli faceva riconoscere le persone incontrate nella vita.

E poi io la cravatta non la metto mai, si disse tornando sconsolato alla macchina.

Ormai la lezione di teatro era persa.


 
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