Area riservata

Ricerca  
 
Siti amici  
 
Cookies Policy  
 
Diritti d'autore  
 
Biografia  
 
Canti celtici  
 
Il cerchio infinito  
 
News  
 
Bell'Italia  
 
Poesie  
 
Racconti  
 
Scritti di altri autori  
 
Editoriali  
 
Recensioni  
 
Letteratura  
 
Freschi di stampa  
 
Intervista all'autore  
 
Libri e interviste  
 
Il mondo dell'editoria  
 
Fotografie  
 
 
  Poesie  Narrativa  Poesie in vernacolo  Narrativa in vernacolo  I maestri della poesia  Poesie di Natale  Racconti di Natale 

  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  XXV Aprile 2001, di Barbara Delfino 18/05/2007
 

 

 

XXV aprile 2001

 

La pioggia, il freddo e il piumone abbandonato di fretta quando la sveglia ha suonato per la quarta volta si aggiungono al fatto che non ho mai amato particolarmente la montagna, i sentieri, le foglie secche sul terreno che sotto ci posson stare animali strani. Ma Cecco procede spedito, devo stargli dietro, non posso tornare giù e rinunciare.

Ieri mattina mi è arrivata la telefonata: stanotte si va. Poi un'altra: rimandiamo, domani mattina devo portare la macchina per la revisione, facciamo domani sera. Ho passato la giornata come al solito, sul divano, la bottiglia di coca cola per bere. Controllavo di continuo il cellulare: zitto, neanche un sms. Mia madre mi ha chiamato per la cena, ho fatto fatica ad alzarmi, non avevo fame. Mio padre come sempre mangiava e parlava assieme, gesticolando, neanche più lo guardavo, facevo a occhi chiusi il sentiero su per andare al Musinè.

 

Cecco si ferma, si gira una sigaretta silenzioso. Aspetto dietro a lui, mi accendo una delle mie: mi disapprova le mie sigarette americane, come non approva il litro e mezzo di coca cola che mi bevo ogni giorno, che ogni tanto (spesso, a dir la verità, anzi, quasi sempre) io guardi le tv del nemico, che mi metta scarpe da ginnastica di marca imperialista e soprattutto dà di testa quando faccio gli aggiornamenti di windows. Lui usa un sistema operativo sviluppato da una cooperativa di Gioia Tauro. Che non funziona tanto bene, secondo me.

Il Musinè è una montagna a pochi chilometri da Torino, piuttosto famosa perché si dice ci siano gli ufo.

Oppure gli spiriti, insomma, cose inspiegabili e paranormali.

Io non ci credo granché, in fondo anche su Focus di qualche anno fa in un articolo spiegavano che è colpa delle rocce se le bussole impazziscono: sembra che ci sia un mucchio di materiale magnetico, come si dice, e questo magnetismo sbielli tutto. Ma la gente di qui parla di spiriti e ufo: se da una parte molti se ne tengono alla larga altrettanti son sempre qui con cannocchiali e a far falò alla mago Merlino.

 

Quando il direttivo ha scelto il Musinè io ho provato a dire che non era una buona idea: troppi curiosi, troppi esploratori che sarebbero arrivati alla casamatta.

Ma il capo cellula, Gustavo, è un appassionato di Rol, famoso mago torinese morto qualche anno fa, e non ha voluto sentir ragioni.

A proposito, il mio nome in codice è Vittorio. Da Vittoria, che tradotto in greco è naiki, come le mie scarpe da ginnastica.

 

Io e Cecco spegniamo i mozziconi e li intaschiamo, per non lasciare tracce.
È ancora notte, mancano due ore all'alba. 
Siamo nel buio con il sentiero a memoria, le stelle in alto ci fanno da torcia. Riprendiamo la salita e dopo aver camminato ancora quaranta minuti arriviamo al nascondiglio. La casamatta è un piccolo avamposto ancora della prima guerra mondiale, una stanza con degli infernotti. Il tetto è ancora intero e non si corre il rischio che pioggia o neve ci entrino. Ogni tanto troviamo tracce di animali, una volta anche una volpe morta, ma non possiamo mettere la porta o chiudere le finestrelle, i contadini se ne accorgerebbero subito. Il pavimento è a battuto leggero: basta scavare, nascondere le armi, ricoprire, pigiare bene con un ramo piatto che ho trovato io fuori dal casotto e sembra che niente sia stato fatto. 

Le armi le nascondiamo man mano come ho letto io sul libro della vita di Franceschini: una scatola di latta imbevuta di petrolio, e via. Non ho trovato meglio che un secchio per olio da camion, di resina, da 10 litri: né troppo piccola, né troppo grande, coperchio ermetico e resistente alla ruggine. 

