IL
CUSTODE DEL CANILE
Un tempo fu una palude; poi,
convogliata l'acqua in quattro canali che la incorniciarono come un quadro, quell'ampia campagna infossata, anche se ripulita, non
riuscì mai a produrre un albero, né un'ombra.
Sul margine orientale di quella
landa, confinante con la periferia dell'abitato, il Comune di Lerano, al Sud della penisola, fece costruire qualche anno
fa un canile. Costruire riferito a quell'opera è un
verbo aulico. In realtà fu recintata una vasta superficie rettangolare con
un'alta rete metallica. A dir il vero anche molto robusta.
Lo spazio interno lo divisero in numerose celle, costruite pure di quella fitta
rete, a ciascuna delle quali si accedeva tramite un basso cancello, tenuto
fermo, più che chiuso, da uno spezzone di filo metallico, attorcigliato intorno
ai due battenti. Su l'ultima parte, infondo, eressero una bicocca che aveva
l'alloggio per il guardiano e altre gabbie per i cani che dovevano stare al
coperto. Davanti all'ingresso del recinto, un cartello sgangherato attaccato a
un palo di legno diceva ad un impossibile passante che quello era il “Canile
comunale”.
In paese tutti convenivano che fosse
un fantastico aborto, ma anche che le povere casse comunali non consentissero
maggiori lussi da regalare ai cani randagi. Che intanto infastidivano i
cittadini, che decidevano a loro volta di relegarli in quella lucida ragnatela
metallica.
Neanche l'alloggio del custode, che
evidentemente cane non era, faceva eccezione. Consisteva in una specie di
sudicio cubo dalle sottili pareti, bollenti d'estate, ghiacciate
d'inverno.
La cura dell'integrità di animali e
gabbie fu affidata al guardiano Corrado, trentaduenne disabile, un po' più alto
di un nano per non sembrare che lo fosse, rossiccio di capelli e carnagione,
obesità incipiente, sempre sorridente, assunto con contratto a tempo e senza nessuna
specifica esperienza, tranne una spiccata simpatia per i bastardi.
Tra gli ospiti obbligati di quel
campo era stata portata da poco una cagnetta, simpatico prodotto di un incrocio
con chihuahua e chissà quale altro randagio, che Corrado aveva subito
battezzato Malavoglia, non perché sapesse del Verga,
bensì per una macchia nera che circondava l'occhio sinistro dell'animale,
s'allungava, come una stretta lama, sul piccolo capo rotondo e strisciava su
tutto il dorso del grande orecchio sinistro. Il resto del corpo l'aveva bianco,
un bianco totale, perfetto. Tra Corrado e Malavoglia si stabilì ben presto uno
stretto legame. Le due esistenze s'integravano perfettamente, le lacune fisiche
si compensavano, generavano un'intesa affettuosa, istintiva. Del resto, la
vivacità spigliata della cagnetta gareggiava con la levità fanciullesca del
disabile.
Corrado ogni giorno faceva il giro
del serraglio per
distribuire pasto e beveraggio a tutti gli ospiti e Malavoglia lo precedeva
lungo i tratturi, sculettando felice, abbaiando ai ringhiosi, svegliando i
pigri, generando con le sue moine un coro fragoroso di latrati e guaiti;
arrivavano insieme fino alla gabbia situata nell'angolo più lontano, quella del
cane cattivo. Impropriamente parlando di un animale. Il Rottweiler
sembrava nato feroce, tale era la rabbia che mostrava digrignando i denti e
sbarrando gli occhi sanguigni. Il pelo corto e nero, il corpo frastagliato da
cicatrici, i piedi ben artigliati, incutevano una incontrollabile
paura in chiunque l'avvicinasse. Per questa sua incurabile aggressività era
stato abbandonato dal padrone, dopo che se n'era servito al momento opportuno
e, il poverino, non aveva trovato più nessuno disposto a prenderlo.
Malavoglia guaiva davanti a quella
gabbia, piegava la testa come per nasconderla tra le gambe anteriori ed alzava
la coda. Corrado, col suo sorriso sereno, si frapponeva tra la cagna e la
gabbia, scioglieva il filo metallico, l'apriva, v'entrava incurante del
ringhiare dell'animale, vi depositava la scodella col cibo, riempiva d'acqua
l'altra, ed usciva richiudendo con cura il cancello.
“Hai visto, Malavoglia? Anche lui
infondo è buono”, diceva spesso, sorridendo. E la cagna ogni volta lo guardava
fisso e l'occhio immerso nella macchia nera sembrava che dicesse furbescamente:
“Non mi prendi in giro, quello è
cattivo e basta”.
