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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Il calore delle mani, di Sabrina Manca 01/06/2007
 

IL CALORE DELLE MANI

Oggi ho compiuto quarantanove anni e quando penso alla mia infanzia mi domando perché non riesco a credere alla donna che sono diventata. Mi chiedo ancora quanto ci sia d'ineluttabile nel segreto di cui io stessa sfioro solo i contorni, e quanto riescano a percepirne gli altri.
Io sono ancora quella bambina, la stessa bambina che oggi ha respirato l' aria del suo ennesimo compleanno.
Abitavamo in una casupola simile a tutte le altre di quella zona della città, nei pressi della stazione.
Il senso che per primo fiorì in me fu l' olfatto. Il primo odore che percepii fu quello dell'umidità che trasudava dalle pareti di tufo e dai pavimenti, un odore che, a folate continue, veniva smosso e guidato sino a me dal passo trascurato e veloce di mio fratello o dal respiro pesante di mio padre. In lui si mescolava ad un intenso alito di vino mentre la mamma sapeva sempre, nelle mani e nel cuore, di varechina.
I ricordi! La gente blatera, farfuglia del primo ricordo, dicono che è stato quando la mamma ci ha portato all' asilo il primo giorno o quando siamo caduti giù per le scale ripide della soffitta: Sciocchezze. Tutto quello che ha valore, dei primi istanti, giorni o mesi di vita è intimamente legato ai sensi. Tutto il resto è uno sproposito. Tutto quello che viene dopo si è già compiuto altrove e non resta molto da aggiungere.
Il fischio del treno fu uno dei rumori che per primi destarono acutamente la mia curiosità: irrompeva nel brusio del quartiere, costante e monotono, come a offrirgli spunti di ritmo e vivacità. Al mattino, il primo avviso ai lavoratori più solleciti era il treno delle cinque e mezzo: credo che mio padre fosse fra questi, almeno a quel tempo, perché al primo sibilo avvertivo l'onda dell'umido ed infine il respiro impastato di quell'ombra scura che si fissava su di me. Non ho mai temuto mio padre: sempre troppo stupito il suo sguardo.
Il babbo era scuro mentre la mamma era variopinta e con le mani sature di un miserevole tentativo di dignità che era quel tanfo di ipoclorito.
Quando avvertii per la prima volta il contatto con le sue mani ne fui confusa: aride, scheggiate qua e là come un pezzo di legno mal piallato, mi sollevavano e mi portavano contro un luogo caldo ma solo per poco, poi quella sensazione di oblio si perdeva e tornava il tepore appiccicoso delle coperte.
Se magari avessi avuto una sorella più grande che si occupasse con me anche solo per giocare, ora non mi sentirei così gelata.
Le mani del babbo le incontravo ogni volta per caso, grandi, avvolgenti, la mattina mi svegliavano, oppure la notte, anche; erano come un incontro fra innamorati che quando avviene all' improvviso assume le sembianze del miracolo.
Dove abitavo io i primi due anni di vita erano un paradiso, se tuo padre lavorava, s' intende; poi si doveva crescere in fretta. Mio fratello badava a me mentre il babbo era via e la mamma intenta nelle pulizie o a far la spesa.
Credo che Giovanni mi pizzicasse i piedi per farmi piangere e poi me li accarezzasse per calmarmi in una continua altalena perché ancora adesso, quando mio marito me li massaggia, provo nel contempo, un panico irresistibile ed una malinconia feroce.
Non c'era l' asilo per noi: c'era il quartiere, la strada. Presto cominciai a uscire con mio fratello al pomeriggio. Il vicolo pullulava di bambini che come noi si riparavano dalle urla dei genitori. Eravamo dei turnisti, se così si può dire: quando i nostri genitori tornavano a casa ci si incrociava per pochi istanti, poi eravamo noi a scendere in strada e poi il contrario e così via.
Dopo qualche tempo prendemmo a uscire anche dopo la cena, senza il loro permesso ben inteso, in una sorta di accordo sotterraneo: i miei s' incontravano dopo una dura giornata di lavoro e se tutto andava per il bene e il babbo era in buona, cominciavano a strofinarsi già durante la cena, altrimenti, se mamma faceva la ritrosa o lo irritava, erano strepiti da buttare giù i calcinacci della cucina e piatti e bicchieri.
- Sei una bestia immonda - urlava lei - un animale che non sa nulla di nulla, nemmeno l'alfabeto conosci, chissà che avevo per la testa quando ti ho sposato!
Io, che non avevo mai sentito alcuna storia sul demonio, mi convinsi più tardi che mio padre fosse il diavolo, perché il prete, quando parlava di Satana, lo apostrofava proprio così:
- Abominevole scempio della natura, bestia immonda.
Il babbo non parlava un gran che, a volte ci faceva sedere sulle sue gambe e le muoveva come fosse un cavallo al galoppo, al trotto, al passo, e hop hop si corre…
Si correva giù per strada, per salvarsi, soprattutto. Ogni tanto c'era una rissa o magari due donne si prendevano per i capelli urlandosi troia. Per strada c'erano anche gli uomini, dopo cena: una mescita di vino li radunava tutti a parlare del lavoro che mancava o a dar fastidio a Gigina, la puttana del quartiere. La figlia di Gigina non la vedevo spesso perché si alternava con la madre, lei si chiamava Tonia. Quando Gigina lavorava lei stava dentro a scaldare la cena al padre e coccolarlo e quando la donna tornava, allora spariva per non farla infuriare: era gelosa, la madre, della figlia.
- Sei di una brutta razza - le sibilava - una puttanella infida.
Quando vedevo Gigina pensavo che fosse molto bella, più colorata della madonna, con uno scialle a fiori e tutto il viso brillante e così assaggiai per la prima volta l' ira di mio padre quando mi trovò nel bagno, tutta agghindata, a colorarmi con le cose della mamma.
Allora pensavo che puttana fosse una sorta di affettuoso scapaccione letterario, del genere sciocchina, ma per lui era altro, e chissà se ora che non porto mai che una traccia di belletto e predico a mia figlia la semplicità, non mi guidi ancora il terrore istintivo di quelle mani, chine su di me, come un randello su un cane bastardo.
Tonia, la figlia di Gigina, la fecero ammattire; una sera alla mescita del vino la presero su e le dicevano:
- Dai dimmi che fa tua madre per la strada, e che fa con te tuo padre quando la mamma sta fuori, sei la sposa di tuo padre, tu, e ti piace quando il babbo ti tocca e come ce l' ha duro il babbo?
Tonia tornò a casa e fece del male al babbo, credo, perché poi vennero l' ambulanza e la polizia.

