Non
salverò mai nessuno, io
di
massimolegnani
È
il colore a volte che fa la differenza, nel mio caso una differenza
abissale.
Avrei
voluto essere arancione, mi sono ritrovato blu.
Pensare
che una dozzina d’anni fa al corso teorico-pratico organizzato
dall’ASL per selezionare chi fra i propri autisti avrebbe
guidato le ambulanze del 118, ero stato tra i migliori, alzavo la
mano come a scuola e snocciolavo senza errori la successione delle
manovre del log-roll, sapevo dire quando e come si doveva usare il
cucchiaio e quando la spinale, conoscevo a memoria procedure
d’intervento e protocolli di chiamata. Quello era stato un
periodo esaltante, di giorno il solito lavoro, alla sera uno studio
accanito, di notte il sogno sempre uguale e sempre bello, sfrecciavo
per le strade a sirene spiegate, fendevo il traffico come Mosè
le acque del MarRosso, portavo l’equipaggio sul luogo del
disastro, collaboravo nel soccorso dei feriti, l’arancione
fluorescente del giaccone d’ordinanza un lasciapassare tra la
folla dei curiosi. Tutto faceva pensare che sarebbe andata proprio
così, ma poi all’esame mi ha fregato l’emotività.
L’istruttore
mostrandomi il manichino riverso sul pavimento mi disse Guglielmetti,
fai conto che sia un ragazzino di dodici anni coinvolto in un
incidente: apparentemente non è cosciente, forse nemmeno
respira, datti da fare.
A
sentire quelle parole non ho più visto davanti a me un
bambolotto di plastica ma un volto insanguinato e ho perso la testa,
Cristosanto è poco più di un bambino. Mi sono
chinato su di lui e anziché iniziare le manovre di soccorso
che pure sapevo a menadito l’ho preso tra le braccia, un
bambino vero, irrimediabilmente morto, tra le mie braccia, un
bambino da lavargli il viso con le lacrime, piangevo sì, e lo
cullavo mentre l’istruttore sbraitava Guglielmetti ma che
fai? Sbrigati, sta per morire, Guglielmetti dacci dentro con la
rianimazione, forza! Salvalo! No, è inutile, non ce
la può fare, non ce la posso fare, è morto, povero
ragazzino, morto senza nemmeno un nome. L’unica cosa che
m’importava era tenerlo stretto, lì inginocchiato su un
pavimento che credevo asfalto tra rottami e resti umani, essergli
vicino nel passaggio, accompagnarlo dove…non lo so dove vanno
a morire i morti.
Un
dolore mai provato!
Non
salverai mai nessuno, Guglielmetti. Il mio istruttore gridava, io
nemmeno lo sentivo, ero in un altro mondo.
Mi
dovettero staccare a forza dal manichino.
Del
mio passaggio al 118 non se ne parlò mai più.
Mi
assegnarono un furgoncino, che di recente hanno sostituito con uno
appena più moderno, ma niente lampeggianti nè sirene, e
una divisa orrenda, giubbino blu con stampigliata una croce rossa
subito sbiadita e pantaloni della stessa tinta con al fondo una
striscia catarifrangente bianca. Ai piedi non gli scarponcini in
goretex di cui sono forniti gli “arancioni”,
no, per le scarpe arrangiati, così una volta mettevo
mocassini marroni o sandali d’estate, ora delle vecchie Superga
che ho ritrovato in casa.
Così
conciato, che sembro una caricatura del soccorso, batto la provincia
in lungo e in largo a portare campioni di piscio e sangue da un
laboratorio all’altro e anziani dalle case di riposo
all’ospedale per esami, ma solo se non stanno male, sai Gu
non vorremmo che ti emozionassi un’altra volta se li dovessi
rianimare, e una risata cattiva a chiudere il discorso.
Dodici
anni che faccio ‘sto mestiere, una dozzina d’anni lunga
come un giorno solo, talmente è sempre uguale quello che
faccio. E quel che è peggio non è il lavoro ma la pausa
in mensa dove vorrei mangiare da solo e invece c’è
sempre qualcuno degli equipaggi del pronto intervento che si siede e
sfotte, e anche se non sfotte mi basta vederlo tutto in ghingheri, lo
zaino rosso delle emergenze accanto alla sedia, il cellulare
collegato alla centrale appoggiato sul tavolo, la chiamata a inizio
pasto e lui che scatta, bello e sicuro come un guerriero, lascia il
vassoio quasi intatto, beato te che puoi mangiare tranquillo
dice con aria superiore e subito corre a salvar la gente. Mi basta
questo per sentirmi la mezza merda che sono diventato.
Non
salverò mai nessuno, io.
E
poi magari anche a me interrompono il pasto, Guglielmetti, vai a
prendere il signor Lacchia di Caluso e portalo alla dialisi.
Provo a obbiettare che c’è tutto il tempo: senti,
finisco di mangiare e vado; No, gracchia il mio dio severo nella
ricetrasmittente, ci vai subito che questo già una volta si
è lamentato di te, sei arrivato all’ultimo momento e
dopo andavi troppo forte in macchina e lo sballottavi di qui e di là.
Ok,
vado, non discuto, vado.
Lacchia
è una serpe d’uomo. D’accordo ha i suoi malanni,
la dialisi non è una passeggiata, ma lui ce l’ha col
mondo intero e con me in particolare perché lo porto dove non
vorrebbe andare. Lo carico, lui e la carrozzina (potrebbe camminare,
certo, ma il viaggio verso l’ospedale pretende di farlo sulla
sedia a rotella) utilizzando l’elevatore elettrico del mio
CuboFiat e da quel momento il signor Lacchia troneggia sul pianale
posteriore, diventa il mio tiranno grigio, mi rimbrotta per ogni
cosa, la guida, il traffico, il riscaldamento eccessivo o troppo
basso, mi tiene il fiato sul collo, sbraita e sputacchia saliva,
certe volte mi minaccia pure con l’inseparabile bastone, e
diventa un calvario il viaggio. Ci vuole tutta la mia pazienza a
sopportarlo e quell’ora che passo con lui mi segna la giornata.
Dopo non c’è sorriso di altri miei clienti che compensi
l’umore rovinato.
Questo
mestiere mi regala poche soddisfazioni e allora retrocedo a minime
ambizioni, divento consapevole del poco margine possibile di
miglioramento, cerco di lavorare in fretta per ritagliarmi piccoli
momenti di consolazione tra un servizio e l’altro, una sosta al
bar, qualche sguardo rubato in giro, due parole con la Piera mentre
le consegno le provette per le analisi e lei mi firma la ricevuta, il
seno che straripa nel camice attillato e quel sorriso un po’
sciupato che invita all’ammicco e alla battuta sconcia alla
quale non rinuncio (eh Piera, sempre col vento in poppa e le poppe
al vento).
E
quando mi capita di andare verso sud a consegnare materiale alla
Sorim mi fermo tra le risaie a osservare il bianco degli aironi.
Quanta eleganza quando camminano flemmatici nell’acqua bassa.
Li guardo contorcersi con grazia per nettarsi con il becco le piume
al sottocoda e mi sembra di vedere le mondine ancora chine sulle
erbacce. Ascolto il loro canto e m’incanto ai loro corpi curvi
che dovevano a quel tempo essere belli. Non salverò mai
nessuno, io, ma almeno lasciatemi sognare la bellezza.
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