Area riservata

Ricerca  
 
Siti amici  
 
Cookies Policy  
 
Diritti d'autore  
 
Biografia  
 
Canti celtici  
 
Il cerchio infinito  
 
News  
 
Bell'Italia  
 
Poesie  
 
Racconti  
 
Scritti di altri autori  
 
Editoriali  
 
Recensioni  
 
Letteratura  
 
Freschi di stampa  
 
Intervista all'autore  
 
Libri e interviste  
 
Il mondo dell'editoria  
 
Fotografie  
 
 
  Poesie  Narrativa  Poesie in vernacolo  Narrativa in vernacolo  I maestri della poesia  Poesie di Natale  Racconti di Natale 

  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  La voce del vecchio albero, di Fabrizio Manini 14/06/2007
 

LA VOCE DEL VECCHIO ALBERO

 

 

“E così il vecchio albero sulla collina è stato abbattuto?”

“Sì, all'incirca un mese fa, ormai era diventato instabile, stava morendo, troppe malattie, troppo vecchio, troppo stanco…”

Questa frase pronunciata dalla nonna gli dette da pensare e Luigi ebbe modo di volgere gli occhi della mente a ritroso…

Erano molti anni che non andava alla fattoria dei nonni. Neanche lui conosceva il motivo, così come non sapeva perché proprio quest'anno invece c'era tornato. Da bambino trascorreva là i lunghi mesi estivi, correndo nei grandi spazi sotto un sole torrido che non dava tregua. Ma si sa che i bambini non guardano certe cose; il loro interesse è per ciò che li circonda e per quel che vedono e toccano nell'immediato. Se faceva troppo caldo il torrente era a poche decine di metri e Luigi si tuffava senza gridare, talvolta vestito, con la nonna che lo cercava di continuo sempre timorosa che potesse accadere chissà che cosa. A volte seguiva il nonno nel lavoro dei campi; lo guardava mietere il grano con la falce, annaffiare, cogliere i pomodori, i peperoni. Spesso però si annoiava e per questo preferiva fare le corse con Fresbee, un cane lupo grande come lui che lo proteggeva da ogni pericolo. Insieme correvano ovunque potevano, per i viottoli, sulle colline, nei fossi a lato della strada, nascondendosi dietro ogni cipresso che sembrava guardarli come immobile testimone di tanta spensieratezza. Ogni tanto quando ne aveva voglia coglieva qualche pesca o qualche susina da quegli alberi con i rami piegati dal peso dei frutti quasi fino a terra.

Ma il ricordo più bello era il vecchio olmo che si ergeva infinito e solitario sulla sommità del colle che dominava la fattoria. La prima volta che lo notò aveva cinque anni; gli apparve dalla finestra della sua camera un po' indistinto nella foschia di un mattino che preannunciava una giornata rovente. Così decise di andare a vedere con Fresbee abbaiante e festoso al seguito.

Fresbee! Dai aspettami!” gridò Luigi.

Ma il cane arrivò prima saltellando e correndo attorno all'albero. Era già molto vecchio allora. Nessuno sa quanti anni portava nelle sue venature, tacito osservatore di chissà quali eventi; impossibile immaginare tutta la storia trascorsa al cospetto delle sue foglie, dei rami nodosi protesi verso il cielo e intrecciati fra loro, rifugio da sempre di scoiattoli, di uccelli di ogni specie, e anche del gufo che abitava il cavo del tronco e che molte notti teneva sveglio Luigi con il suo verso lugubre e monotono.

Si avvicinò con il fiatone mentre un gruppetto di passerotti spiccò il volo; l'ombra della chioma frondosa era sconfinata e Luigi trovò un po di refrigerio sdraiandosi sul prato vicino al tronco. Nella sua innocente curiosità di bimbo allungò una mano per carezzarlo, ma avvertì una scossa, una vibrazione, quasi il ritrarsi di un essere vivente che ha qualcosa da dire. Sembrava il fluire delle epoche e del tempo che scorrono vorticosi e impazienti di essere uditi. Quella creatura arborea ne era intrisa dalle radici fino al più alto dei rami che terminava con le singole appendici verdi dal margine seghettato mosse dalla calda brezza dell'estate.

La giornata trascorreva rapida, però Luigi sembrava non rendersene conto; forse perché in quel momento era felice. Il temporale estivo che lo colse gli fece venire la febbre e il mal di gola, ma Luigi provava quasi un certo piacere nello stare malato perché la nonna gli raccontava fiabe, storie e leggende che avevano luogo in un'atmosfera talmente magica da far avverare le narrazioni e le profezie.

