L'ASSOLO
Fermo sul bordo erboso della
provinciale, Fiore, capelli brizzolati, occhi assonnati, statura media, viso,
naso, bocca normali, pensieri riflessi su se stesso, un po' meno normali,
aspettava. Dall'altro lato della strada gli giungeva sommesso il gorgoglio di
una roggia. Alla sua sinistra, saldata al palo arrugginito, c'era la targa
della fermata.
Egli era in anticipo, la corriera in
ritardo, come al solito.
Non ricordava un novembre più umido e
nebbioso di questo: erano le sette di un mattino scialbo, perso in un'aria densa e grigia. La strada già ad una
ventina di metri sfumava nel muro di nebbia. Nella piatta campagna, alla
sinistra della roggia guardando verso Milano, una duplice fila trasversale di
scuri cipressi segnava il confine tra il visibile e l'invisibile.
Alle sue spalle, poco lontano,
sbiadiva la sagoma di un vecchio cascinale; le zolle rosse dell'arato emanavano
un profumo di terra che
stimolava il galleggiare sulla superficie della coscienza di
vaghe atmosfere fanciullesche, di sottili falde profumate, sovrastate tutte,
come divinità totemica, dall'effetto presenza paterna. Il padre! Da quanto
tempo fosse morto gli era impossibile ricordare. Della
madre sapeva gli anni trascorsi dalla sepoltura, all'incirca. Si strinse addosso il
cappotto, si aggiustò il bavero, alzandolo fin quasi a nascondervi la testa, in
una infantile pretesa di protezione dall'indumento.
“Quanto avrebbe dovuto aspettare,
quel giorno?” Pensava. “Cacchio d'un lavoro disumano in fonderia. Lì, alla
fermata, le ossa s'infradiciavano di umido, in fabbrica si essiccavano al
calore del forno, bollivano insieme al rame durante il pinaggio.
Così, i suoi cinquantatre anni erano arrivati di botto! con
gli acciacchi dei settanta! conseguenze di una vita
difficile, e con l'amarezza della scoperta che le energie migliori se ne erano
andate senza cimeli.” In quel pingue silenzio grigio l'assalivano i sentimenti tipici della
solitudine, quelle scaglie depressive che mostrano la vita con immagini che
trascorrono in un'altra dimensione, attigua ma inafferrabile, eppure lucida
come un delirio; quei brevi frangenti rivelatori della impotenza mentale a
deviare il flusso degli eventi; incombente il disperato desiderio di riprendere
il filo per tentare un altro ricamo. “No! il filo ammagliato
non si può scucire, rimangono solo i buchi enormi, perversi, che più si
sfaldano col passar degli anni.” Mormorava, arreso al fatale prosieguo
dell'esistenza. Querulo, un uccello nero, “un corvo?” svolò
nel molle della nebbia. Fiore si scosse, ebbe un tremito, guardò a sinistra, da
dove sarebbe dovuta arrivare la corriera dei pendolari, ma
scorse solo il fumo grigio. Si girò a destra, distrattamente, vide il lieve
noto arcuarsi della strada per il ponte costruito sull'altra roggia che
irrigava trasversalmente la campagna e, a sinistra della strada, proprio sulla
gobba, uno sgretolato muricciolo a protezione. Solo quella
mattina gli venne di constatare: “A destra? Perché non c'era a destra il muro? Chi fosse
andato da quel lato avrebbe corso il rischio di cadere nell'acqua, e tanto
peggio per lui! Che modo di organizzare la cosa pubblica.”
Appena dopo questi pensieri, lo sfiorò il sentore di un'immagine già trascorsa,
ma la cui impressione viveva ancora in un ganglio mentale. Girò di nuovo lo
sguardo, arretrandolo. Lentamente, come in moviola. Ed eccolo! Seduto,
tranquillo sul muricciolo, con le gambe a ciondoloni, pantaloncini corti,
scarpe sdrucite, maglietta a righe di indefinibili colori, capelli lisci e neri
sopra un viso giovane. Un volto strano: gli sembrava familiare, molto. “Perché
mi impressiona quella faccia con gli occhi chiari, malinconici? Il ponte mi
sembra più vicino! Sicuro che è un'illusione, ma il ragazzo no, è vero, ed ora
lo vedo a dieci metri, come se il reale segmento di distanza si fosse
accorciato. Cosa fa là seduto, a guardare proprio me, poi? E soprattutto, perché mi è così
familiare?”
Fiore non capiva e da questo si
sentiva infastidito, sempre più a disagio e curioso. Era stravagante la
presenza di quel ragazzo, vestito in quel modo, a bighellonare su un muretto,
in una strada deserta, nella nebbia silenziosa, e corroso dall'umido. Mentre
pensava, si sentì invadere da un freddo intenso. Lo percepì come un colpo di
frusta sulle carni vive. Poi non sentì più! Niente. Né freddo, né umido.