Il mio problema è solo mia madre, che non fuma e allora ha un naso fine e sente subito che ho addosso un odore strano. Dopo due volte di rottura di palle, sei un comunista fannullone trovati un lavoro, cazzo c'entra poi come frase, le ho detto che aiuto un meccanico di Avigliana e così non mi chiede più come mai io puzzi di gasolio ogni volta che salgo su al nascondiglio a portare nuove armi.

 

Cecco entra nel casotto, io aspetto un momento fuori: sono stanco, odio camminare in montagna. Odio salirci, odio scendere, odio questo posto troppo silenzioso. Quando sono qui ci credo anche un po' che 'sto posto sia stregato e che i marziani ci atterrino. Gioco col mio zippo che ho in tasca, lo tiro fuori, mi casca dalla mano. Fa una caduta strana: come se qualcosa lo trascinasse giù. Lo raccatto e ho quasi la sensazione di non riuscire a staccarlo da terra.

Sento Cecco parlare, lo raggiungo.

 

Sta bestemmiando: dentro la casamatta c'è un capriolo morto. Deve essere schiattato da poche ore, al massimo il giorno prima: ha una rosa di proiettili intorno al costato destro. Il cacciatore non è stato un genio. I caprioli vanno abbattuti subito sennò scappano e non li trovi più, come ha fatto questo. Trascino la carcassa verso l'ingresso, mentre Cecco inizia a scavare col ramo, intanto mi dice, ripete per l'ennesima volta, come sia ora di prendere in mano la situazione.

La torcia, a terra, si spegne all'improvviso. La agito, accendo, niente, è morta.

Non è più tempo di lasciare in mano il paese a questa gentaglia, compagno Vittorio, la destra avanza (mettiamola in frigo, penso io) e l'ora delle armi è giunta, basta parole, basta umiliazioni. Il compagno Ernesto, in sezione, ha un bel dire dialogo dialogo dialogo (il compagno Ernesto si fa troppi cicchetti, aggiungo in silenzio), basta parlare, è ora di agire! Scenderemo a Rivoli, armi in pugno e inizierà la rivolta! Rivoli, poi Torino e arriveremo a Roma e tutti sapranno, tutti tremeranno, tutti capiranno (a Roma come ci arriviamo? Con l'intercity? hanno anche aumentato il biglietto) e se non vorranno capire sarà il braccio armato a farglielo entrare in testa, una buona volta!

Cecco scava al buio mentre parla, sento il legno che cozza contro il secchio. Lo vedo infilare le braccia nella buca e sollevare. Non solleva niente. Tira più forte, nulla. Mi avvicino, Cecco si sforza, provo ad aiutarlo. Niente. La latta di resina è incollata al terrapieno. Tiriamo, tiriamo, resta lì. La apro, inficco le mani a prendere le skorpio avvolte negli stracci pieni di petrolio, stanno appiccicate al fondo. Cecco mi guarda stravolto dallo sforzo e dal non capire, io ripenso al mio zippo che faceva fatica ad essere raccolto, prima.

Ci sediamo rossi in faccia: è come se avessimo cercato di sollevare una putrella pesante trecento chili senza usare un paranco. Uno sguardo e ci lanciamo carponi sulla buca, riproviamo a tirare su quelle cazzo di mitragliette, neanche le munizioni legate assieme con gomitoli di canapa si smuovono di un centimetro.

Cecco fa un grido, si è sentito strappare la schiena, ci risediamo respirando pesante. Ci riprovo io: è tutto incollato al terreno.

Cecco si gira una sigaretta, io prendo lo zippo, lo accendo e la fiamma mi avvolge la mano: faccio cascare l'accendino mentre la puzza dei miei peli strinati riempie la casamatta e si aggiunge all'odore di cadavere del capriolo. Mi viene da vomitare e neanche faccio finta di recuperare l'accendino, so per certo che è appiccicato a terra.

Passa mezz'ora. Cecco mormora Roma, colpirli, rivoluzione, Berlusconi, figuradimerda, potere al popolo.

Con un piede faccio cadere un po' di terriccio nella buca. Lui si alza, curvo, la schiena s'è strappata davvero, mi sa, chiude il secchio, lo ricopre a manate. Quando ha finito io rifaccio il battuto col pezzo di legno.

Mi guarda, Cecco, piegato come un vecchio e con le mani sulla schiena. Dico solo okay. Non mi riprende come al solito per la parola americana: mi aiuta quel che può a caricarmi in spalla il capriolo e mentre scendiamo a valle mi dice di un suo amico macellaio che ce lo può pulire e frollare senza fare troppe domande.

 

 
©2006 ArteInsieme, « 014031859 »