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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Il custode del canile, di Luigi Panzardi 25/05/2007
 

IL CUSTODE DEL CANILE

 

Un tempo fu una palude; poi, convogliata l'acqua in quattro canali che la incorniciarono come un quadro, quell'ampia campagna infossata, anche se ripulita, non riuscì mai a produrre un albero, né  un'ombra.

Sul margine orientale di quella landa, confinante con la periferia dell'abitato, il Comune di Lerano, al Sud della penisola, fece costruire qualche anno fa un canile. Costruire riferito a quell'opera è un verbo aulico. In realtà fu recintata una vasta superficie rettangolare con un'alta rete metallica. A dir il vero anche molto robusta. Lo spazio interno lo divisero in numerose celle, costruite pure di quella fitta rete, a ciascuna delle quali si accedeva tramite un basso cancello, tenuto fermo, più che chiuso, da uno spezzone di filo metallico, attorcigliato intorno ai due battenti. Su l'ultima parte, infondo,  eressero una bicocca che aveva l'alloggio per il guardiano e altre gabbie per i cani che dovevano stare al coperto. Davanti all'ingresso del recinto, un cartello sgangherato attaccato a un palo di legno diceva ad un impossibile  passante che quello era il “Canile comunale”.

In paese tutti convenivano che fosse un fantastico aborto, ma anche che le povere casse comunali non consentissero maggiori lussi da regalare ai cani randagi. Che intanto infastidivano i cittadini, che decidevano a loro volta di relegarli in quella lucida ragnatela metallica.

Neanche l'alloggio del custode, che evidentemente cane non era, faceva eccezione. Consisteva in una specie di sudicio cubo dalle sottili pareti, bollenti d'estate, ghiacciate d'inverno.  

La cura dell'integrità di animali e gabbie fu affidata al guardiano Corrado, trentaduenne disabile, un po' più alto di un nano per non sembrare che lo fosse, rossiccio di capelli e carnagione, obesità incipiente, sempre sorridente, assunto con  contratto a tempo e senza nessuna specifica esperienza, tranne una spiccata simpatia per i bastardi.

Tra gli ospiti obbligati di quel campo era stata portata da poco una cagnetta, simpatico prodotto di un incrocio con chihuahua e chissà quale altro randagio, che Corrado aveva subito battezzato Malavoglia, non perché sapesse del Verga, bensì per una macchia nera che circondava l'occhio sinistro dell'animale, s'allungava, come una stretta lama, sul piccolo capo rotondo e strisciava su tutto il dorso del grande orecchio sinistro. Il resto del corpo l'aveva bianco, un bianco totale, perfetto. Tra Corrado e Malavoglia si stabilì ben presto uno stretto legame. Le due esistenze s'integravano perfettamente, le lacune fisiche si compensavano, generavano un'intesa affettuosa, istintiva. Del resto, la vivacità spigliata della cagnetta gareggiava con la levità fanciullesca del disabile.

Corrado ogni giorno faceva il giro del serraglio  per distribuire pasto e beveraggio a tutti gli ospiti e Malavoglia lo precedeva lungo i tratturi, sculettando felice, abbaiando ai ringhiosi, svegliando i pigri, generando con le sue moine un coro fragoroso di latrati e guaiti; arrivavano insieme fino alla gabbia situata nell'angolo più lontano, quella del cane cattivo. Impropriamente parlando di un animale. Il Rottweiler sembrava nato feroce, tale era la rabbia che mostrava digrignando i denti e sbarrando gli occhi sanguigni. Il pelo corto e nero, il corpo frastagliato da cicatrici, i piedi ben artigliati, incutevano una incontrollabile paura in chiunque l'avvicinasse. Per questa sua incurabile aggressività era stato abbandonato dal padrone, dopo che se n'era servito al momento opportuno e, il poverino, non aveva trovato più nessuno disposto a prenderlo.

Malavoglia guaiva davanti a quella gabbia, piegava la testa come per nasconderla tra le gambe anteriori ed alzava la coda. Corrado, col suo sorriso sereno, si frapponeva tra la cagna e la gabbia, scioglieva il filo metallico,  l'apriva, v'entrava incurante del ringhiare dell'animale, vi depositava la scodella col cibo, riempiva d'acqua l'altra, ed usciva richiudendo con cura il cancello.

“Hai visto, Malavoglia? Anche lui infondo è buono”, diceva spesso, sorridendo. E la cagna ogni volta lo guardava fisso e l'occhio immerso nella macchia nera sembrava che dicesse furbescamente:

“Non mi prendi in giro, quello è cattivo e basta”.