La
curiosità montante lo assillava con le domande: “Sei nuovo?” chiese
brevemente al ragazzo. Questi strabuzzò gli occhi, stupito: “Chi, io?”
“C'è un altro forse?”
Il ragazzo continuava a fissarlo, con
aria ora amorevole, con rispetto.
“Allora, sei nuovo? E' così difficile
rispondere?” Ripeté la domanda Fiore.
“Non capisco perché vuoi sapere se
sono nuovo: cosa significa?”
“Ma niente, è un modo di dire!
Siccome credo di non averti mai visto prima, vorrei sapere, così, per semplice
curiosità, se abiti o no da queste parti.”
“Perché? vedersi e
conoscersi sono condizioni necessarie dei vicini di casa?”
Ora a Fiore quel presunto ragazzo
appariva ancora più strano, per via di un fascio di luce scialba che, forando
la massa nebbiosa, ne aveva illuminato il viso, rendendo però la valutazione
dell'età, anziché agevolarla, ancora più incerta; anzi, con quella luce, non
gli si potevano attribuire di certo gli anni di un ragazzo; del quale,
tuttavia, oltre
l'aspetto generale, soprattutto la cadenza della voce, ma anche lo sguardo,
venato d'ironia, davano all'uomo, che l'osservava con curiosità sempre morbosa,
una forte sensazione di familiarità, eppure confusa, come proveniente da
ombrose fratte della memoria, tra le quali giaceva, morta da molti anni, una
secca sterpaglia di ricordi. E che ora quella visione riesumava.
Rammentò all'improvviso il suo
argomentare involuto nei discorsi con i coetanei, quando era lui un ragazzo.
Gli sembrò di ripercorre un tunnel, lungo il quale
bagliori intermittenti guizzavano nel buio, proiettando immagini con confini
evanescenti, come larve nell'intermezzo dello sviluppo, quando non hanno le
forme definitive né dell'uno che hanno lasciato, né dell'altro organismo che
diventeranno. Involuzioni verbali che miravano ad irritare gli interlocutori, a
forzare il dialogo e a contorcerlo con ghirigori sintattici, che sovente si
concludevano in bisticci vuoti di significato.
“Non è questione di necessità” disse
Fiore,”ma di occasioni. Se sei di questa zona, per
tutte le volte che sei uscito di casa e rientrato percorrendo gli stessi pochi
viali, avremmo dovuto incontrarci almeno una volta, ti
pare?”
“A me si! A te non pare che potremmo
esserci incontrati, ma non visti? Ogni giorno, per una vita, anche tu hai
percorso questa strada, non scorgendone tutti, ma proprio tutti, i particolari;
lungo gli anni tuoi hai frequentato infiniti luoghi, ma di essi
cosa hai visto? Solo una parte! Quella potuta osservare dal tuo punto di vista;
e nei tuoi ricordi ce n'è ancor meno. Nella parte che manca alla tua memoria
evidentemente c'è anche il mio volto: lo specchio riflette l'immagine fino a quando il corpo gli sta davanti.”
“Vorresti dire che non ho memoria?
Come puoi dire questo se non mi conosci?”
“Se io non ti conosco, neanche tu
conosci me: allora perché mi rivolgi la parola e mi fai l'intervista?”
“Il tuo aspetto mi sembra familiare.
In te c'è tutto quello che fa dire ad un amico, ad un parente: ci somigliamo
come due gocce d'acqua! Ed è questo che è strano, perché sono sicuro di non
averti mai visto prima d'ora, né mi risulta che in qualsiasi parte del mondo vivano ancora miei parenti.”
“Vedi che mi dai ragione? Hai la memoria ma non sai leggerla, sei come il cieco davanti allo
specchio, questo continua ad esercitare la sua funzione…”
“Ma io non mi vedo, vuoi dire!”
“Sei stato come il vento su un campo
di fiori: esso passa ramingo, spesso rabbioso e mai si accorge della bellezza
che ha sotto. Tu sei volato sulla tua vita, senza assaggiarne il profumo. Ora
hai perso le narici. Comunque sappi, anche se non vale più nulla, che io ti ho sempre voluto
bene!”
Lo stomaco di Fiore ebbe un sussulto,
come colpito da un crampo. Si stava incaponendo, voleva stare al gioco a tutti
i costi, tanto da essere determinato a non prendere la corriera se fosse arrivata
in quel momento. Un chiarore argenteo avvolgeva come in una sfera il sito; il
palo della fermata al suo fianco sembrava luccicasse dove non c'era ruggine, il
muricciolo svelava con nitore le crepe, nelle quali si intravedevano i merletti
delle ragnatele, i cipressi, come chiusi in adorazione, sembravano in fila
lungo il viale di un cimitero; i capelli del ragazzo a quello strano bagliore
dell'aria erano diventati improvvisamente bianchi, ora
sembrava invecchiato di colpo.
