LA VOCE DEL VECCHIO ALBERO
“E così
il vecchio albero sulla collina è stato abbattuto?”
“Sì,
all'incirca un mese fa, ormai era diventato instabile, stava morendo, troppe
malattie, troppo vecchio, troppo stanco…”
Questa
frase pronunciata dalla nonna gli dette da pensare e Luigi ebbe modo di volgere
gli occhi della mente a ritroso…
Erano
molti anni che non andava alla fattoria dei nonni. Neanche lui conosceva il
motivo, così come non sapeva perché proprio quest'anno invece c'era tornato. Da
bambino trascorreva là i lunghi mesi estivi, correndo nei grandi spazi sotto un
sole torrido che non dava tregua. Ma si sa che i bambini non guardano certe
cose; il loro interesse è per ciò che li circonda e per quel che vedono e
toccano nell'immediato. Se faceva troppo caldo il torrente era a poche decine
di metri e Luigi si tuffava senza gridare, talvolta vestito, con la nonna che
lo cercava di continuo sempre timorosa che potesse accadere chissà che cosa. A
volte seguiva il nonno nel lavoro dei campi; lo guardava mietere il grano con
la falce, annaffiare, cogliere i pomodori, i peperoni. Spesso però si annoiava
e per questo preferiva fare le corse con Fresbee, un
cane lupo grande come lui che lo proteggeva da ogni pericolo. Insieme correvano
ovunque potevano, per i viottoli, sulle colline, nei
fossi a lato della strada, nascondendosi dietro ogni cipresso che sembrava
guardarli come immobile testimone di tanta spensieratezza. Ogni tanto quando ne
aveva voglia coglieva qualche pesca o qualche susina da quegli alberi con i
rami piegati dal peso dei frutti quasi fino a terra.
Ma il
ricordo più bello era il vecchio olmo che si ergeva infinito e solitario sulla
sommità del colle che dominava la fattoria. La prima volta che lo notò aveva
cinque anni; gli apparve dalla finestra della sua camera un po' indistinto
nella foschia di un mattino che preannunciava una giornata rovente. Così decise
di andare a vedere con Fresbee abbaiante e festoso al
seguito.
“Fresbee! Dai aspettami!” gridò Luigi.
Ma il
cane arrivò prima saltellando e correndo attorno all'albero. Era già molto
vecchio allora. Nessuno sa quanti anni portava nelle sue venature, tacito
osservatore di chissà quali eventi; impossibile immaginare tutta la storia
trascorsa al cospetto delle sue foglie, dei rami nodosi protesi verso il cielo
e intrecciati fra loro, rifugio da sempre di scoiattoli, di uccelli di ogni
specie, e anche del gufo che abitava il cavo del tronco e che molte notti
teneva sveglio Luigi con il suo verso lugubre e monotono.
Si avvicinò
con il fiatone mentre un gruppetto di passerotti
spiccò il volo; l'ombra della chioma frondosa era sconfinata e Luigi trovò un po di refrigerio sdraiandosi sul prato vicino al tronco.
Nella sua innocente curiosità di bimbo allungò una mano per carezzarlo, ma
avvertì una scossa, una vibrazione, quasi il ritrarsi di un essere vivente che ha qualcosa da dire. Sembrava il fluire delle epoche e del
tempo che scorrono vorticosi e impazienti di essere
uditi. Quella creatura arborea ne era intrisa dalle radici fino al più alto dei
rami che terminava con le singole appendici verdi dal margine seghettato mosse
dalla calda brezza dell'estate.
La
giornata trascorreva rapida, però Luigi sembrava non rendersene conto; forse
perché in quel momento era felice. Il temporale estivo che lo colse gli fece
venire la febbre e il mal di gola, ma Luigi provava
quasi un certo piacere nello stare malato perché la nonna gli raccontava fiabe,
storie e leggende che avevano luogo in un'atmosfera talmente magica da far
avverare le narrazioni e le profezie.
Quella
volta toccò al richiamo degli alberi.
“Ogni
pianta ha la sua voce. Non dimenticarlo, per alcun motivo” gli sussurrò la
nonna. “I gerani del balcone, il grano maturo, le rose del vialetto, ma…”
rimase un attimo in silenzio lasciando il discorso sospeso.
Gli occhi
di Luigi erano spalancati e vispi nell'attesa.
La nonna
riprese: “ma… la più bella è di gran lunga quella
degli alberi, dei cipressi, dei pini, dei castagni, dell'olmo, degli alberi
tutti… sono saggi, piccolo mio; ci osservano sempre… e sanno…”
“Nonna,
io però non sento mai niente” ribatté Luigi.
“Non
senti perché non sai ascoltare” disse la nonna.
La nonna
accompagnava le parole con il gesticolare delle mani.
“Quando sarai guarito vai sotto uno di loro, appoggia l'orecchio al
tronco e aspetta; sentirai una voce, dolce come acqua che sgorga, zampillare
attraverso il legno vivo. Poi, un giorno in cui c'è vento, ascolta ciò che ti
porta; sono ancora gli alberi che ci sussurrano e ci vorrebbero aiutare, ma non
possono più…”
“Perché,
nonna?” chiese Luigi.
“Il mondo
oggi ha perso le chiavi; le chiavi della loro comprensione” disse la nonna.
“Va bene,
la prossima volta proverò” annuì Luigi, pensando però che non aveva capito
molto del discorso della nonna anche se, vista la strana
sensazione provata la mattina, sapeva che diceva il vero.
“Ora
dormi” disse con voce premurosa la nonna che gli aveva rimboccato il lenzuolo
di lino, dandogli un bacio sulla fronte.
