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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Il Natale di Mingon, di Stefano Giannini 22/12/2021
 
Il Natale di Mingon

di Stefano Giannini



Nelle lunghe sere d’inverno, quando la nostra famiglia si radunava attorno al focolare per riscaldarsi un poco, era una gioia, come oggi andare al cinema. La legna, ancor verde, scoppiettava, e il gatto veloce scappava. Dopo aver recitato il rosario, quante storie ci raccontava nostro padre. Noi, 3 figli a scala, curiosi, stupiti e affascinati ascoltavamo. Più che favole, i suoi racconti era storie vere, vissute da protagonista. Mala storia di Domenico, conosciuto da tutto il contado, col sopranome di Mingon, l’appresi dal vecchio Poldo ottantenne. Per noi bambini e ragazzotti quell’omone massiccio e simpatico non era un vecchio decrepito, ma un patriarca che conosceva il mondo e ce lo portava in visione a spicchi coi suoi fantastici racconti, che assorbivamo come un nettare, in religioso silenzio. La “sala” dove si esibiva a un pubblico di una ventina di attenti spettatori era la sua stalla. Da due paia di mucche proveniva l’aria condizionata. Ogni tanto, le sue storie venivano disturbate da qualche, “plaf, plaf…, dovuto alle ovvie necessità delle vacche. - Mingon, tutti lo conoscevano per il suo carattere rude e focoso, oltre che per la vita grama da vagabondo che conduceva. Per vivere girava per le aie della campagna, durante la mietitura, la vendemmia, o d’inverno nei giorni dell’uccisione dei maiali. In quelle speciali ricorrenze, immancabile la sua presenza, anche senza invito. Cosi si procurava del buon cibo per sfamarsi. Con la sua inseparabile fisarmonica suonava della antiche melodie e, dopo il primo bicchiere di vino, cantava stornelli come un menestrello. Il suo incedere era claudicante per i postumi di una ferita ad un piede subita al fronte, durante la grande guerra dove, anche lui diciottenne, era stato chiamato a combattere il nemico. Abitava da solo in una stanza a pianterreno di un vecchio stabile alla periferia di Castellaccio, un antico borgo formato da poche case unite l’una all’altra, fatte di pietre locali, arroccato in cima al colle da millenni. Mingon era veramente un uomo solo e molto povero, riscuoteva un piccolo sussidio dal Comune. Tornato dalla guerra, non aveva mai lavorato a causa della sua menomazione, a suo dire, perciò aveva vissuto di espedienti quasi tutta la vita. Per la verità nel 1920 era andato in Francia a cercar fortuna. Ma dopo pochi mesi era tornato deluso e con pochi franchi in tasca. A trent’anni anni aveva conosciuto Filomena, una ragazza di un paese vicino. Era una donna della stessa età, umile, mora e balbuziente. Avevano convissuto solo per qualche anno. Il suo carattere irruento e ribelle non riuscì a raccordarsi con quello mite e sottomesso di lei. Pare inconcepibile, ma Mingon aveva necessità di sfogare la sua rabbia innata, così cercava ogni pretesto per inveire contro l’unica persona che gli stava vicino. Una minestra insipida poteva essere l’innesco di una serie infinita di urli e parolacce nei confronti della povera Filomena, che se ne stava muta, impaurita, a testa china, rannicchiata in un angolo della stanza. Poi, un giorno, tornato a casa da uno dei suoi giri, non trascurando di passare dall’osteria, come era solito fare, trovò il camino spento e la tavola sparecchiata. Come un folle vomitò una sfilza di epiteti irripetibili contro Filomena, arrivando, per la prima volta, a schiaffeggiarla. La lasciò piangente, con le guance livide. Sbattuta la porta, uscì imprecando e inveendo contro di lei e il mondo intero. Quando a sera ritornò ubriaco, Filomena non c’era più. Non la cercò. Seppe poi che era tornata a casa sua e che la loro storia era finita per sempre. Da quel giorno si dedicò solo al vino. Mingon ora era veramente solo, arrabbiato, infelice. Abbandonò in un bosco anche i due cani che da anni l’accompagnavano nel girovagare. La gente del borgo sopportava il suo caratteraccio 4e i suoi anatemi. Cercavano sempre più di evitarlo, specialmente dopo aver saputo dei maltrattamenti inflitti a quella ragazza semplice e mite. Quel mattino, come al solito, Mingon, dopo aver smaltito la sbornia del giorno prima, si alzò verso mezzo giorno, si vestì con i soliti sdruciti abiti, si avvolse in un vecchio tabarro ed uscì dal suo tugurio. Era una giornata umida e fredda. L’osteria, alla parte opposta del borgo, fu la sua prima tappa. Vi trascorse qualche ora, si avvicinò ad un tavolo dove quattro avventori giocavano a carte. Osservò lo svolgimento delle partite senza fiatare. Quando un giocatore se ne andò sedette e chiese ai tre di poter fare una partita a briscola. Chiamò l’oste che gli portasse una bottiglia di sangiovese. Già ai primi giri di mano della partita, Mingon inizio ad imprecare e richiamare il compagno di gioco per errori di carta mal giocata. Persa la partita, inveì e offese il suo compagno, con veemenza gettò le carte sul tavolo e andò a finire di scolarsi la bottiglia ad un altro tavolo. A sera, ritroviamo Mingon nel paese vicino, distante circa due km, nell’osteria “da Nando”. Anche lì, già alticcio, sbraitava con alcuni avventori che a suo dire l’avevano preso in giro dicendogli : “vai a casa Mingon, sei un zoppo, cattivo e ubriaco”. Era verso mezzanotte del 24 dicembre quando alcune donne che andavano alla Messa della natività lo videro uscire dall’osteria zoppicante e traballante che avanzava a stento sulla viuzza: due passi avanti e uno indietro, farfugliando e imprecando, con frasi sconnesse.. Nel prato a fianco la chiesa il parroco del paese aveva allestito un bel presepe con tante statue lignee a grandezza naturale. Le campane suonavano a distesa avvolgendo tutto il paese e chiamando i fedeli per la prima Messa di Natale del 1950. Le pie donne uscivano dalle case. Gli uomini sarebbero andati a quella solenne delle undici. Prima di entrare in chiesa notarono, fra i pastori e le pecore, una specie di grosso fagotto scuro; avvicinandosi videro un uomo supino avvolto in un mantello nero, sembrava che dormisse. Lo toccarono ma non dava segni di vita. Nel frattempo altra gente era sopraggiunta, chiamato il parroco, lo riconobbero. Mingon aveva finito i sui infelici giorni a 50 anni. Il commento bisbigliato fra “la brava gente” accorsa, mentre si faceva il segna della croce “Proprio in mezzo al presepe, mentre Gesù nasceva, doveva morire quel disgraziato di Mingon ! Pace all’anima sua!”

 
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