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Dopo
tre anni finalmente è il tempo degli esami. Tre anni di sacrifici, di serate
sui libri invece che uscire con gli amici, perdendo di sicuro
incontri, sguardi, parole, pelle da accarezzare e vestiti da sfilare.
Tre anni in cui dire: no, grazie, niente cinema, no, grazie, non riesco a
venire a cena, no, grazie, a sciare la prossima stagione.
A
dirla così sembrerebbe che io abbia per tre anni
studiato in seminario.
In realtà ho studiato da somellier. Un corso gestito
da una delle due associazioni ufficiali presenti in Italia; un costo
esorbitante per tre tipologie di studenti mischiate assieme: lo studente mi tolgo uno sfizio e ammorbo gli amici ogni volta
che stappano una bottiglia anche di cedrata, lo studente faccio il corso tutto serioso perché è una cosa che
mi arricchisce dentro, lo studente è il mio lavoro e devo farmi un culo come
una campana. Io, ovviamente, appartengo al terzo tipo.
I
miei genitori mi hanno lasciato il bar il giorno che si sono
schiantati contro una quercia a lato della statale che va da Torino ad Isola
d'Asti. Un rettilineo neanche troppo lungo da giustificare il colpo di sonno,
nessun animale che abbia attraversato di corsa la strada. Conoscendoli, mia
madre di sicuro dormiva della grossa ed infatti il suo
sedile era reclinato al massimo. Conoscendoli mio padre era ubriaco fradicio ed infatti l'esame del sangue era più un'analisi organolettica
chimica del barbera del Monferrato, varietà di barbera frizzante da bere
giovane, con piatti poco impegnativi quali agnolotti, salumi, spezzatini non
troppo speziati e formaggi. Tornavano da un acquisto
di quindici brente da mescere sfuse ai vecchi che frequentavano il locale: nasi
rossi e fiato terrificante già di primo mattino. Mio padre non sapeva fare un
cappuccino, forse glielo han chiesto tre volte in quarant'anni di bancone, e le brioches
erano un vezzo di mia madre che si ostinava a comperarle ogni mattina dal prestinaio assieme ai micconi da
tagliare in fette spesse per il mezzogiorno affollato di operai e qualche
impiegato dalla giacca di ipermercato e la stessa cravatta settimana dopo
settimana. Le brioches erano anche il vezzo del cane,
che le spazzolava a sera a chiusura. Cane obeso, ovviamente, e morto sul colpo
anche lui nell'incidente: mio padre non faceva un passo senza quel bracco
grasso e pigro che limitava il suo istinto di cacciatore al traffico cittadino
da osservare dalla porta del bar.
Il bar prima era un'osteria; prima ancora un
postale; prima ancora sicuramente un qualunque qualcosa in cui l'acqua era da
considerare blasfema. Che io sappia esiste da
oltre due secoli, come la bottiglia di Liquore di Zio Pepe, con etichetta verde
e strane cristallizzazioni sul vetro, che fa bella mostra ancora adesso su una
mensola sopra la macchina del caffè. In cantina sono stati nascosti vari tipi
di fuggitivi: brigatisti, partigiani che han regolato
conti anche dopo il tardo Aprile del ‘45, anarchici, ragazzi del ‘99, sospetto
anche precettati per Teano e forse per le Termopili.
C'è da sempre. Come le brioches di mia madre.
I
miei muoiono di domenica, giorno di chiusura perché di operai e impiegati di
basso livello il giorno di festa se ne vedono ben pochi e il panettiere è
chiuso - niente brioches, niente apertura.
Il martedì fanno un'autopsia sommaria, trovano stupendosi del sangue nelle vene
di mio padre e ricompongono per quel che è possibile mia madre e Nenni, il cane.
Il mercoledì funerale.
Il giovedì mi concedo ancora ventiquattr'ore di rincoglionimento e di zie che mi riempiono l'appartamento
sopra il bar di lasagne, paste al forno e sformati di verdure.
Il venerdì arriva la banca.
Scopro
che servire agnolotti e arrosto con patate tutti i giorni e bianco con Campari a colazione ha portato ad ipotecare prima il
locale, poi l'alloggio, poi le tre giornate di terra ereditate cinque anni
fa dallo zio Mario, fratello del nonno di mia madre, morto ultracentenario e
speranza di chissà quali soldi nel materasso - dove invece trovarono solo
lana pisciata che non veniva cardata da almeno trentacinque anni, cioè
dalla dipartita di sua moglie.
Il
campo glielo lascio, alla banca: potete vedere un complesso di dodici villette
rosa con giardino e garage, ora. Non sono molto brutte, sono solo
indistinguibili. Mio padre di sicuro avrebbe sbagliato ingresso per undici sere
di fila, statisticamente entrando in casa sua solo la dodicesima.
L'alloggio
no: dove sarei andato a dormire? Le zie le ho riviste solo
quando son tornate a riprendersi le teglie del cibo
fornito dopo il funerale.
