Area riservata

Ricerca  
 
Siti amici  
 
Cookies Policy  
 
Diritti d'autore  
 
Biografia  
 
Canti celtici  
 
Il cerchio infinito  
 
News  
 
Bell'Italia  
 
Poesie  
 
Racconti  
 
Scritti di altri autori  
 
Editoriali  
 
Recensioni  
 
Letteratura  
 
Freschi di stampa  
 
Intervista all'autore  
 
Libri e interviste  
 
Il mondo dell'editoria  
 
Fotografie  
 
 
  Poesie  Narrativa  Poesie in vernacolo  Narrativa in vernacolo  I maestri della poesia  Poesie di Natale  Racconti di Natale 

  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Ais, di Barbara Delfino 01/06/2007
 

Ais

 

Dopo tre anni finalmente è il tempo degli esami. Tre anni di sacrifici, di serate sui libri invece che uscire con gli amici, perdendo di sicuro incontri, sguardi, parole, pelle da accarezzare e vestiti da sfilare.
Tre anni in cui dire: no, grazie, niente cinema, no, grazie, non riesco a venire a cena, no, grazie, a sciare la prossima stagione.

A dirla così sembrerebbe che io abbia per tre anni studiato in seminario.
In realtà ho studiato da somellier. Un corso gestito da una delle due associazioni ufficiali presenti in Italia; un costo esorbitante per tre tipologie di studenti mischiate assieme: lo studente mi tolgo uno sfizio e ammorbo gli amici ogni volta che stappano una bottiglia anche di cedrata, lo studente faccio il corso tutto serioso perché è una cosa che mi arricchisce dentro, lo studente è il mio lavoro e devo farmi un culo come una campana. Io, ovviamente, appartengo al terzo tipo.

I miei genitori mi hanno lasciato il bar il giorno che si sono schiantati contro una quercia a lato della statale che va da Torino ad Isola d'Asti. Un rettilineo neanche troppo lungo da giustificare il colpo di sonno, nessun animale che abbia attraversato di corsa la strada. Conoscendoli, mia madre di sicuro dormiva della grossa ed infatti il suo sedile era reclinato al massimo. Conoscendoli mio padre era ubriaco fradicio ed infatti l'esame del sangue era più un'analisi organolettica chimica del barbera del Monferrato, varietà di barbera frizzante da bere giovane, con piatti poco impegnativi quali agnolotti, salumi, spezzatini non troppo speziati e formaggi. Tornavano da un acquisto di quindici brente da mescere sfuse ai vecchi che frequentavano il locale: nasi rossi e fiato terrificante già di primo mattino. Mio padre non sapeva fare un cappuccino, forse glielo han chiesto tre volte in quarant'anni di bancone, e le brioches erano un vezzo di mia madre che si ostinava a comperarle ogni mattina dal prestinaio assieme ai micconi da tagliare in fette spesse per il mezzogiorno affollato di operai e qualche impiegato dalla giacca di ipermercato e la stessa cravatta settimana dopo settimana. Le brioches erano anche il vezzo del cane, che le spazzolava a sera a chiusura. Cane obeso, ovviamente, e morto sul colpo anche lui nell'incidente: mio padre non faceva un passo senza quel bracco grasso e pigro che limitava il suo istinto di cacciatore al traffico cittadino da osservare dalla porta del bar.

Il bar prima era un'osteria; prima ancora un postale; prima ancora sicuramente un qualunque qualcosa in cui l'acqua era da considerare blasfema. Che io sappia esiste da oltre due secoli, come la bottiglia di Liquore di Zio Pepe, con etichetta verde e strane cristallizzazioni sul vetro, che fa bella mostra ancora adesso su una mensola sopra la macchina del caffè. In cantina sono stati nascosti vari tipi di fuggitivi: brigatisti, partigiani che han regolato conti anche dopo il tardo Aprile del ‘45, anarchici, ragazzi del ‘99, sospetto anche precettati per Teano e forse per le Termopili. C'è da sempre. Come le brioches di mia madre.

I miei muoiono di domenica, giorno di chiusura perché di operai e impiegati di basso livello il giorno di festa se ne vedono ben pochi e il panettiere è chiuso - niente brioches, niente apertura.
Il martedì fanno un'autopsia sommaria, trovano stupendosi del sangue nelle vene di mio padre e ricompongono per quel che è possibile mia madre e Nenni, il cane.
Il mercoledì funerale.
Il giovedì mi concedo ancora ventiquattr'ore di rincoglionimento e di zie che mi riempiono l'appartamento sopra il bar di lasagne, paste al forno e sformati di verdure.
Il venerdì arriva la banca.

Scopro che servire agnolotti e arrosto con patate tutti i giorni e bianco con Campari a colazione ha portato ad ipotecare prima il locale, poi l'alloggio, poi le tre giornate di terra ereditate cinque anni fa dallo zio Mario, fratello del nonno di mia madre, morto ultracentenario e speranza di chissà quali soldi nel materasso - dove invece trovarono solo lana pisciata che non veniva cardata da almeno trentacinque anni, cioè dalla dipartita di sua moglie.