“Anch'io ti ho amato!” Lo disse per
reazione, senza riflettere e capire il valore di quella assurda
dichiarazione.
“Lo so!”
Era nervoso. Il ragazzo stava
vincendo, forse per merito della sua età, o forse semplicemente perché Fiore era convinto
che fosse molto più giovane, il che lo metteva
in una situazione di inferiorità. Eppure, a scrutarlo attentamente, sembrava più
in età, adulto, anzi, ora era sicuro che fosse anziano, diciamo della sua
stessa età.
In tal caso, che senso aveva quella
dichiarazione d'amore? E da dove nasceva la ferma sicumera ostentata da quel
personaggio?
“Se sai che ti voglio bene perché
dici che non ci siamo mai visti?” Chiese Fiore dopo un lungo silenzio.
“Io non ho detto questo: sto solo
cercando di rispondere alle tue assurde domande.”
Fiore era interdetto, non capiva in quale
gioco assurdo fosse stato invischiato. Aveva già
cambiato idea. Ora imprecava contro la corriera in ritardo:
la scusa di dover andar in fabbrica, per svolgervi il solito lavoro di operaio,
lo avrebbe liberato da quella contesa in cui, ormai ne era convinto, avrebbe
avuto la peggio: le sue domande “assurde”? Perché le sue parole avevano
dato a lui questa impressione? O forse bleffava!
“Sei un giocatore di pocher?” Gli chiese, nel tentativo di spiazzarlo.
“Non ho mai giocato a carte.”
Fiore ricordò di aver avuto sempre avversione per quei
giochi.
“Sai perché le tue domande sono
strane?” Chiese il ragazzo piegato in avanti, col palmo delle mani premuto sul
muretto, dondolando con più ritmo le gambe.
Straordinario,
ora prendeva lui l'iniziativa, gli faceva
l'interrogatorio, lo sottoponeva a quesiti. La curiosità prepotente mise a forza la
domanda in bocca a Fiore.
“Perché?”
“Sai già le risposte!”
“Ad esempio, di quale domanda?”
“Di quella con cui mi chiedevi se mai
ci fossimo visti.”
“E allora?” Non ne poteva più, voleva
scappare da quella nebbia equivoca, da quella fermata ormai inutile, dal
silenzio corposo che avvolgeva il posto, dove i suoni vagavano come ombre
lontane, circondati da bianco e poroso polistirolo. Così gli giunse la voce
dell'interlocutore, come un oggetto fragile immerso in una nuvola di bianchi
frammenti.
“Noi siamo stati sempre insieme, come
puoi non saperlo?”
La risposta sgorgò immediata ed
offesa:
“Io non ti conosco, perché sei
arrogante con me?”
“Non mi conosci? Guardami bene!”
Stava tremando. Stupore e sconforto
aggiungevano nebbia a nebbia. “Perchè si trovava in quella situazione
pazzesca?” Si chiedeva, Fiore e pensava: “Forse non era sveglio, o forse l'aria
infetta per le esalazioni delle fabbriche gli aveva drogato la mente. Non
poteva essere che questa la spiegazione: era drogato. In qualche modo, e in
qualche tempo, doveva aver assunto sostanze allucinanti e si trovava ora per
questo in una dimensione irreale, in cui le forme variavano in maniera lenta ma
incessante le proprie linee, arrotondando o aguzzando le loro immagini,
avvicinando o allontanando il piano di visione, come in un proscenio mobile, scivoloso,
davanti all'immenso sipario della nebbia.” “Guardami
bene!”. La richiesta perentoria a ondate sussultava nella mente,
ripetendosi all'infinito. Fiore dilatò gli occhi in uno sforzo estremo:
l'interlocutore sembrò avvicinarsi, quasi a stabilire un contatto. Constatò che
gli somigliava. No, di più: era il suo sosia! Perfetto. Non capiva, ragionava
come in delirio. “Perché gli somigliava così tanto? Che era questo mistero?”
“Mi hai riconosciuto?” chiese
dolcemente il finto ragazzo, ora così vicino da
sentirne lui l'alito freddo. Fiore in preda ad un indicibile sgomento chiese
balbettante:
“Non so, non credo. Aiutami! Chi
sei?”
“Scettico fino all'ultimo! Io sono te
stesso!
“Perché … perché mi prendi in giro?”
“Non ti prendo in giro: siamo morti,
ora!”
“Ma se sono qui, alla fermata;
aspetto la corriera per andare al lavoro!”
“Questa è la nostra ultima fermata!”
Fiore alzò con uno sforzo immenso la
testa per guardare in alto: la targa sopra di lui era bianca, senza scritte.
Abbassò gli occhi, steso sulla terra. L'ultima visione di sé stesso era svanita.