Dar da mangiare e bere al Rottweiler era l'ultima operazione di ogni imbrunire. Dopo, Corrado  e Malavoglia  tornavano nel tugurio, l'una sempre davanti uggiolando felice, l'altro sorridente, nel silenzio di quel carcere rotto solo dal guaire dei cani.

Il Comune, a suo tempo, aveva dato l'incarico a due operai di provvedere alla pulizia dei recinti, ma essendo la cassa vuota, questa si effettuava una volta al mese. Nell'Agosto di quell'anno il caldo era opprimente ed i cani soffrivano molto più del solito. Corrado si affannava a non far mancare mai l'acqua a quelle povere bestie ed aveva steso, su tutte le gabbie esterne, teli e stracci per procurare un po' d'ombra ai relegati. L'ultimo giorno del mese vennero anche i due uomini addetti alle pulizie, poco prima di mezzogiorno. Aprirono, una alla volta, le gabbie, sostituirono il pagliericcio, pulirono il terreno. Durante questi lavori i cani uscivano sempre, assaporando un momento di libertà, ma poi ritornavano docilmente nei recinti, bisognosi d'acqua e di cibo. Quando i due inservienti giunsero all'ultima gabbia e l'aprirono, anche il Rottweiler uscì immediatamente. Finita la pulizia, non vedendo ritornare il pericoloso animale, gli operai lasciarono il cancello aperto ed andarono via, non prima d'aver raccontato a Corrado quel particolare. Questi, preoccupato, ordinò a Malavoglia di non muoversi dal locale durante la sua assenza. La cagna rimase ferma, guardandolo e scodinzolando, come per dirgli d'aver compreso il pericolo. L'uomo si avviò e, percorsa appena metà strada, se la vide invece davanti, saltellante e felice, per averlo gabbato così facilmente. Corrado, anziché adirarsi, fu contagiato da tanta allegria e si mise a saltellare anche lui. Giunsero così all'ultima gabbia, ancora vuota.

Davanti al cancello aperto, Malavoglia si irrigidì di colpo, poi emise un guaito flebile e tremante. Il Rottweiler stava arrivando come un fulmine lungo il corridoio, caracollava imponente e furioso. I due lo guardavano attoniti. In corsa l'animale saltò sulla cagna, le addentò il capo, il collo, tutta quella macchia nera che la rendeva unica, vi conficcò le zanne e ne strappò il colore e la carne. Con gli artigli delle zampe le lacerò tutto il corpo. Malavoglia si allungò a terra. Il cane le addentò il dorso, la sollevò e la buttò in aria. Il corpo della cagnetta ricadde sulla ghiaia con la testa quasi staccata.

La rapidità dell'evento paralizzò Corrado che fissò stordito il corpo inerte di Malavoglia e il Rottweiler. Questo, esaurita la furia distruttrice, lentamente entrò nella cella e andò diritto verso l'acqua. Immerse il capo nella grande ciotola e bevve facendo schioccare la lingua e schizzando gocce tutto intorno. Il disabile chiuse subito la gabbia,  raccolse il corpo straziato della cagnetta  e se ne tornò tremante nel tugurio. Lungo il percorso pensò che ora non aveva più nessuno al mondo, che comunque nessuno più lo avrebbe capito come Malavoglia, che per dimostrargli l'affetto gli saltava addosso e gli leccava la faccia. Corrado se la vedeva ancora viva davanti, con l'occhio nero e quello bianco e un'espressione ch'era tutto un chiarissimo discorso, anche se fatto con un linguaggio senza parole. Giunto nell'alloggio, posò il corpo di Malavoglia sul tavolo, dove stavano ancora pagine strappate di un giornale ch'era servito agli operai per fare le pulizie. Su una  di quelle pagine, stordito dall'accaduto e indeciso, Corrado lesse la storia di un cane così affezionato al padrone che, alla morte di questi, non trovò più altra consolazione che seguirne la stessa sorte; da quel momento infatti non si mosse più, né bevve, né mangiò, fino a morirne.

Corrado sorrise felice all'idea che gli balenò in mente: sarebbe stato bello seguire Malavoglia, andare da lei.

“Va bene” pensò, “per una volta facciamo il contrario. Facciamo che il padrone muore per il suo cane!”

Si adagiò sul giaciglio, vicino ai resti di Malavoglia, sorridente.

Fu il latrare infinito dei cani a dare l'allarme, molti giorni dopo.

 

 
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