La
trebbiatura
di
Sergio Menghi
Quando
ero ragazzo ho potuto assistere a questa attività agricola
molto sviluppata anche nelle nostre conche entro appenniniche
dell'Italia centrale perché dava il sostegno economico
principale alle famiglie rurali insieme all'allevamento zootecnico,
alla coltivazione della vite e produzione del vino. Anche la
pastorizia poteva essere praticata, ma era più comune nei
centri montani. Nella fattoria condotta dalla mia famiglia la
pastorizia non era stanziale, ossia non veniva curata direttamente,
ma nei mesi cosiddetti morti, quando cioè era finita la
raccolta dei prodotti principali, ossia grano e foraggio, era usanza
che i proprietari di grosse greggi si trasferissero con tutto l'
armento sui terreni che potevano ancora fornire cibo da mangiare.
A
tale proposito giova ricordare che si usava in agricoltura la tecnica
della rotazione delle coltivazioni per cui sul campo coltivato a
frumento veniva anche gettato in primavera, quando il grano era già
tutto nato e cominciava a crescere, dei semi di erba, medica,
trifoglio, sulla, ecc., che l'anno prossimo avrebbero fornito il
foraggio per alimentare il bestiame. Dopo la mietitura questi semi
erano già nati e, se la stagione non era avara di piogge,
all'inizio della stagione autunnale avrebbero potuto essere sfruttati
dalle pecore che, peraltro, con il loro passaggio e i loro escrementi
avrebbero fornito anche un adeguato apporto di concime naturale al
terreno.
Così
nel mese di settembre si poteva vedere l'arrivo di un grosso camion
che si fermava sulla strada provinciale di Pian Palente nei pressi di
una 'pintura' * che ancora esiste, e scaricava il gregge con i suoi
cani ed i giovani pastori che l'avrebbero accudito per qualche giorno
sul campo denominato ' li piani' e poi passare su terreni di altri
proprietari. Il padrone del gregge si spostava a bordo del suo
calesse trainato da un robusto cavallo per controllare il lavoro dei
suoi garzoni e impartire ordini, talvolta in modo anche assai
determinato. Lo stesso trattava con il fattore il compenso che di
solito era in natura: formaggio e prodotti derivati.
Nel
nostro fondo ed in quelli a noi limitrofi venivano prodotti discreti
quantitativi di frumento, dai 200 ai 300 quintali , le famiglie si
davano aiuto reciproco per fronteggiare l'impegnativo lavoro della
trebbiatura che poteva durare più di una intera giornata a
cominciare dalle prime ore del mattino. I preparativi cominciavano
già qualche giorno prima per preparare i sacchi di iuta, lo
spazio nel granaio, tarare la 'bascuglia' per misurare correttamente
il peso dei sacchi a cento kg netti ciascuno; ma il lavoro più
frenetico era in cucina dove veniva preparato il cibo per più
pasti, da tre a quattro, compresi i già noti 'buccuncilli',
per una trentina di persone. I pasti, poi, dovevano essere
sostanziosi ed abbondanti, in grado da apportare la giusta dose di
energia necessaria per affrontare il faticoso lavoro.
Ad
organizzare il tutto era mia nonna con l'aiuto di mia madre e mia
zia. Le altre zie avrebbero pensato ai dolci, tutti fatti in casa e
cotti nel forno locale in una unica cottura insieme al pane agli
arrosti ed ai 'vincisgrassi', una tipica pasta al forno condita con
una salsa di pomodoro e rigagnoli di carne di oche, papere e pollame,
anche questi allevati in fattoria.
Insomma
pasti come quelli delle grandi occasioni festive perché la
trebbiatura veniva considerata una vera e propria festa benché
caratterizzata da duro lavoro.
Anche
la trebbia arrivava di solito nel pomeriggio del giorno prima per
poter iniziare le prime ore del mattino appena si schiariva
l'orizzonte.
Spesso
la pesante macchina non riusciva ad essere trainata dai trattori
primordiali dell'epoca, (un anno mi capitò di vedere una
macchina a vapore poi sostituita da motori a scoppio a testa calda,
bubba, landini, sempre più funzionali e sicuri), dato che
bisognava affrontare un tratto di strada in salita per raggiungere la
casa colonica sulla collina. Mio nonno allora aggiogava i suoi
potenti buoi che davano un aiuto considerevole.
