La
parola e l’uomo
di
massimolegnai
Amava
e odiava la parola che sentiva femmina sfuggente, acqua che perdi tra
le dita, uva che spremi e mai diventa vino, donna seducente che
scompare tra la folla.
Odiava
donne e parole troppo vere che gli danzavano davanti,
irraggiungibili.
Amava
la rincorsa vana e la speranza insopprimibile di afferrarle al fine,
farfalle variopinte, senza l’aiuto di un retino.
Odiava
quelle preziose e pretenziose, parole ingioiellate, donne altere in
abito da sera. Lo fissavano con un sorriso pieno di sarcasmo da
tacchi smisurati e lui rimpiccioliva.
Amava
quelle malinconiche e le allegre, le restie a stendersi sul foglio,
le ingenue che arrossivano, le sbarazzine che ammiccavano.
Comprò
un vocabolario come fosse una rivista pornografica da sfogliare al
chiuso, ma racchiuse tra le pagine trovò vocaboli al maschile,
poche le voci al femminile, e le poche erano pelle patinata e fredda
anatomia.
Odiava
la parola che era troppo femminile. E infine tacque.
La
vita è una stupidaggine
di
massimolegnani
Alla
fine non c’era stata alcuna festa.
Il
cerchio di pietre sulla sabbia e, al suo interno, la legna e i
legnetti ben impilati sopra le pallottole di carta era tutto ciò
che restava delle loro intenzioni. Nessuno aveva acceso il fuoco per
il falò di fine estate. Giacomo era stato irremovibile, il
vento sta cambiando, presto sarà pioggia battente, non ha
senso fare un falò. Non si capiva mai se lui parlasse per
metafore o per immagini concrete, ma una cosa era certa, nessuno
sarebbe riuscito a fargli cambiare idea. E non era la prima volta che
lui all’ultimo momento mandava tutto in vacca. Giacomo era
così, sprazzi di un’allegria trascinante in un umore al
solito cupo, come fiammiferi che per pochi istanti rischiarano il
buio della notte. Avremmo potuto fregarcene e fare festa ugualmente,
ma sapevamo che con il suo mutismo ingombrante, con la sua sola
presenza sdegnosamente in disparte, ci avrebbe sciupato la festa.
Così ognuno aveva ripreso le proprie birre e riavvolto le
salsicce nella carta oleata e se n’era andato alla spicciolata.
Dopo
un’ora tornai alla spiaggia. Naturalmente non aveva piovuto e
lui era ancora lì, appollaiato su uno scoglio. Lo raggiunsi,
mi parlò continuando a fissare la distesa blu davanti a noi:
il mare è mortifero, smuove avanti e indietro sempre la
stessa acqua, un’enorme bacinella dove esso s’inventa
tempeste spurie a ricordarci che la vita è una stupidaggine.
Il fiume, sì, è acqua viva che scorre, puoi vederci il
tempo che passa, o i cadaveri dei nemici, se hai pazienza a
sufficienza. Ma qui non ci sono fiumi, il mare adesso è tutto
quel che resta.*
Forse
si aspettava che dicessi anch’io qualcosa, magari di
altrettanto tetro, ma quando Giacomo si faceva così cupo non
riuscivo a seguirlo, provavo solo fastidio e una sorta
d’inadeguatezza che mi disturbava. Lo lasciai solo, tornai
sulla sabbia e quasi per ripicca accesi il fuoco. Con le spalle al
mare mi dedicai alla fiamma e alla salsiccia infilzata su un
legnetto. Mangiai la carne e bevvi qualche birra.
Quando,
dopo tanto, mi voltai, Giacomo era scomparso.
Mi
alzai e andai verso riva con uno vago timore. A pochi metri da me si
intravvedeva un corpo bocconi sul basso fondale. Entrai in acqua e a
fatica riportai Giacomo sulla sabbia. Nessun segno di vita, sul volto
un’espressione tranquilla. Prima di dare l’allarme tolsi
dalle sue tasche e gettai lontano le pietre che lo avevano aiutato
nell’ultima impresa.
*le
ultime parole sono tratte da una poesia di Gabriele Galloni.
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