Adesso,
però, se ne rammentava, e le parole della nonna gli riecheggiavano in mente.
Tornò sul colle e accostò la testa al tronco per ascoltare; sentì piccoli
rumori, lo scricchiolio del legno, il distaccarsi della corteccia logora, il
frinire della cicala nascosta fra le pieghe della scorza. Quant'era
bello e rilassante, com'era dolce e armoniosa quella voce. Fresca e pulita
nella soffocante calura del sole inclemente. Fresbee
intorno continuava a saltellare, abbaiava, sembrava esserne partecipe anche
lui. Il vento caldo si infilava tra i peli del cane, fra le fronde e i rami,
nei capelli di Luigi, tutto rapito nella serena novità. Ed era tornato più
volte, da quel giorno. E ascoltava i racconti del vecchio olmo, lo sentiva
parlare di draghi e principesse, di eserciti e cavalieri, di guerre e ostilità,
di maghi e menestrelli, di giullari e verità taciute. Fresbee
aveva la lingua penzolante, felice della frescura del luogo, e Luigi gli
narrava quello che sentiva dall'albero. Fresbee lo
ascoltava volentieri, ma non aveva bisogno di imparare il linguaggio degli
alberi, perché in quanto animale lo conosceva da sempre.
A Luigi
sembrava bellissimo; eppure la magia dell'albero non durò. Gli anni si
sommarono uno all'altro e portarono con sé nuovi bisogni e interessi; il
ragazzo smise di andare lassù e ormai da tempo l'albero più non gli parlava.
Forse era diventato davvero troppo vecchio. Forse era Luigi che aveva perso le
chiavi della comprensione. Luigi stesso era arrivato al punto di credere che se
lo era sempre sognato, che fosse tutto da imputare
alla fervida fantasia dei bambini e alla persuasione delle parole della nonna.
Lui adesso era adolescente e preferiva ricercare beatitudini di tutt'altro tipo. Sembrò dimenticarsi dell'olmo e della
collina. Fresbee poteva anche passare le mattinate ad
abbaiargli contro volgendosi verso il colle, ma Luigi
non lo ascoltava.
Smise per
un po' di trascorrere l'estate alla fattoria dai nonni.
La prima
mattina che era tornato dopo tanti anni aprì la finestra della camera e lo sguardo
incrociò il colle che, privo della vecchia pianta, sembrava orfano, indifeso,
martoriato, un trono senza re. Quella visione gli suscitò curiosità, e forse
rabbia, che si tramutò in desiderio incontenibile di tornare lassù un'ultima
volta. Una leggera brezza gli ondulava i capelli.
Beep Beep. Il cellulare. Un nuovo messaggio. Francesca.
Luigi lo lesse. “Amore, quando torni chiamami, un bacio, ciao”. Lo spense.
Fresbee era morto alcuni anni prima. Stava salendo da
solo. Senza fretta. Assaporando l'aria e l'odore campestre, il profumo del
grano tagliato e il vento nel viso.
Ecco,
adesso era in cima. Mancava l'ombra grande e protettiva; l'aria era afosa e
insopportabile. Si avvicinò al luogo in cui, un tempo, l'antico albero
affondava nel suolo le proprie radici, dove la vetusta pianta ancorava se
stessa all'atavico suolo, da quando, anni, decenni,
secoli prima, un minuscolo seme era stato portato dal vento o da chissacchì e lì aveva trovato vita e sostentamento. Adesso ciò che rimaneva della base del tronco stava marcendo; il
muschio aveva ricoperto quel legno antico; i vermi lo avevano trovato e ne
violentavano il cadavere.
Luigi si
sdraiò come quando era piccolo, appoggiandosi sui gomiti. Chiuse lentamente gli
occhi. Respirava i propri ricordi. Pensava alla propria esistenza, a ciò che
era diventato, a ciò che lo distaccava da quel ragazzino di cinque anni che
immaginava storie di draghi che custodivano tesori e duellavano con i cavalieri
in antichi trascorsi. Pensava a ogni giorno che era stato
quassù a contemplare il paesaggio agreste, sfondo di ogni illusoria avventura.
Pensava ai motivi che lo avevano portato via da là, senza trovarne neache uno valido.
“Arf, bau!”
“Fresbee?!?!”
Si volse
verso il basso; guardò intorno. Qualcuno stava arrampicandosi per il colle.
“Dai,
fermati, aspettami!” la voce di un bambino… un bambino? …eppure aveva qualcosa
di… un che di… di familiare come se… come se…
“Fresbee! Dai aspettami!”
Luigi
sbarrò gli occhi… “Non è possibile…!!! Non ha
senso…!!! Non…”
Pensò a
una coincidenza, a un altro cane con lo stesso nome, ma era tutto così irreale
eppure così tangibile.
Senza
rendersene conto avvertì il frinire della cicala nascosta fra le rughe della
corteccia, e vide il gufo che tornava a nascondersi nel cavo del tronco, e gli
scoiattoli che correvano sui rami, e l'ombra dell'albero che oscurò il sole, e
il vento fra le fronde, agitandole, lasciava volar via i passeri.
Era lì.
In tutta la sua maestosa presenza l'olmo era lì. E pure lui era lì, ancora.
Ancora una volta. Meravigliato. Felice. Forse timoroso. Senz'altro appagato. Le
lacrime agli occhi. Il groppo in gola. Le parole soffocate. La voglia di
gridare.
Ma
stavolta sapeva perfettamente cosa fare. Si avvicinò al tronco. Chiuse gli
occhi. Accostò le orecchie.
Attese.
Il canto
dell'olmo iniziò.