A scuola ci sono andata solo io, quello era il mio lavoro. La mamma mi ci accompagnò un mattino e disse che la strada la dovevo imparare oppure non ci tornavo più, ma era facile, mi bastava inseguire il silenzio.
Il primo giorno avevo il grembiule nero con un fiocco rosso e i capelli raccolti, coi loro bei nastri colorati, quasi come Gigina, e tutti i bambini sembrava che venissero da un altro posto, lontano da me.
La maestra era piccola e diventava tutta rossa e rigida quando noi scalpitavamo nei banchi.
Gli odori erano così diversi e i colori anche: la signorina Manca profumava di camposanto, e questo le faceva onore. Io non ci ero andata che poche volte a trovare la nonna ma un luogo senza umido e ipoclorito mi pareva una storia a lieto fine.
Le mie compagne sapevano di buono, nemmeno una del mio quartiere, nemmeno una che urlasse puttana o maledizione a te, e io subito mi abbandonai a quella nuova pace. Mi tiravano le code, alcuni, mi sollevavano i vestiti anche, ma io non avevo paura, non era spavalderia, solo abitudine alla sopravvivenza.
Quella sera a cena mi osservavano tutti come a voler pesare se la mia giornata scolastica avesse già prodotto cambiamenti evidenti persino nell'aspetto; io stavo là, incerta se continuare a mangiare o tenere un contegno umile, già avvertita del peso della colpa che da quel momento in poi avrei dovuto sostenere, infine il babbo sbattendo il palmo della mano contro il tavolo urlò:
­ Embè? Ti si è seccata la lingua? Allora questa cazzo di scuola che c' avrà di tanto speciale?
Fu l' unica domanda che mi venne posta da un membro della famiglia e non ebbi mai modo di rispondere perché la mamma lo apostrofò con mille insulti (caprone, ubriacone lercio, ignorante, idiota) e a metà della cena io e Giovanni dovemmo scappare giù in strada per non assistere al resto.
Mio fratello mi osservava in un modo che non ho dimenticato, perché nel fondo del suo sguardo ancora mi fissa così. Mi guardava come se lo avessi abbandonato, non per volontà e tuttavia in maniera definitiva, come se non fossimo più fratelli o non condividessimo più la stessa sorte.
E' proprio una strana ironia il fatto che due persone che, come noi, hanno percorso una strada così difficile, debbano dilaniarsi fra loro anziché legarsi saldamente per darsi la forza di sopravvivere. La scuola creò fra di noi un divario mai colmato, una spaccatura che mio fratello rendeva sempre più profonda a colpi di rivendicazioni e ambizioni mai svelate o forse solo timidamente intuite.
E io ancora vorrei urlargli che sono sempre la stessa bambina che lui si divertiva a tormentare e coccolare, la stessa che lui portava via di peso dalle litigate furiose dei miei, cantando a squarciagola ritornelli osceni per coprire il furore delle loro voci.

