LA
PECORA
La strada a T: via san Domenico. In
salita. Corta. Entrandovi da
piazza San Giovanni si ha subito la vista dell'edificio a due
piani, macilento e antico di almeno sessanta anni. Visto dal basso, l'occhio
scorge dapprima il parapetto smerlato che circonda il terrazzo e poi,
intristito, i due balconi con persiane d'un verde scolorito ed ulcerato come un
lebbroso. Alla persiana di destra, quattro stecche sono appiccicate con nastro
adesivo marrone, a quella di sinistra ne mancano alcune e il buco è nero,
triste e povero. Le inferriate sono arrugginite e tra i ferri non vi è nessun
vaso e fiore a far capolino.
Al primo piano spiccano invece il
verde fresco degli infissi e i vasi pensili tracimanti fiori. Fili bianchi,
luccicanti, sono tesi
da una estremità all'altra dei ferri. Appeso ad essi
un lenzuolo bianco, come il cielo coperto da un velo di nuvole, oggi svolazza
sopra il portone che è grande, di legno marrone, chiuso. Tranne che per una
porticina a cupola, intagliata nella robusta superficie legnosa, sempre aperta
per via della serratura rotta, e attraverso la quale spesso entrano persone che
lasciano l'urina negli angoli, da dove s'alza un fetido puzzo.
All'interno del portone, nella
penombra, sui primi quattro gradini, quelli che portano al pianerottolo da dove
parte la rampa che sale ai piani, sta Lucia. Nella posizione della pecora.
Poggia i piedi sul pavimento, il palmo delle mani sul quarto gradino. A vederla
così si ha la certezza che l'hanno piegata per avere un più comodo accesso al suo
corpo. Ed è ancora in quella posizione, come pecora che brucata l'erba sta
ferma a meditare sul ciglio di un burrone.
L'aspettavano nel portone, al buio.
L'hanno posseduta in quattro. In tutti i modi.
Lucia ora è sola. Con i suoi sedici
anni, non più vergini. Ha ancora la fronte poggiata sul dorso della mano, di
cui sente il profumo lasciato dalla saponetta comprata al mercato rionale.
Sente il dolore vivido attraversare il suo corpo. Sente le cadenze dei loro
canili guaiti. Come se fossero ancora su di lei.
Durante quell'orgia
ha sentito il cigolio di un uscio che si apriva, per un attimo ha sperato in un
aiuto, ma lo stesso cigolio si è ripetuto dietro il silenzio, segno del
richiudersi spaventato della porta.
“Aiuto!” Ora la riconosce: è la sua
voce che le ritorna all'orecchio, come dal fondo di un dirupo, lacerata dalle
rocce, disperata. Sente sé stessa sospesa sul dirupo, priva di risorse.
Percepisce il corpo come trasfigurato in quello di un animale, che caracolla
nell'imminenza di precipitare nel vuoto.
Sopra di sé ancora, il cigolio di un
uscio le ricorda la realtà. Sente lo sfregare incerto di ciabatte sul
pavimento, il tonfo dei passi che scendono sui gradini di pietra. La sente
sedersi, ne percepisce l'odore buono e familiare, il calore del corpo.
E' la nonna Maria che le prende con
delicatezza il capo e se lo poggia sulle ginocchia magre e vecchie. Le
accarezza i capelli biondi, vellutati.
I genitori di Lucia sono divisi e
lontani. La madre si guadagna da vivere a Calolziocorte,
come cameriera in un albergo. Ogni mese le manda un po' di denaro. Il padre a
Copenaghen, operaio, spedisce mensilmente alla nonna una somma più consistente.
Nulla di più. Niente abbracci e baci, né carezze la
sera prima di coricarsi, né consigli per la giornata di domani.
- Ho chiamato la polizia – dice la
vecchia lisciandole i capelli neri.- Li ho visti, li ho riconosciuti. Li
possiamo denunziare, se vuoi.
Lucia finalmente solleva il capo e
fissa negli occhi la nonna debole di ottantaquattro anni vissuti in miseria e
fame. Vede in quegli occhi grigi paura e rassegnata stanchezza .
- Temo per te, lo sai. Qua così si
vive. E' il più forte che detta legge e gli altri a testa in giù come pecore.
Zitti. E noi siamo sole.
La sente parlare, a singhiozzi. E
pensa, Lucia, alle sue amiche cresciute con lei in quel borgo, seviziate come
lei per tutti i santi giorni, fin dalla nascita, tormentate dai bisogni sempre
inappagati, dai desideri sempre pencolanti, come frutti posti troppo in alto
per poter essere raccolti, sempre sulla strada per le case troppo piccole a
contenere il loro entusiasmo fanciullesco, alle gare in bicicletta tra le
macchine parcheggiate in divieto di sosta e tra i passanti minacciosi sui marciapiedi.
Questo pensa Lucia, quando un rumore affrettato e pesante di passi alle sue
spalle la distraggono. Gira il capo e vede due uomini in divisa che la
guardano, ostili, le sembrano. Allora finalmente si ricorda del suo corpo di
pecora, a fatica si alza e poi si siede al fianco della nonna.
- Allora? Che è successo qua? –
chiede bruscamente un poliziotto.
Lucia lo guarda senza paura. Un'idea
all'improvviso le si è ficcata nel cervello. Suggerita
anche da quelle divise. Bisogna seguire la corrente: rispettare l'omertà, le leggi imposte dalla
malavita del borgo, di quel mondo vermicolante, per
ricavarne vantaggi. Riflette rapidamente, quasi avesse
le vertigini: “Io sto zitta: loro mi
pagheranno il silenzio. In denaro e in rispetto.”
