XXV aprile 2001
La pioggia, il freddo e
il piumone abbandonato di fretta quando la sveglia ha suonato per la
quarta volta si aggiungono al fatto che non ho mai amato particolarmente la
montagna, i sentieri, le foglie secche sul terreno che sotto ci posson stare animali strani. Ma Cecco procede spedito, devo
stargli dietro, non posso tornare giù e rinunciare.
Ieri mattina mi è
arrivata la telefonata: stanotte si va.
Poi un'altra: rimandiamo, domani mattina
devo portare la macchina per la revisione, facciamo domani sera. Ho
passato la giornata come al solito, sul divano, la
bottiglia di coca cola per bere. Controllavo di continuo il cellulare: zitto,
neanche un sms. Mia madre mi
ha chiamato per la cena, ho fatto fatica ad alzarmi, non avevo fame. Mio padre
come sempre mangiava e parlava assieme, gesticolando, neanche più lo guardavo,
facevo a occhi chiusi il sentiero su per andare al Musinè.
Cecco si ferma, si gira una sigaretta silenzioso. Aspetto dietro a lui, mi accendo
una delle mie: mi disapprova le mie sigarette americane, come non approva il
litro e mezzo di coca cola che mi bevo ogni giorno, che ogni tanto (spesso, a
dir la verità, anzi, quasi sempre) io guardi le tv del nemico, che mi metta
scarpe da ginnastica di marca imperialista e soprattutto dà di testa quando faccio gli aggiornamenti di windows. Lui usa un
sistema operativo sviluppato da una cooperativa di Gioia Tauro.
Che non funziona tanto bene, secondo me.
Il Musinè
è una montagna a pochi chilometri da Torino, piuttosto famosa perché si dice ci
siano gli ufo.
Oppure gli spiriti,
insomma, cose inspiegabili e paranormali.
Io non ci credo granché,
in fondo anche su Focus di qualche anno fa in un
articolo spiegavano che è colpa delle rocce se le bussole impazziscono: sembra
che ci sia un mucchio di materiale magnetico, come si dice, e questo magnetismo
sbielli tutto. Ma la gente di qui parla di spiriti e
ufo: se da una parte molti se ne tengono alla larga
altrettanti son sempre qui con cannocchiali e
a far falò alla mago Merlino.
Quando il direttivo ha
scelto il Musinè io ho provato a dire che non era una
buona idea: troppi curiosi, troppi esploratori che sarebbero arrivati alla
casamatta.
Ma il capo cellula,
Gustavo, è un appassionato di Rol, famoso mago
torinese morto qualche anno fa, e non ha voluto sentir ragioni.
A proposito, il mio nome
in codice è Vittorio. Da Vittoria, che tradotto in greco è naiki, come le mie scarpe da ginnastica.
Io e Cecco spegniamo i mozziconi e li intaschiamo, per non lasciare tracce.
È ancora notte, mancano due ore all'alba.
Siamo nel buio con il sentiero a memoria, le stelle in alto ci fanno da torcia.
Riprendiamo la salita e dopo aver camminato ancora quaranta minuti arriviamo al
nascondiglio. La casamatta è un piccolo avamposto ancora della prima guerra
mondiale, una stanza con degli infernotti. Il tetto è
ancora intero e non si corre il rischio che pioggia o neve ci entrino. Ogni
tanto troviamo tracce di animali, una volta anche una volpe morta, ma non
possiamo mettere la porta o chiudere le finestrelle, i contadini se ne accorgerebbero
subito. Il pavimento è a battuto leggero: basta scavare, nascondere le armi,
ricoprire, pigiare bene con un ramo piatto che ho trovato io fuori
dal casotto e sembra che niente sia stato fatto.
Le armi le nascondiamo
man mano come ho letto io sul libro della vita di Franceschini:
una scatola di latta imbevuta di petrolio, e via. Non ho trovato meglio che un secchio per olio da camion, di
resina, da 10 litri: né troppo piccola, né troppo grande, coperchio ermetico e
resistente alla ruggine.
Il mio problema è solo
mia madre, che non fuma e allora ha un naso fine e sente subito che ho addosso un odore strano. Dopo due volte di rottura di palle,
sei un comunista
fannullone trovati un lavoro, cazzo
c'entra poi come frase, le ho detto che aiuto un meccanico di Avigliana e così non mi chiede più come mai io puzzi di
gasolio ogni volta che salgo su al nascondiglio a portare nuove armi.
