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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  La parola e l’uomo e La vita è una stupidaggine, di massimolegnani 25/11/2020
 
La parola e l’uomo

di massimolegnai



Amava e odiava la parola che sentiva femmina sfuggente, acqua che perdi tra le dita, uva che spremi e mai diventa vino, donna seducente che scompare tra la folla.

Odiava donne e parole troppo vere che gli danzavano davanti, irraggiungibili.

Amava la rincorsa vana e la speranza insopprimibile di afferrarle al fine, farfalle variopinte, senza l’aiuto di un retino.

Odiava quelle preziose e pretenziose, parole ingioiellate, donne altere in abito da sera. Lo fissavano con un sorriso pieno di sarcasmo da tacchi smisurati e lui rimpiccioliva.

Amava quelle malinconiche e le allegre, le restie a stendersi sul foglio, le ingenue che arrossivano, le sbarazzine che ammiccavano.

Comprò un vocabolario come fosse una rivista pornografica da sfogliare al chiuso, ma racchiuse tra le pagine trovò vocaboli al maschile, poche le voci al femminile, e le poche erano pelle patinata e fredda anatomia.

Odiava la parola che era troppo femminile. E infine tacque.





La vita è una stupidaggine

di massimolegnani



Alla fine non c’era stata alcuna festa.

Il cerchio di pietre sulla sabbia e, al suo interno, la legna e i legnetti ben impilati sopra le pallottole di carta era tutto ciò che restava delle loro intenzioni. Nessuno aveva acceso il fuoco per il falò di fine estate. Giacomo era stato irremovibile, il vento sta cambiando, presto sarà pioggia battente, non ha senso fare un falò. Non si capiva mai se lui parlasse per metafore o per immagini concrete, ma una cosa era certa, nessuno sarebbe riuscito a fargli cambiare idea. E non era la prima volta che lui all’ultimo momento mandava tutto in vacca. Giacomo era così, sprazzi di un’allegria trascinante in un umore al solito cupo, come fiammiferi che per pochi istanti rischiarano il buio della notte. Avremmo potuto fregarcene e fare festa ugualmente, ma sapevamo che con il suo mutismo ingombrante, con la sua sola presenza sdegnosamente in disparte, ci avrebbe sciupato la festa. Così ognuno aveva ripreso le proprie birre e riavvolto le salsicce nella carta oleata e se n’era andato alla spicciolata.

Dopo un’ora tornai alla spiaggia. Naturalmente non aveva piovuto e lui era ancora lì, appollaiato su uno scoglio. Lo raggiunsi, mi parlò continuando a fissare la distesa blu davanti a noi: il mare è mortifero, smuove avanti e indietro sempre la stessa acqua, un’enorme bacinella dove esso s’inventa tempeste spurie a ricordarci che la vita è una stupidaggine. Il fiume, sì, è acqua viva che scorre, puoi vederci il tempo che passa, o i cadaveri dei nemici, se hai pazienza a sufficienza. Ma qui non ci sono fiumi, il mare adesso è tutto quel che resta.*

Forse si aspettava che dicessi anch’io qualcosa, magari di altrettanto tetro, ma quando Giacomo si faceva così cupo non riuscivo a seguirlo, provavo solo fastidio e una sorta d’inadeguatezza che mi disturbava. Lo lasciai solo, tornai sulla sabbia e quasi per ripicca accesi il fuoco. Con le spalle al mare mi dedicai alla fiamma e alla salsiccia infilzata su un legnetto. Mangiai la carne e bevvi qualche birra.

Quando, dopo tanto, mi voltai, Giacomo era scomparso.

Mi alzai e andai verso riva con uno vago timore. A pochi metri da me si intravvedeva un corpo bocconi sul basso fondale. Entrai in acqua e a fatica riportai Giacomo sulla sabbia. Nessun segno di vita, sul volto un’espressione tranquilla. Prima di dare l’allarme tolsi dalle sue tasche e gettai lontano le pietre che lo avevano aiutato nell’ultima impresa.


*le ultime parole sono tratte da una poesia di Gabriele Galloni.

 
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