Dar da mangiare e bere al Rottweiler era l'ultima operazione di ogni imbrunire. Dopo,
Corrado e Malavoglia tornavano nel tugurio, l'una sempre davanti
uggiolando felice, l'altro sorridente, nel silenzio di quel carcere rotto solo
dal guaire dei cani.
Il Comune, a suo tempo, aveva dato
l'incarico a due operai di provvedere alla pulizia dei recinti, ma essendo la
cassa vuota, questa si effettuava una volta al mese.
Nell'Agosto di quell'anno il caldo era opprimente ed
i cani soffrivano molto più del solito. Corrado si affannava a non far mancare
mai l'acqua a quelle povere bestie ed aveva steso, su tutte le gabbie esterne,
teli e stracci per procurare un po' d'ombra ai relegati. L'ultimo giorno del
mese vennero anche i due uomini addetti alle pulizie, poco prima di
mezzogiorno. Aprirono, una alla volta, le gabbie, sostituirono il pagliericcio,
pulirono il terreno. Durante questi lavori i cani uscivano sempre, assaporando
un momento di libertà, ma poi ritornavano docilmente nei recinti, bisognosi
d'acqua e di cibo. Quando i due inservienti giunsero all'ultima gabbia e
l'aprirono, anche il Rottweiler uscì immediatamente.
Finita la pulizia, non vedendo ritornare il pericoloso animale, gli operai
lasciarono il cancello aperto ed andarono via, non prima d'aver raccontato a
Corrado quel particolare. Questi, preoccupato, ordinò a Malavoglia di non
muoversi dal locale durante la sua assenza. La cagna rimase ferma, guardandolo
e scodinzolando, come per dirgli d'aver compreso il pericolo. L'uomo si avviò
e, percorsa appena metà strada, se la vide invece davanti, saltellante e
felice, per averlo gabbato così facilmente. Corrado, anziché adirarsi, fu
contagiato da tanta allegria e si mise a saltellare anche lui. Giunsero così
all'ultima gabbia, ancora vuota.
Davanti al cancello aperto,
Malavoglia si irrigidì di colpo, poi emise un guaito flebile e tremante. Il Rottweiler stava arrivando come un fulmine lungo il
corridoio, caracollava imponente e furioso. I due lo guardavano attoniti. In
corsa l'animale saltò sulla cagna, le addentò il capo, il collo, tutta quella
macchia nera che la rendeva unica, vi conficcò le zanne e ne strappò il colore
e la carne. Con gli artigli delle zampe le lacerò tutto il corpo. Malavoglia si
allungò a terra. Il cane le addentò il dorso, la sollevò e la buttò in aria. Il
corpo della cagnetta ricadde sulla ghiaia con la testa quasi staccata.
La rapidità dell'evento paralizzò
Corrado che fissò stordito il corpo inerte di Malavoglia e il Rottweiler. Questo, esaurita la
furia distruttrice, lentamente entrò nella cella e andò diritto verso l'acqua.
Immerse il capo nella grande ciotola e bevve facendo schioccare la lingua e
schizzando gocce tutto intorno. Il disabile chiuse
subito la gabbia, raccolse il corpo
straziato della cagnetta e se ne tornò
tremante nel tugurio. Lungo il percorso pensò che ora non aveva
più nessuno al mondo, che comunque nessuno più lo avrebbe capito come
Malavoglia, che per dimostrargli l'affetto gli saltava addosso e gli leccava la
faccia. Corrado se la vedeva ancora viva davanti, con l'occhio nero e quello
bianco e un'espressione ch'era tutto un chiarissimo discorso, anche se fatto
con un linguaggio senza parole. Giunto nell'alloggio, posò il corpo di
Malavoglia sul tavolo, dove stavano ancora pagine strappate di un giornale
ch'era servito agli operai per fare le pulizie. Su una di quelle pagine, stordito
dall'accaduto e indeciso, Corrado lesse la storia di un cane così affezionato
al padrone che, alla morte di questi, non trovò più altra consolazione che
seguirne la stessa sorte; da quel momento infatti non si mosse più, né bevve,
né mangiò, fino a morirne.
Corrado sorrise felice all'idea che
gli balenò in mente: sarebbe stato bello seguire Malavoglia, andare da lei.
“Va bene” pensò, “per una volta
facciamo il contrario. Facciamo che il padrone muore per il suo cane!”
Si adagiò sul giaciglio, vicino ai
resti di Malavoglia, sorridente.
Fu il latrare infinito dei cani a
dare l'allarme, molti giorni dopo.