Il campo glielo lascio, alla banca: potete vedere un complesso di dodici villette rosa con giardino e garage, ora. Non sono molto brutte, sono solo indistinguibili. Mio padre di sicuro avrebbe sbagliato ingresso per undici sere di fila, statisticamente entrando in casa sua solo la dodicesima.

L'alloggio no: dove sarei andato a dormire? Le zie le ho riviste solo quando son tornate a riprendersi le teglie del cibo fornito dopo il funerale.

E il bar? Ho il diploma da tornitore. Venderlo non potevo: era di proprietà della banca. Cedere significava andare a Torino, cercare lavoro in fabbrica, con le pezze al culo peggio che stare al paese.

Ho chiesto al direttore del tempo. Ha nicchiato. Ho insistito. Ha negato. Gli ho detto che alla sua signora non avrebbe fatto piacere sapere di Rosa, di Anna e della Maria, l'ultima. Ha accettato.

Ho trovato in cantina del bianco. Ho rinfrescato le pareti. Ho pulito. Ho tolto le carte di torno, staccato la licenza per i giochi da tavolo. I vecchi hanno iniziato a gironzolare fuori dalla porta, gli impiegati ad avere giacche di taglio migliore, le brioches ad essere mangiate entro le dieci del mattino. Ho preso un forno a microonde, imparato a comperare vaschette di pasta pronta e di secondi piatti e a spazzare per terra tre volte al giorno invece che due la settimana.

Dopo un mesetto il campari con bianco è stato sostituito dal prosecchino e le patatine riciclate da panini tagliati a dadini e messi sul bancone, su taglieri di legno d'ulivo.

Dopo due mesi anche il direttore della banca arrivava per il prosecchino. Mi guardava con odio, ma veniva lo stesso a spazzare rotolini di pancetta, pizzette e dadini di prosciutto.

Ho capito che il business vero era nel vino a bicchiere. Il suo prezzo di vendita era quasi il costo della bottiglia.

Ho iniziato a studiarmi libri di enologia. Cabernet, merlot, piana rotaliana, rosso piceno, bianco di La Salle, bricchi di uccelli, uccelletti e uccelloni.

Intanto dietro al banco c'erano un barista e una cameriera. Con i lavori di ristrutturazione per le norme di sicurezza sono arrivati tavoli con tovaglie a quadri bianchi e rossi, candele dell'Ikea, una cucina industriale, un cuoco e una carta dei vini. In cui non capivo un cazzo. Così mi sono iscritto al corso da somellier. Io, tornitore, ignorante, senza mai la voglia né il tempo di leggere oltre la gazzetta, fin da piccolo ero cresciuto in mezzo a bicchieri di rosso sfuso pieno di metanolo e la tovaglia rivoltata ogni tot per nascondere le macchie, dovevo fare il salto di qualità, per sopravvivere.
Appendendo alle pareti foto ingiallite dei miei predecessori capivo che in realtà, nella vita, volevo essere un figo.
Ed essere un figo, in quel momento, era poter rimbeccare i miei clienti che credono il sassicaia contenga sangiovese.

Mi sono iscritto, quindi, e ho provato sulla pelle, anzi, sulla lingua, quello che avevo solo letto: il vino si sputa.
Assaggi, fai rumoracci di gorgoglìo, strabuzzi gli occhi, sputi. Facevo tutto: assaggiavo, grufolavo, sciacquavo i denti, ma niente sputare. Non ce la facevo. Così inghiottivo. Dopo le due ore di lezione ero puntualmente ciucco come una biglia.
Ma sono andato avanti, per i tre anni, passando gli esami intermedi contando sulla benevolenza dell'istruttore.

L'esame finale era un'altra cosa, però. Sputa, mi aveva detto l'insegnante, sputa mi raccomando, dovrai testare quattro vini, non fare cazzate, non mandare giù, assaggia, sputa, acqua per pulire la bocca, mi raccomando.
Mi aveva preso a cuore, sapeva che facevo tutto per il locale che ormai mi dava da mangiare più che bene, conosceva la mia storia. Sputa. Mi veniva il voltastomaco al solo pensiero. Sputa. Sono davanti alla commissione. Sputa! Guardo gli esaminatori, le mie guance sono come un criceto che rumina due chilogrammi di semi, sputa! Sputo. Addosso al presidente di commissione. Gli centro gli occhiali, la mia saliva colorata di rosso gli cola lungo le guance, sul colletto della camicia, scivola sulla cravatta.

Adesso assieme agli stuzzichini, alle cipolline borretane in agrodolce e i tomini elettrici su canapè di pane tostato servo anche il mio silenzio, quando parlano dei prezzi del sassicaia. Non sto lì a puntualizzare che è l'unico vino con una d.o.c. dedicata. L'unica volta che l'ho fatto un tizio tutto abbronzato con su degli occhiali da sole che sembravano una maschera da sci, accompagnato da una tizia alta magra e con le tette senza reggiseno che si vedevano attraverso la camicetta, mi ha guardato con disprezzo e mi ha chiesto Ma lei è forse somellier?
No, ho risposto.
Be', io sì, ha ribattuto lui.
Sono stato zitto e son andato nel retro ad affettare del salame.

 

 
©2006 ArteInsieme, « 014087443 »