A ben rifletterci non fu il caso che mi condusse a scuola ma una sorta di missione che la famiglia mi affidò. Era come se dovessi segnare un cammino che non era stato mai percorso e nel farlo avessi l' obbligo di staccarmi, sradicarmi da loro, asciugando la povera vena d' affetto che ci legava.
Il mio obiettivo era il riscatto e contemplava necessariamente la distanza e l'estraniazione.
Giorno per giorno, in ogni gesto di mia madre, che mi svegliava con ruvidezza, ispezionava il misero abbigliamento, mi spazzolava con furia i capelli, c' era il senso della partenza:
- Comportati bene, che se ti cacciano dalla scuola… non ci voglio nemmeno pensare a quello che direbbe tuo padre; e tuo fratello che a scuola non ci è mai potuto andare? Guardami negli occhi: ci siamo capite?
Quegli occhi, stanchi, vitrei, li potevo attraversare, gli occhi di una bambina avvezza alla taccagneria, e poi le mani che non ricevettero il calore che sveglia un cuore alla sensibilità, la bocca che mai assaggiò altro che baci spinosi e mai gratis, nemmeno quelli.
Qual è quel miracolo che a volte fa sì che l'amore non ricevuto lo si possa immaginare il tanto che basta per metterlo in scena per chi si ha davanti, qual è la meraviglia che fa dire a una madre - mio figlio avrà tutto ciò che io non ho avuto - e intenda baci e abbracci e tenerezze e spalle forti per andarvisi a rifugiare, qual è quella combinazione per cui la vita si trasforma, con l'avvicendarsi delle generazioni, in uno spazio desiderabile? Io non so davvero quale sia, un prodigio del caso per l' appunto.
Io, per buona sorte, appresi altro sull' amore.

