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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Quinto piano senz’ascensore, di massimolegnani 09/02/2021
 
Quinto piano senz’ascensore

di massimolegnani



Il palazzo settecentesco di piazza Filiberto aveva avuto il suo periodo di splendore e ancora adesso nonostante i ripetuti rimaneggiamenti e il diffuso grigiore della facciata manteneva una sua dignità, vagamente nobiliare.

Panfilio de Nittis ci passava davanti ogni mattina andando in banca, anziano impiegato dalla minima carriera, e sempre gli lanciava un’occhiata piena di ammirazione e desiderio, abitare lì sarebbe stato un riscatto dalla sua vita scialba. Non inganni il nome di famiglia altisonante, suo nonno, prima ancora che lui nascesse, aveva provveduto a sperperare con metodo e costanza ricchezza e nobiltà fino al suicidio di prammatica e da lì i de Nittis non si erano più ripresi. Nonostante ciò suo padre gli aveva imposto quel nome impossibile, già appartenuto ai suoi antenati, nella speranza che fosse di stimolo a recuperare una posizione più consona nella società. Ma la cosa non aveva funzionato. Lui se lo portava addosso con rassegnazione, come un abito lussuoso pieno di rammendi e decisamente fuori moda.

Quando seppe che nel palazzo vendevano alcune mansarde appena ristrutturate, Panfilio, in procinto di andare in pensione e di ricevere una relativamente sostanziosa liquidazione, sentì che era arrivata la sua occasione. Contattò l’agenzia, visitò l’appartamento, un unico ampio locale soppalcato con travoni a vista e doghe bionde al pavimento. Dal terrazzino dominava i tetti della città e l’arco delle montagne. Gli piacque.

Vi era solo il problema dei cinque piani di scale a piedi, Sa non sono più un giovanotto e sarà sempre peggio, disse sconsolato, ma fu rassicurato dall’agente immobiliare che gli mostrò due progetti, uno per un ascensore esterno, in cortile, l’altro interno nella tromba delle scale. Alla prossima riunione condominiale avrete solo da decidere quale approvare e in men che non si dica verrà installato. Panfilio si disse che qualche mese di ginnastica su e giù per i gradini gli avrebbe fatto bene e firmò fiducioso.

La prima assemblea condominiale gli fece capire che i tempi di realizzo dell’opera non sarebbero stati affatto brevi: i proprietari del primo piano fecero un’opposizione feroce a qualsiasi progetto, gli altri si divisero equamente tra chi si batteva per l’ascensore in cortile, meno costoso e più rapido nell’installazione e chi difendeva la sua collocazione nella tromba delle scale, soluzione più tradizionale ma che avrebbe implicato lo spostamento della prima rampa di scale per questioni di ingombro della struttura.

I primi tempi Panfilio visse la quotidiana ascesa al quinto piano con discreto entusiasmo: cercava sin dai primi gradini il ritmo giusto, lento e cadenzato, come fosse in montagna, per arrivare al quarto pianerottolo senza interruzioni e lì concedersi una sosta di uno due minuti prima del balzo finale. Beh, balzo era una parola grossa, quell’ultima rampa anche dopo aver rifiatato era un impegno non da poco. La difficoltà maggiore era quando tornava a casa con i sacchetti della spesa che moltiplicavano lo sforzo richiesto al suo fisico non certo atletico. Quasi subito rinunciò all’acqua minerale, trasportarla per le rampe nella “pratica” confezione da sei bottiglie era stata un vero martirio che non volle più ripetere. Si procurò uno zaino in cui ficcare parte degli acquisti in modo da avere almeno una mano libera per tenersi alla ringhiera. Cercò poi nel quartiere negozietti di alimentari che facessero consegne a domicilio, ma il più delle volte i garzoni citofonavano e, sentito dove abitava, lasciavano lo scatolone con le provviste appena oltre il portone e pazienza per i pochi, ipotetici, spiccioli di mancia a cui stavano rinunciando.

Ci vollero due anni e cinque infuocate assemblee prima che venisse approvato il progetto-ascensore. Prevalse la soluzione “interna”. Nel frattempo Panfilio aveva ridotto al minimo le uscite di casa ed era passato a due soste programmate nell’affrontare la scala, una a metà tra il secondo e il terzo piano, dove fiato e gambe cedevano di schianto, l’altra, più prolungata, al quarto, dove spesso si accasciava sui gradini sibilando come un mantice bucato. Alla fine si rivolse al suo medico spiegandogli che pur non essendo asmatico gli sembrava che su quelle maledette rampe a un certo punto l’aria gli restasse intrappolata nei polmoni, non entrava e non usciva e lui boccheggiava come un pesciolino rosso fuori dalla boccia. Asma da sforzo, sentenziò il dottore che ebbe da ridire sulla metafora del pesciolino, più appropriata sarebbe una balena rise divertito, solo lui, dalla propria arguzia. Poi fece scivolare sulla scrivania una confezione di Ventolin, due spruzzi prima di salire, altri al bisogno. Fu tutto, nemmeno lo visitò, ma in effetti la cura funzionò. Non che Panfilio ora facesse i gradini quattro alla volta, anzi saliva con la solita cautela, ma almeno saliva. E in cima gli sembrava di avere ancora un po’ di fiato, era il cuore, semmai, che gli batteva come una grancassa.

Ulteriori rinvii nella realizzazione del progetto furono dovuti alla Sovrintendenza alle belle arti che dopo alcuni rifiuti concesse il nullaosta con la clausola di usare per i gradini da spostare il medesimo granito del resto della scala.

Alla fine, con solo quattro anni di ritardo, l’ascensore fu installato.

Panfilio fu uno dei primi a utilizzarlo e fu un’ebbrezza mai provata, un’ascensione spirituale, un breve viaggio in mongolfiera fino alle cime innevate del quinto piano, un affrancamento ormai insperato da quella disumana fatica quotidiana.

Purtroppo potè usarlo solo tre volte. Alla quarta l’ascensore si bloccò a metà salita, imperversava sulla città un temporale di biblica intensità ed era saltata la corrente in tutto il quartiere. Panfilio, intrappolato nella gabbia d’acciaio, suonò ripetutamente l’allarme, urlò a squarciagola invocazioni d’aiuto, fece ricorso più volte al Ventolin e attese agitato che lo venissero a liberare. Quando, dopo ore, i tecnici della ditta e i vigili del fuoco riportarono la cabina al piano l’uomo era accasciato sul fondo, privo di coscienza. Era ancora vivo ma respirava in modo irregolare, piccoli sussulti inefficaci, preludio di una fine imminente. Probabilmente gli aveva ceduto il cuore.


 
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