E
il bar? Ho il diploma da tornitore. Venderlo non
potevo: era di proprietà della banca. Cedere significava andare a Torino,
cercare lavoro in fabbrica, con le pezze al culo
peggio che stare al paese.
Ho
chiesto al direttore del tempo. Ha nicchiato. Ho insistito. Ha negato. Gli ho
detto che alla sua signora non avrebbe fatto piacere sapere di Rosa, di Anna e
della Maria, l'ultima. Ha accettato.
Ho
trovato in cantina del bianco. Ho rinfrescato le pareti. Ho pulito. Ho tolto le
carte di torno, staccato la licenza per i giochi da tavolo. I vecchi hanno
iniziato a gironzolare fuori dalla porta, gli
impiegati ad avere giacche di taglio migliore, le brioches
ad essere mangiate entro le dieci del mattino. Ho preso un forno a microonde,
imparato a comperare vaschette di pasta pronta e di secondi piatti e a spazzare
per terra tre volte al giorno invece che due la
settimana.
Dopo
un mesetto il campari con bianco è stato sostituito
dal prosecchino e le patatine riciclate da panini
tagliati a dadini e messi sul bancone, su taglieri di
legno d'ulivo.
Dopo
due mesi anche il direttore della banca arrivava per il prosecchino.
Mi guardava con odio, ma veniva lo stesso a spazzare rotolini
di pancetta, pizzette e dadini di prosciutto.
Ho
capito che il business vero era nel vino a bicchiere. Il suo prezzo di vendita
era quasi il costo della bottiglia.
Ho
iniziato a studiarmi libri di enologia. Cabernet,
merlot, piana rotaliana, rosso piceno,
bianco di La Salle, bricchi
di uccelli, uccelletti e uccelloni.
Intanto
dietro al banco c'erano un barista e una cameriera. Con i lavori di
ristrutturazione per le norme di sicurezza sono arrivati tavoli con tovaglie a
quadri bianchi e rossi, candele dell'Ikea, una cucina
industriale, un cuoco e una carta dei vini. In cui non capivo un cazzo. Così mi sono iscritto al corso da somellier. Io, tornitore, ignorante, senza mai la voglia né
il tempo di leggere oltre la gazzetta, fin da piccolo ero cresciuto in mezzo a
bicchieri di rosso sfuso pieno di metanolo e la tovaglia rivoltata ogni tot per
nascondere le macchie, dovevo fare il salto di qualità, per sopravvivere.
Appendendo alle pareti foto ingiallite dei miei predecessori capivo che in
realtà, nella vita, volevo essere un figo.
Ed essere un figo, in quel momento, era poter
rimbeccare i miei clienti che credono il sassicaia contenga
sangiovese.
Mi
sono iscritto, quindi, e ho provato sulla pelle, anzi, sulla lingua, quello che
avevo solo letto: il vino si sputa.
Assaggi, fai rumoracci di gorgoglìo,
strabuzzi gli occhi, sputi. Facevo tutto: assaggiavo, grufolavo, sciacquavo i
denti, ma niente sputare. Non ce la facevo. Così inghiottivo. Dopo le due ore
di lezione ero puntualmente ciucco come una biglia.
Ma sono andato avanti, per i tre anni, passando gli esami intermedi contando
sulla benevolenza dell'istruttore.
L'esame
finale era un'altra cosa, però. Sputa,
mi aveva detto l'insegnante, sputa mi
raccomando, dovrai testare quattro vini, non fare cazzate,
non mandare giù, assaggia, sputa, acqua per pulire la bocca, mi raccomando.
Mi aveva preso a cuore, sapeva che facevo tutto per il locale che ormai mi dava
da mangiare più che bene, conosceva la mia storia. Sputa. Mi veniva il voltastomaco al solo pensiero. Sputa. Sono davanti alla commissione. Sputa! Guardo gli esaminatori, le mie
guance sono come un criceto che rumina due chilogrammi di semi, sputa! Sputo. Addosso al presidente di
commissione. Gli centro gli occhiali, la mia saliva colorata di rosso gli cola lungo le guance, sul colletto della camicia,
scivola sulla cravatta.
Adesso
assieme agli stuzzichini, alle cipolline borretane in
agrodolce e i tomini elettrici su canapè di pane tostato servo anche il mio
silenzio, quando parlano dei prezzi del sassicaia.
Non sto lì a puntualizzare che è l'unico vino con una d.o.c.
dedicata. L'unica volta che l'ho fatto un tizio tutto abbronzato con su degli occhiali da sole che sembravano una maschera da
sci, accompagnato da una tizia alta magra e con le tette senza reggiseno che si
vedevano attraverso la camicetta, mi ha guardato con disprezzo e mi ha chiesto Ma lei è forse somellier?
No, ho risposto.
Be', io sì, ha ribattuto lui.
Sono stato zitto e son andato nel retro ad affettare
del salame.