La scuola era in un quartiere nuovo, tutto pieno di palazzi alti quattro piani e più, negozi e macchine che si insultavano e correvano come i miei quando tirava una brutta aria. Io vi giungevo con molto anticipo perché ogni mattina mi assaliva il terrore di non ricordarmi bene la strada, come quei due bambini di cui aveva parlato la maestra, che si erano persi nel bosco a cercare la casa di marzapane mentre gli uccellini s'erano mangiati le loro briciole.
La maestra ci insegnava tante cose e poi, nel pomeriggio, se restava del tempo dopo i compiti, ci leggeva le favole. Io mi vergognavo molto perché non ne avevo mai sentite di storie che non fossero le canzoni della mamma sulla guerra e “Vecchio scarpone” e così non la finivo di sospirare e spaventarmi per ogni gigante o principessa che mi comparivano davanti: gli altri ridevano e divenni presto il giullare che i compagni pungolavano per avere un' occasione di divertimento.
Avevo capito da sola che molte delle parole che usavo in casa non potevo ripeterle a scuola e allora, non conoscendone molte altre, preferivo star zitta.
L'unica che, insieme alla maestra, mi volle subito vicina, fu Letizia, il mio angelo custode, anche se non ne ebbe mai né le fattezze né gli atteggiamenti.
Letizia era una bambina minuta, con una zazzera scompigliata che pareva un mare d' erba incolto a cui il vento cambiasse il verso ad ogni sferzata, e gli occhi rutilanti di un fuoco sacro. Mi fissava in continuazione e diceva poco ma quel poco lo temevo come se potesse mettermi in pericolo di vita.
La prima volta che mi rivolse la parola mi chiese:
- Perché tua madre non ti accompagna mai a scuola?
Restai in silenzio a ripetere fra me e me la domanda come un problema d' aritmetica, poi provai:
- Perché non ha tempo da perdere, credo.
Letizia mi guardava fissamente come a tentare almeno di decifrarlo attraverso i miei occhi, se non arrivava a comprenderlo, il senso di quelle parole, ma in due non ne cavammo nulla e allora rinunciò.
Io adoravo andare a scuola, tutto ciò che succedeva era una novità per me, bevevo ogni parola pronunciata dai miei compagni, i racconti dei loro fine settimana in campagna e i loro cuccioli e i giochi. Non pensavo mai che ne esistessero tanti e non facevo che domandare precisazioni sui colori e i suoni che se ne tiravano fuori.
Una mattina Letizia mi prese in disparte e mi fece un regalo: un bambolotto di pezza grande quanto la mia mano, con una veste da marinaio e i capelli corti. Gli occhi scuri si chiudevano quando mettevo a dormire il mio soldatino e non riuscivo credere che avrei potuto tenere quel bimbo di porcellana e stracci solo per me:
- Te lo manda la mamma - disse scrutandomi attenta - l' ha fatto per il babbo quando faceva l' accademia. Ma tu chi sei?
Io quasi non l' ascoltavo, persa nella contemplazione del mio piccolo innamorato e a malapena lessi una minaccia insidiosa nelle parole restate a mezz'aria. Se un altro mi avesse chiesto lo stesso forse lo avrei persino picchiato ma Letizia non mi prendeva in giro, non rideva di me, nemmeno per poco. Lei mi osservava, mi seguiva o ero io a farlo, tutto in una sorta di composto rispetto e così le sue curiosità avevano un che di sacro e imprescindibile, come gli interrogativi esistenziali dominio dei filosofi. Quella volta non risposi e lei sussurrò:
- Ho chiesto alla mamma se puoi venire da noi domani pomeriggio.
Io accennai a un sorriso ma quando mi sfilò davanti la parata di oggetti carichi d' emozione e la casa e le due sorelle e i giochi, svenni.
L'indomani all'uscita della scuola aspettammo la madre di Letizia con le mani intrecciate, finalmente arrivò e quando le venni presentata mi strinse la mano e infine, non resistendo alla tentazione, mi abbracciò. A casa di Letizia facevano tutti così, madre, padre e sorelle, si abbracciavano spesso e si baciavano le guance con certi suoni fragorosi che scatenavano grasse risate. Abitavano in un quartiere dove non si stendeva la biancheria sui balconi e per strada si sussurrava, coprendosi la bocca quando uno schiamazzo divertito sfuggiva per errore.
La casa era molto grande e luminosa, e Letizia aveva una stanza tutta per sé con un letto enorme e una quantità impensabile di giochi. Mi ci guidarono dentro solennemente, come si fa con un uomo che, dopo aver molto peccato, avanzi incontro alla santità, e mi ci lasciarono per un tempo che a me parve brevissimo. Cominciai a prendere confidenza con quel nuovo mondo, con una lentezza che era a misura della mia capacità di sopportazione. Come si fa per l' orrore, anche la bellezza ha bisogno del suo tempo per essere sostenuta e anzi, a pensarci ora, quel primo pomeriggio a casa di Letizia, seduta sul pavimento tiepido, circondata dai suoi balocchi, rischiai quasi la vita.
Quello fu solo l'inizio degli anni più gioiosi della mia primavera. Andavo a casa della mia amichetta con una frequenza che era proporzionale al disinteresse crescente che la mia famiglia mi dimostrava. Mia madre comunicava con la maestra attraverso le note appuntate sul quaderno e provvedeva senza fiatare alle mie esigenze scolastiche, dopo essersi assicurata che io seguissi con profitto le lezioni.
Delle mie visite a casa di Letizia non si faceva alcun cenno né io mi azzardavo a dar loro il minimo indizio sull'entità delle nuove frequentazioni. Come spiegare i baci, gli abbracci, il tè delle cinque, la magnifica divisa del colonnello e lo scialle chiaro e morbido sulle spalle diafane della madre e i lunghi capelli delle due sorelle, che sapevano di biscotto alla vaniglia?
Come spiegare la tenerezza e tutto il resto?
E con quale diritto poi, raccontare di un'America lontana a chi non poteva permettersi, per indigenza affettiva, che urla e schiamazzi e una strattonata al cuore, ogni tanto, per non farlo crepare d' immobilità?
Ce ne stavamo tutti lì, tesi su di un equilibrio faticosamente raggiunto, tutti attenti a non precipitare nel baratro che era sempre lì, a un solo passo.
Mio padre lavorava di meno e beveva sempre più di frequente, la mamma andava a servizio in una famiglia e mio fratello l'accompagnava: aveva lì un lavoretto da tuttofare, portava la legna e la spesa e puliva il camino sul tetto.
Non ci prendevamo più per nulla noi due, quasi non fiatavamo nei pochi momenti che trascorrevano prima della cena. Il quartiere si andava spopolando, molti avevano ottenuto un alloggio dal comune, lontano, quasi fuori dalla città e se noi restavamo era perché la casa l' avevamo comperata, tanti anni prima, grazie ai soldi dei nonni e a un accesso d'orgoglio.
Per ottenere il permesso di dormire da Letizia e poi passare con lei i fine settimana mi bastò chiederlo - se loro ti vogliono…- fu l' unico commento di mia madre. Se non mi trasferii lì da loro fu soltanto per pudore e paura di violare i confini che mi avevano consentito fino ad allora di non rappresentare una minaccia o uno schiaffo morale alla nostra miseria.
Il dono di quella famiglia mi diede anche il peso della consapevolezza e, mi tenne a terra ancor più saldamente che se avessi continuato la mia vita senza sapere altro. E' la presenza simultanea degli opposti che crea la sensibilità, la continua scoperta dei diversi che ci arricchisce di una coscienza.