La
trebbia veniva piazzata, cioè livellata insieme alla scala,
che trasportava la paglia nel luogo dove sarebbe sorto il pagliaio,
tra i due grossi 'barconi' di grano da trebbiare. L'inizio dei lavori
veniva preavvisato con due o tre squilli di sirena che il capo dei
macchinisti faceva girare sul cinturone che trasmetteva la potenza a
tutto il complesso macchinario Con l'accelerazione del motore tutto
si metteva in moto tra un nuvolo di polvere. Mio padre sistemava gli
addetti ai lavori nei vari punti a seconda della loro capacità,
età e sesso.
Le
donne venivano messe sul barcone e avvicinavano i covoni di grano
alla trebbia, quelle più esperte e fisicamente dotare
passavano i covoni, liberi del legaccio che li univa, al battitore,
un macchinista che imboccava il grano nella macchina in giuste dosi
in modo da non farla ingolfare. I lavori più duri erano quelli
di sistemazione della paglia sul pagliaio perché dalla bocca
della trebbia usciva anche un gran massa di polvere, tale da togliere
il respiro. Il vento, se leggero e ben orientato, poteva agevolare il
compito. I giovani più robusti servivano nelle misure, cioè
trasportavano i grossi sacchi di frumento che uscivano dai
bocchettoni della trebbia, dapprima sulla bilancia 'bascuglia' per
aggiustare il peso al quintale, poi nel granaglio o sul carro che
avrebbe trasportato la metà del raccolto al padrone, sempre
presente ed impegnato a tenere il conto dei quintali.
Se
il lavoro era iniziato molto presto le donne di casa, coordinate
dalla nonna, dovevano servire 'lu buccuncillu' un po' prima dell'ora
solita. A questa funzione provvedevano le ragazze più giovani
che vestivano anche meglio e con eleganza servivano i pasti sul
posto; il capo dei macchinisti abbassava al minimo il regime del
motore per il tempo necessario a consumare il cibo ed a bere qualche
bevanda, di solito vino ed acqua, ci poteva essere anche del caffè,
poi si ripartiva.
Verso
la mezza la sosta per il pranzo era più lunga, c'era il tempo
di rinfrescarsi all'acqua del fontanile, per togliersi un po' di
polvere, sedersi in una tavola sotto il loggiato od all'ombra
sull'aia. Al padrone, mio nonno ed ai macchinisti veniva riservata la
sala da pranzo. I pasti, come già accennato, erano sostanziosi
e tutti mangiavano con molto appetito. C'era il tempo di fare anche
un piccolo riposino perché affrontare le calde ore pomeridiane
era duro. Il gioco durava fino a sera poco prima dell'ora del
tramonto perché si sarebbe ripartiti il giorno dopo alla
solita ora.
La
conta finale del totale raccolto era la notizia più importante
e faceva subito il giro tra i presenti, pronti a fare i relativi
confronti e commenti con quelli che erano o sarebbero stati i propri.
Per
mio padre e mio zio il lavoro non sarebbe finito, li aspettava le
misure o i pagliai di altre fattorie limitrofe, finché la
trebbia con tutti i suoi macchinisti e macchinari venuti dalla bassa
campagna del maceratese si fosse lentamente trasferita verso i poderi
pedemontani più piccoli ed a maturazione del grano meno
precoce.
*
La 'pintura' era una costruzione a forma di chiesetta in miniatura
che conteneva una pittura raffigurante una immagine sacra, di solito
la Vergine Maria con in braccio il Figlio Gesù. Veniva posta
in prossimità degli incroci di strade di campagna con strade
Comunali o Provinciali dai proprietari del fondo su cui era situata,
credo che la funzione fosse quella di benedire i campi ed i raccolti.
Il nostro ne aveva una che conoscevo molto bene perché la
usavo anche come rifugio dalle intemperie. Mi ricordo che quel
ristretto contatto con l'immagine della Madonna mi suscitava un
sentimento di tranquillità, come se anche io stessi in quelle
braccia. Mia nonna vi poneva dei fiori di campo nel mese di maggio ed
una candela nel mese di novembre.
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