Un'altra primavera
É arrivata
questa mattina.
La tua
grafia la riconoscerei tra un milione.
È lì, sul
tavolo della cucina, accanto alla ciotola blu di ceramica smaltata.
La ciotola
blu che la settimana scorsa era piena di arance.
Le hai guardate, ricordi, fermo sulla porta e hai detto:
─ Che belle!
Solo
questo. Non hai aggiunto altro. Forse perché hai capito che mi si era stretto
un nodo alla gola. Forse perché sapevi che stavo pensando “chi mi parlerà del
colore delle arance tra qualche mese, chi noterà come squilla contro il blu
della ciotola, tra poco, poco, poco…”
Adesso la
ciotola è vuota.
Non ho
comprato arance, ieri.
Le poche
rimaste erano diventate molli e opache. Le ho buttate via.
Non erano
più belle, le arance.
Sei uscito,
la mattina di lunedì, hai detto “Vado a fare due passi”, hai imbucato quella
lettera, dove? Nella cassetta davanti alla posta, immagino. Non avevamo
francobolli in casa, e la posta è più vicina della tabaccheria.
Più vicina,
sì, ma è comunque un bel pezzo di strada, e le tue gambe non ti permettevano
più di camminare molto. Dovevi essere stanco, sulla via del ritorno.
Forse ti
sei seduto da qualche parte, a riposare.
Forse hai
pensato a quella lettera che mi avevi spedito. Forse ti sei pentito di averlo già
fatto. Forse hai pensato che il ragazzetto con il motorino non arriva mai da noi prima delle dodici e mezza. Che magari
avresti potuto metterti a sedere sotto il portico, verso quell'ora,
questa settimana.
Che avresti
potuto farti consegnare direttamente la posta.
– Lascia,
Matteo (non lo so se si chiama così, ma sono sicura che tu lo sapevi, vi ho
visti chiacchierare, a volte, quando ti trovava fuori a zappettare o a
trapiantare nell'orto, tu sì, sicuramente lo sapevi il nome del ragazzetto che
porta la posta), dà pure a me. Tutto bene? Come è andata domenica, in campo?
Avete vinto, sì? Hai segnato?
Forse,
seduto sulla panchina dei giardini davanti al comune, o su un muretto lungo la
strada, a riprendere fiato, ti sei detto che avresti potuto ritirarla tu,
quella lettera, e piegarla in due, e mettertela in tasca e non darmela mai.
Era una
bella giornata, lunedì. Una giornata sorprendentemente tiepida, non sembrava
nemmeno febbraio. Una promessa.
Forse hai
pensato che avresti potuto godere di un'altra primavera, che le tue ossa
avrebbero retto abbastanza da concederti qualche altra passeggiata. Che ti
avrebbero concesso di star seduto fuori al sole, mentre io trapiantavo nella
bordura davanti al portico le violette che ho seminato nella serra.
Forse ti è venuta
voglia di vivere, di vivere ancora un po', qualche altro mese, anche soltanto
per prendermi in giro anche quest'anno, per dirmi che sono matta.
─ Quante sono Emilia? Quante ne dovrai metter giù questa
volta?
─ Uff! Quante storie. Chiedo
forse a te di piantarle?
─ Parola mia, quest'anno devono essere almeno ottanta!
E ridevi.
La stessa risata di quando mi trovavi a tirar fuori i bulbi, dopo la fioritura.
─ Fossero patate, almeno si
potrebbero mettere al forno, no?
Forse ti
sei messo a ridere, da solo sulla panchina, pensando alla mia faccia quando vengo fuori dalla serra reggendo le mie
cassettine piene di bulbi di tulipani, di narcisi, di giacinti, alla fine
dell'autunno, prima delle gelate. Quando tu mi guardi dal portico, con una
tazza di caffé fumante in mano e non dici niente. Mi
guardi con quel mezzo sorriso e io faccio finta di non saperlo, con le mie
cassette tra le braccia e tu, sempre in silenzio, mi guardi e sorridi finché
non ti mando al diavolo e mi scoppia la ridarella.
Ti vedo che
ridi da solo, lunedì.
Cosa hai
pensato, invece, che ti ha fatto rimettere in marcia? Che ti ha fatto passare
in mezzo agli ulivi, quando sei arrivato in vista della nostra casa, che ti ha
fatto andare dritto al capanno?
Che ti ha
fatto tirare fuori quella corda robusta che a me sembra di non avere mai visto
prima, che mi è sembrata così nuova, quando me l'hanno fatta vedere. Cos'è che
ti ha fatto pensare che avevi il diritto di andartene via così, senza chiedere,
dopo quasi quarant'anni?
Cos'è che
hai immaginato, cos'è che hai visto, che ti ha fatto desiderare di lasciarmi
proprio lunedì? Un lunedì radioso, un lunedì di febbraio che sembrava aprile.
E cosa
dovrei fare io adesso, con questa lettera sul tavolo? Davanti a questa ciotola
blu orfana di arance, seduta al tavolo dove abbiamo cenato assieme per quasi quarant'anni? Dove sta, nelle mie dita, la forza per
aprirla?
É arrivata
che era quasi l'una meno un quarto.
Il ragazzo
mi ha vista fuori, seduta sotto al portico sulla tua poltrona, e me l'ha
portata.
Ha spento
il motorino, è sceso, si è levato il casco e mi ha portato la tua lettera.
E mentre io
restavo impietrita a fissare il mio nome vergato nella tua bella grafia – ma lui non poteva saperlo che era la tua – lui mi
parlava, a bassa voce.
─ Mi è dispiaciuto per suo marito, signora Ravelli. Le faccio le mie condoglianze. Era uno davvero in
gamba, il signor Piero.
In gamba,
ha detto, sì. Sapeva anche il tuo nome. Io per lui sono la signora Ravelli, ma tu eri il signor Piero.
E ora cosa
mi hai scritto, prima di andartene, signor Piero? Piero mio, cosa mi hai
scritto, dentro questa lettera che non trovo il coraggio di aprire?
E il sole è
già tramontato. Per poter leggere dovrei accendere la luce.
L'ho
accesa, ma ancora non ce la faccio.
Brutto
testone, come diavolo ti è venuto in mente di mandarmi una lettera, il giorno
che ti sei ammazzato?
Strappo la
busta.
Dentro c'è
un foglio soltanto, bianco, sottile, rubato alla mia carta da lettera.
Lo apro. In
mezzo, hai scritto una riga appena.
Quante saranno Emilia? Parola mia, quest'anno
devono essere almeno cento!