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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Un'altra primavera, di Sabrina Campolongo 14/06/2007
 

Un'altra primavera

 

 

É arrivata questa mattina.

La tua grafia la riconoscerei tra un milione.

È lì, sul tavolo della cucina, accanto alla ciotola blu di ceramica smaltata.

La ciotola blu che la settimana scorsa era piena di arance.

Le hai guardate, ricordi, fermo sulla porta e hai detto:

Che belle!

Solo questo. Non hai aggiunto altro. Forse perché hai capito che mi si era stretto un nodo alla gola. Forse perché sapevi che stavo pensando “chi mi parlerà del colore delle arance tra qualche mese, chi noterà come squilla contro il blu della ciotola, tra poco, poco, poco…”

Adesso la ciotola è vuota.

Non ho comprato arance, ieri.

Le poche rimaste erano diventate molli e opache. Le ho buttate via.

Non erano più belle, le arance.

Sei uscito, la mattina di lunedì, hai detto “Vado a fare due passi”, hai imbucato quella lettera, dove? Nella cassetta davanti alla posta, immagino. Non avevamo francobolli in casa, e la posta è più vicina della tabaccheria.

Più vicina, sì, ma è comunque un bel pezzo di strada, e le tue gambe non ti permettevano più di camminare molto. Dovevi essere stanco, sulla via del ritorno.

Forse ti sei seduto da qualche parte, a riposare.

Forse hai pensato a quella lettera che mi avevi spedito. Forse ti sei pentito di averlo già fatto. Forse hai pensato che il ragazzetto con il motorino non arriva mai da noi prima delle dodici e mezza. Che magari avresti potuto metterti a sedere sotto il portico, verso quell'ora, questa settimana.

Che avresti potuto farti consegnare direttamente la posta.

– Lascia, Matteo (non lo so se si chiama così, ma sono sicura che tu lo sapevi, vi ho visti chiacchierare, a volte, quando ti trovava fuori a zappettare o a trapiantare nell'orto, tu sì, sicuramente lo sapevi il nome del ragazzetto che porta la posta), dà pure a me. Tutto bene? Come è andata domenica, in campo? Avete vinto, sì? Hai segnato?

 

Forse, seduto sulla panchina dei giardini davanti al comune, o su un muretto lungo la strada, a riprendere fiato, ti sei detto che avresti potuto ritirarla tu, quella lettera, e piegarla in due, e mettertela in tasca e non darmela mai.

Era una bella giornata, lunedì. Una giornata sorprendentemente tiepida, non sembrava nemmeno febbraio. Una promessa.

Forse hai pensato che avresti potuto godere di un'altra primavera, che le tue ossa avrebbero retto abbastanza da concederti qualche altra passeggiata. Che ti avrebbero concesso di star seduto fuori al sole, mentre io trapiantavo nella bordura davanti al portico le violette che ho seminato nella serra.

Forse ti è venuta voglia di vivere, di vivere ancora un po', qualche altro mese, anche soltanto per prendermi in giro anche quest'anno, per dirmi che sono matta.

Quante sono Emilia? Quante ne dovrai metter giù questa volta?

Uff! Quante storie. Chiedo forse a te di piantarle?

Parola mia, quest'anno devono essere almeno ottanta!

E ridevi. La stessa risata di quando mi trovavi a tirar fuori i bulbi, dopo la fioritura.

Fossero patate, almeno si potrebbero mettere al forno, no?

Forse ti sei messo a ridere, da solo sulla panchina, pensando alla mia faccia quando vengo fuori dalla serra reggendo le mie cassettine piene di bulbi di tulipani, di narcisi, di giacinti, alla fine dell'autunno, prima delle gelate. Quando tu mi guardi dal portico, con una tazza di caffé fumante in mano e non dici niente. Mi guardi con quel mezzo sorriso e io faccio finta di non saperlo, con le mie cassette tra le braccia e tu, sempre in silenzio, mi guardi e sorridi finché non ti mando al diavolo e mi scoppia la ridarella.

Ti vedo che ridi da solo, lunedì.

Cosa hai pensato, invece, che ti ha fatto rimettere in marcia? Che ti ha fatto passare in mezzo agli ulivi, quando sei arrivato in vista della nostra casa, che ti ha fatto andare dritto al capanno?

Che ti ha fatto tirare fuori quella corda robusta che a me sembra di non avere mai visto prima, che mi è sembrata così nuova, quando me l'hanno fatta vedere. Cos'è che ti ha fatto pensare che avevi il diritto di andartene via così, senza chiedere, dopo quasi quarant'anni?

Cos'è che hai immaginato, cos'è che hai visto, che ti ha fatto desiderare di lasciarmi proprio lunedì? Un lunedì radioso, un lunedì di febbraio che sembrava aprile.

E cosa dovrei fare io adesso, con questa lettera sul tavolo? Davanti a questa ciotola blu orfana di arance, seduta al tavolo dove abbiamo cenato assieme per quasi quarant'anni? Dove sta, nelle mie dita, la forza per aprirla?

É arrivata che era quasi l'una meno un quarto.

Il ragazzo mi ha vista fuori, seduta sotto al portico sulla tua poltrona, e me l'ha portata.

Ha spento il motorino, è sceso, si è levato il casco e mi ha portato la tua lettera.

E mentre io restavo impietrita a fissare il mio nome vergato nella tua bella grafia – ma lui non poteva saperlo che era la tua – lui mi parlava, a bassa voce.

Mi è dispiaciuto per suo marito, signora Ravelli. Le faccio le mie condoglianze. Era uno davvero in gamba, il signor Piero.

In gamba, ha detto, sì. Sapeva anche il tuo nome. Io per lui sono la signora Ravelli, ma tu eri il signor Piero.

E ora cosa mi hai scritto, prima di andartene, signor Piero? Piero mio, cosa mi hai scritto, dentro questa lettera che non trovo il coraggio di aprire?

E il sole è già tramontato. Per poter leggere dovrei accendere la luce.

L'ho accesa, ma ancora non ce la faccio.

Brutto testone, come diavolo ti è venuto in mente di mandarmi una lettera, il giorno che ti sei ammazzato?

Strappo la busta.

Dentro c'è un foglio soltanto, bianco, sottile, rubato alla mia carta da lettera.

Lo apro. In mezzo, hai scritto una riga appena.

 

Quante saranno Emilia? Parola mia, quest'anno devono essere almeno cento!

 

 

 
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