A pochi giorni dal mio esame di licenza elementare la mamma morì. Accadde tutto così improvvisamente che non compresi un granchè di quei momenti. Il dottore disse che il suo cuore affaticato aveva ceduto, di colpo.
La mamma, nel letto, non era poi così diversa da prima, bianca, impettita, e toccarla mi dava la stessa sensazione di quando le sue mani gelide mi aggiustavano il fiocco o mi buttavano indietro le trecce.
Andammo al funerale con mio padre sbronzo che piangeva come un vitello e mio fratello che lo seguiva, attento a che non sbandasse.
La madre di Letizia - sono la signora Conti - si presentò a mio padre, dopo avergli fatto le condoglianze, gli chiese se potevo trascorrere da loro il periodo precedente all'esame, dato che lui avrebbe avuto molte faccende da sbrigare e la bambina gli sarebbe potuta essere d'impaccio.
- Molte faccende da sbrigare - ripeté mio padre con gli occhi persi nel vuoto, poi mi fece un sorriso distratto accarezzandomi la testa e si allontanò con mio fratello.
Vivere a casa dei signori Conti non fu che un coronamento dei miei sogni, dei sogni di tutta la famiglia. Dopo l' esame la signora mi prese da parte e mi disse che aveva da farmi un discorso molto serio:
- Ho parlato con Letizia e lei è proprio felice che tu stia con noi e dorma nella stanza con lei; sai che lei ti ha voluto bene dal primo momento, e ora che la tua mamma non c'è più ci domandavamo che cosa penseresti di venire a stare qui da noi, per sempre.
La signora Conti - zia Caterina - mi disse di chiamarla, aveva gli occhi umidi e la voce malferma e io risposi:
- Devo chiederlo a mio padre.
S'incontrarono con mio padre: ho poi saputo che lui non proferì quasi parola, e si disse d'accordo e chiese loro di potermi vedere ogni tanto, anche per mio fratello che ormai restava solo. La mia nuova famiglia lo tranquillizzò dichiarando che mai mi avrebbe imposto una parentela che era diritto inalienabile di mio padre e di Giovanni. Così la mia vita divenne definitivamente altro.

Sono andata via di casa, dalla mia nuova casa, a diciotto anni, insieme a Letizia, per proseguire gli studi all'Università di Bologna, dove la famiglia Conti aveva dei parenti, mi sono laureata in sociologia, e sono tornata nella mia città dopo pochi anni per stabilirmici definitivamente.
Nella comunità di recupero per tossicodipendenti dove lavoro da allora ho incontrato l'uomo che sarebbe diventato mio marito. Dei figli ho avuto sempre un terrore invincibile e ci è voluta la sua pazienza per farmi intravedere la bellezza nel donare loro la vita.
Sono stata fortunata - mi dico sempre - e ci credo persino, sono cosciente di tutti i momenti importanti e commoventi cha hanno riscaldato la mia vita ma… c' è un ma che non verrà mai cancellato da alcun evento perché mi appartiene indissolubilmente.
Non riesco spiegare quanto i miei primi anni di vita siano stati vivi e presenti ogni giorno sino a giungere a questo quarantanovesimo compleanno; non riesco a spiegare che accanto alla donna che lavora, che ama, che riposa, c' è sempre la bambina che non si è scaldata al fuoco del sentimento, la bambina che anche in estate avrà bisogno di una coperta per stare serena; non riesco a spiegare che quando sono nati i miei figli, il mio più grande rammarico è stato quello di non avere, come mio marito, mani sempre calde perché le mie effusioni fossero quanto di più simile al calore che il mio utero per primo ha trasmesso loro.

 

 

 
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