Cecco entra nel casotto,
io aspetto un momento fuori: sono stanco, odio camminare in montagna. Odio
salirci, odio scendere, odio questo posto troppo silenzioso. Quando sono qui ci
credo anche un po' che 'sto posto sia stregato e che i marziani ci atterrino.
Gioco col mio zippo che ho in tasca, lo tiro fuori,
mi casca dalla mano. Fa una caduta strana: come se qualcosa lo trascinasse giù.
Lo raccatto e ho quasi la sensazione di non riuscire a staccarlo da terra.
Sento Cecco parlare, lo
raggiungo.
Sta bestemmiando: dentro
la casamatta c'è un capriolo morto. Deve essere schiattato da poche ore, al massimo il giorno prima: ha una rosa di proiettili
intorno al costato destro. Il cacciatore non è stato un genio. I caprioli vanno
abbattuti subito sennò scappano e non li trovi più, come ha fatto questo.
Trascino la carcassa verso l'ingresso, mentre Cecco inizia a scavare col ramo,
intanto mi dice, ripete per l'ennesima volta, come sia ora di prendere in mano
la situazione.
La torcia, a terra, si
spegne all'improvviso. La agito, accendo, niente, è morta.
Non è più
tempo di lasciare in mano il paese a questa gentaglia, compagno Vittorio, la
destra avanza (mettiamola in frigo,
penso io) e l'ora delle armi è giunta, basta parole, basta umiliazioni. Il
compagno Ernesto, in sezione, ha un bel dire dialogo dialogo dialogo (il compagno Ernesto si fa troppi cicchetti,
aggiungo in silenzio), basta parlare, è ora di agire! Scenderemo a Rivoli, armi
in pugno e inizierà la rivolta! Rivoli, poi Torino e arriveremo a Roma e tutti
sapranno, tutti tremeranno, tutti capiranno (a
Roma come ci arriviamo? Con l'intercity? hanno anche
aumentato il biglietto) e se non vorranno capire sarà il braccio
armato a farglielo entrare in testa, una buona volta!
Cecco scava al
buio mentre parla, sento il legno che cozza contro il
secchio. Lo vedo infilare le braccia nella buca e sollevare. Non solleva
niente. Tira più forte, nulla. Mi avvicino, Cecco si sforza, provo ad aiutarlo.
Niente. La latta di resina è incollata al terrapieno. Tiriamo, tiriamo, resta
lì. La apro, inficco le mani a prendere le skorpio avvolte negli stracci pieni di petrolio, stanno
appiccicate al fondo. Cecco mi guarda stravolto dallo sforzo e dal non capire,
io ripenso al mio zippo che faceva fatica ad essere
raccolto, prima.
Ci sediamo rossi in
faccia: è come se avessimo cercato di sollevare una putrella pesante trecento
chili senza usare un paranco. Uno sguardo e ci lanciamo carponi sulla buca,
riproviamo a tirare su quelle cazzo
di mitragliette, neanche le munizioni legate assieme con gomitoli di canapa si
smuovono di un centimetro.
Cecco fa un grido, si è
sentito strappare la schiena, ci risediamo respirando pesante. Ci riprovo io: è
tutto incollato al terreno.
Cecco si gira una
sigaretta, io prendo lo zippo, lo accendo e la fiamma
mi avvolge la mano: faccio cascare l'accendino mentre
la puzza dei miei peli strinati riempie la casamatta e si aggiunge all'odore di
cadavere del capriolo. Mi viene da vomitare e neanche faccio finta di
recuperare l'accendino, so per certo che è appiccicato a terra.
Passa
mezz'ora. Cecco mormora Roma, colpirli,
rivoluzione, Berlusconi, figuradimerda,
potere al popolo.
Con un piede faccio
cadere un po' di terriccio nella buca. Lui si alza, curvo, la schiena s'è
strappata davvero, mi sa, chiude il secchio, lo
ricopre a manate. Quando ha finito io rifaccio il battuto col pezzo di
legno.
Mi guarda, Cecco, piegato come un vecchio e con le mani sulla
schiena. Dico solo okay. Non mi riprende come al
solito per la parola americana: mi aiuta quel che può a caricarmi in spalla il
capriolo e mentre scendiamo a valle mi dice di un suo amico macellaio che ce lo
può pulire e frollare senza fare troppe domande.