- Qua non è successo proprio niente –
risponde al poliziotto, con un beffardo sorriso.
- Chi ha telefonato allora?
- Mia nonna. Me l'ha detto lei.
Poverina, vede poco e sente male. Deve aver scambiato i sorrisi per pianti.
- Se volete denunciare qualcuno vi
portiamo al commissariato – dice l'altro poliziotto.
- No, non dobbiamo denunziare niente.
Chi dobbiamo accusare se nessuno ci ha fatto del male?- risponde in fretta
Lucia, ormai decisissima a fingere, per sempre.
- Ha ragione mia nipote. Mi sono
sbagliata. L'ho vista con dei ragazzi, non so perché, mi sono spaventata. Alla
mia età, vivere da sola, la debolezza… La paura si attacca addosso, come
un'altra pelle.
- Va bene, diciamo che l'allarme è
nato da un equivoco – conclude il primo poliziotto, poco convinto,
ma impotente per quelle dichiarazioni così definitive. – Possiamo
andare, allora?
- Si, qua è tutto a posto. Scusateci
tanto per il disturbo – dice Lucia fissando gli occhi nel vuoto della penombra.
- Per carità, è dovere!
I poliziotti, con calma pensierosa,
esitano un attimo sulla soglia del portone, poi spariscono.
Lucia si volta a guardare la nonna
che la sta osservando.
- Figlia mia – dice la vecchia
abbracciandola, - perché non hai detto quello che ti è successo? Ti ho vista
così decisa da non sentirmela di contraddirti. Ma sei sicura d'aver fatto bene?
Perché non vuoi denunziare quei delinquenti?
- Nonna, siamo io e te! sole! I miei
genitori lontani, con i loro problemi, io minorenne, tu anziana e debole: dove
vuoi trovare la forza di far la guerra a questo ambiente? Questi si
coalizzerebbero, direbbero tutti assieme che siamo due matte visionarie. E poi
ci minacceranno. Io sarò additata come la ragazza facile, goduta da tanti, una
disgraziata che getta fango su bravi ragazzi. Al contrario, il mio silenzio
costringerà quei quattro farabutti a non vantarsi con gli amici della loro
porcata. Ricatterò i loro parenti. Vedrai che saremo anche rispettate, perché
in questo ambiente l'omertà è una virtù preziosa che si ripaga con stima e
denaro.
Lucia ora si scioglie dall'abbraccio
della vecchia, che sembra più tranquilla, le prende una mano e l'aiuta a salire
al secondo piano, dove abitano. Ad ogni gradino,
conquistato con lenta fatica, la nonna Maria si congratula in cuor suo
con la nipote. Pensa: “E' una ragazza intelligente, è furba, ha capito subito
come si vive. Se avesse accusati quei delinquenti! Quanti guai. Come sarebbe
andata dal salumiere, domani che si sentirà meglio, a chiedere l'aranciata e
l'acqua minerale? Io potrei vivere senza quelle povere bevande? Mi sono tanta
abituata che guai a mancarmi! Quell'uomo l'avrebbe
cacciata dal negozio a calci, anche a pagargliela la merce. E come sarebbe
andata in merceria a comprare le mutandine? Quella donnaccia della merciaia
l'avrebbe fatta scappare dal negozio con calunnie e parolacce. E che
vocabolario tiene in bocca, quella pazza!” A metà scala si ferma il passo e il
pensiero della vecchia. E' stanca e affannata. Davanti, la porta del primo
piano è inesorabilmente chiusa. Tornatele regolare il respiro, riprende a salire
e a pensare. “Lì pure abitano persone furbe come Lucia. Il macellaio forse le
avrebbe data la carne tenera, l'unica che riesco a masticare con le gengive,
ora che non ho più denti? Solo il farmacista le avrebbe date le medicine,
forse, e il prete un cero, pregando per la nostra morte. Tutti sono in
combutta. L'avrebbero scacciata la puttanella, quella
che prima si fa sbattere e dopo accusa ingenui ragazzi. E' proprio vero, è una
bimbetta molto furba la mia nipotina! Magari anche i suoi genitori fossero stati
altrettanto, ora non sarebbero raminghi per il mondo, a chiedere l'elemosina.” I gradini sono finiti, finalmente. La nonna si appoggia
con tutte e due le mani: la sinistra su Lucia, la destra sulla ringhiera polverosa; con la
bocca aperta cerca di acchiappare quanta più aria le è possibile. Lucia la
sente fredda quella mano sulla sua spalla, sente il duro delle ossa. Guarda la
porta sgretolata della sua abitazione.
All'improvviso si sente sperduta in una solitudine oscura. Il corpo
della nonna le appare come un'ombra ostile. Si sente tradita e sente d'aver
tradito i suoi genitori. In quello stato di immobilità, nella penombra delle
scale, sente già le prime unghiate dei rimorsi, coi quali intuisce che dovrà
rassegnarsi a convivere e a far tacere, lacerando ogni volta quell'immagine pulita che s'era fatta di sé, costruita così
chiara e dorata dalla sua giovane fantasia. Stranamente le viene di vedersi
pecora sotto un cielo bianco.
Entrano in casa; il cigolio
accompagna il chiudersi della porta alle loro spalle.