Il
Natale di Mingon
di
Stefano Giannini
Nelle
lunghe sere d’inverno, quando la nostra famiglia si radunava
attorno al focolare per riscaldarsi un poco, era una gioia, come oggi
andare al cinema. La legna, ancor verde, scoppiettava, e il gatto
veloce scappava. Dopo aver recitato il rosario, quante storie ci
raccontava nostro padre. Noi, 3 figli a scala, curiosi, stupiti e
affascinati ascoltavamo. Più che favole, i suoi racconti era
storie vere, vissute da protagonista. Mala storia di Domenico,
conosciuto da tutto il contado, col sopranome di Mingon, l’appresi
dal vecchio Poldo ottantenne. Per noi bambini e ragazzotti
quell’omone massiccio e simpatico non era un vecchio decrepito,
ma un patriarca che conosceva il mondo e ce lo portava in visione a
spicchi coi suoi fantastici racconti, che assorbivamo come un
nettare, in religioso silenzio. La “sala” dove si esibiva
a un pubblico di una ventina di attenti spettatori era la sua stalla.
Da due paia di mucche proveniva l’aria condizionata. Ogni
tanto, le sue storie venivano disturbate da qualche, “plaf,
plaf…, dovuto alle ovvie necessità delle vacche. -
Mingon, tutti lo conoscevano per il suo carattere rude e focoso,
oltre che per la vita grama da vagabondo che conduceva. Per vivere
girava per le aie della campagna, durante la mietitura, la vendemmia,
o d’inverno nei giorni dell’uccisione dei maiali. In
quelle speciali ricorrenze, immancabile la sua presenza, anche senza
invito. Cosi si procurava del buon cibo per sfamarsi. Con la sua
inseparabile fisarmonica suonava della antiche melodie e, dopo il
primo bicchiere di vino, cantava stornelli come un menestrello. Il
suo incedere era claudicante per i postumi di una ferita ad un piede
subita al fronte, durante la grande guerra dove, anche lui
diciottenne, era stato chiamato a combattere il nemico. Abitava da
solo in una stanza a pianterreno di un vecchio stabile alla periferia
di Castellaccio, un antico borgo formato da poche case unite l’una
all’altra, fatte di pietre locali, arroccato in cima al colle
da millenni. Mingon era veramente un uomo solo e molto povero,
riscuoteva un piccolo sussidio dal Comune. Tornato dalla guerra, non
aveva mai lavorato a causa della sua menomazione, a suo dire, perciò
aveva vissuto di espedienti quasi tutta la vita. Per la verità
nel 1920 era andato in Francia a cercar fortuna. Ma dopo pochi mesi
era tornato deluso e con pochi franchi in tasca. A trent’anni
anni aveva conosciuto Filomena, una ragazza di un paese vicino. Era
una donna della stessa età, umile, mora e balbuziente. Avevano
convissuto solo per qualche anno. Il suo carattere irruento e ribelle
non riuscì a raccordarsi con quello mite e sottomesso di lei.
Pare inconcepibile, ma Mingon aveva necessità di sfogare la
sua rabbia innata, così cercava ogni pretesto per inveire
contro l’unica persona che gli stava vicino. Una minestra
insipida poteva essere l’innesco di una serie infinita di urli
e parolacce nei confronti della povera Filomena, che se ne stava
muta, impaurita, a testa china, rannicchiata in un angolo della
stanza. Poi, un giorno, tornato a casa da uno dei suoi giri, non
trascurando di passare dall’osteria, come era solito fare,
trovò il camino spento e la tavola sparecchiata. Come un folle
vomitò una sfilza di epiteti irripetibili contro Filomena,
arrivando, per la prima volta, a schiaffeggiarla. La lasciò
piangente, con le guance livide. Sbattuta la porta, uscì
imprecando e inveendo contro di lei e il mondo intero. Quando a sera
ritornò ubriaco, Filomena non c’era più. Non la
cercò. Seppe poi che era tornata a casa sua e che la loro
storia era finita per sempre. Da quel giorno si dedicò solo al
vino. Mingon ora era veramente solo, arrabbiato, infelice. Abbandonò
in un bosco anche i due cani che da anni l’accompagnavano nel
girovagare. La gente del borgo sopportava il suo caratteraccio 4e i
suoi anatemi. Cercavano sempre più di evitarlo, specialmente
dopo aver saputo dei maltrattamenti inflitti a quella ragazza
semplice e mite. Quel mattino, come al solito, Mingon, dopo aver
smaltito la sbornia del giorno prima, si alzò verso mezzo
giorno, si vestì con i soliti sdruciti abiti, si avvolse in un
vecchio tabarro ed uscì dal suo tugurio. Era una giornata
umida e fredda. L’osteria, alla parte opposta del borgo, fu la
sua prima tappa. Vi trascorse qualche ora, si avvicinò ad un
tavolo dove quattro avventori giocavano a carte. Osservò lo
svolgimento delle partite senza fiatare. Quando un giocatore se ne
andò sedette e chiese ai tre di poter fare una partita a
briscola. Chiamò l’oste che gli portasse una bottiglia
di sangiovese. Già ai primi giri di mano della partita, Mingon
inizio ad imprecare e richiamare il compagno di gioco per errori di
carta mal giocata. Persa la partita, inveì e offese il suo
compagno, con veemenza gettò le carte sul tavolo e andò
a finire di scolarsi la bottiglia ad un altro tavolo. A sera,
ritroviamo Mingon nel paese vicino, distante circa due km,
nell’osteria “da Nando”. Anche lì, già
alticcio, sbraitava con alcuni avventori che a suo dire l’avevano
preso in giro dicendogli : “vai a casa Mingon, sei un zoppo,
cattivo e ubriaco”. Era verso mezzanotte del 24 dicembre quando
alcune donne che andavano alla Messa della natività lo videro
uscire dall’osteria zoppicante e traballante che avanzava a
stento sulla viuzza: due passi avanti e uno indietro, farfugliando e
imprecando, con frasi sconnesse.. Nel prato a fianco la chiesa il
parroco del paese aveva allestito un bel presepe con tante statue
lignee a grandezza naturale. Le campane suonavano a distesa
avvolgendo tutto il paese e chiamando i fedeli per la prima Messa di
Natale del 1950. Le pie donne uscivano dalle case. Gli uomini
sarebbero andati a quella solenne delle undici. Prima di entrare in
chiesa notarono, fra i pastori e le pecore, una specie di grosso
fagotto scuro; avvicinandosi videro un uomo supino avvolto in un
mantello nero, sembrava che dormisse. Lo toccarono ma non dava segni
di vita. Nel frattempo altra gente era sopraggiunta, chiamato il
parroco, lo riconobbero. Mingon aveva finito i sui infelici giorni a
50 anni. Il commento bisbigliato fra “la brava gente”
accorsa, mentre si faceva il segna della croce “Proprio in
mezzo al presepe, mentre Gesù nasceva, doveva morire quel
disgraziato di Mingon ! Pace all’anima sua!”
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