Quella volta toccò al richiamo degli alberi.

“Ogni pianta ha la sua voce. Non dimenticarlo, per alcun motivo” gli sussurrò la nonna. “I gerani del balcone, il grano maturo, le rose del vialetto, ma…” rimase un attimo in silenzio lasciando il discorso sospeso.

Gli occhi di Luigi erano spalancati e vispi nell'attesa.

La nonna riprese: “ma… la più bella è di gran lunga quella degli alberi, dei cipressi, dei pini, dei castagni, dell'olmo, degli alberi tutti… sono saggi, piccolo mio; ci osservano sempre… e sanno…”

“Nonna, io però non sento mai niente” ribatté Luigi.

“Non senti perché non sai ascoltare” disse la nonna.

La nonna accompagnava le parole con il gesticolare delle mani.

“Quando sarai guarito vai sotto uno di loro, appoggia l'orecchio al tronco e aspetta; sentirai una voce, dolce come acqua che sgorga, zampillare attraverso il legno vivo. Poi, un giorno in cui c'è vento, ascolta ciò che ti porta; sono ancora gli alberi che ci sussurrano e ci vorrebbero aiutare, ma non possono più…”

“Perché, nonna?” chiese Luigi.

“Il mondo oggi ha perso le chiavi; le chiavi della loro comprensione” disse la nonna.

“Va bene, la prossima volta proverò” annuì Luigi, pensando però che non aveva capito molto del discorso della nonna anche se, vista la strana sensazione provata la mattina, sapeva che diceva il vero.

“Ora dormi” disse con voce premurosa la nonna che gli aveva rimboccato il lenzuolo di lino, dandogli un bacio sulla fronte.

Adesso, però, se ne rammentava, e le parole della nonna gli riecheggiavano in mente. Tornò sul colle e accostò la testa al tronco per ascoltare; sentì piccoli rumori, lo scricchiolio del legno, il distaccarsi della corteccia logora, il frinire della cicala nascosta fra le pieghe della scorza. Quant'era bello e rilassante, com'era dolce e armoniosa quella voce. Fresca e pulita nella soffocante calura del sole inclemente. Fresbee intorno continuava a saltellare, abbaiava, sembrava esserne partecipe anche lui. Il vento caldo si infilava tra i peli del cane, fra le fronde e i rami, nei capelli di Luigi, tutto rapito nella serena novità. Ed era tornato più volte, da quel giorno. E ascoltava i racconti del vecchio olmo, lo sentiva parlare di draghi e principesse, di eserciti e cavalieri, di guerre e ostilità, di maghi e menestrelli, di giullari e verità taciute. Fresbee aveva la lingua penzolante, felice della frescura del luogo, e Luigi gli narrava quello che sentiva dall'albero. Fresbee lo ascoltava volentieri, ma non aveva bisogno di imparare il linguaggio degli alberi, perché in quanto animale lo conosceva da sempre.

A Luigi sembrava bellissimo; eppure la magia dell'albero non durò. Gli anni si sommarono uno all'altro e portarono con sé nuovi bisogni e interessi; il ragazzo smise di andare lassù e ormai da tempo l'albero più non gli parlava. Forse era diventato davvero troppo vecchio. Forse era Luigi che aveva perso le chiavi della comprensione. Luigi stesso era arrivato al punto di credere che se lo era sempre sognato, che fosse tutto da imputare alla fervida fantasia dei bambini e alla persuasione delle parole della nonna. Lui adesso era adolescente e preferiva ricercare beatitudini di tutt'altro tipo. Sembrò dimenticarsi dell'olmo e della collina. Fresbee poteva anche passare le mattinate ad abbaiargli contro volgendosi verso il colle, ma Luigi non lo ascoltava.

Smise per un po' di trascorrere l'estate alla fattoria dai nonni.

 

La prima mattina che era tornato dopo tanti anni aprì la finestra della camera e lo sguardo incrociò il colle che, privo della vecchia pianta, sembrava orfano, indifeso, martoriato, un trono senza re. Quella visione gli suscitò curiosità, e forse rabbia, che si tramutò in desiderio incontenibile di tornare lassù un'ultima volta. Una leggera brezza gli ondulava i capelli.

Beep Beep. Il cellulare. Un nuovo messaggio. Francesca. Luigi lo lesse. “Amore, quando torni chiamami, un bacio, ciao”. Lo spense.

Fresbee era morto alcuni anni prima. Stava salendo da solo. Senza fretta. Assaporando l'aria e l'odore campestre, il profumo del grano tagliato e il vento nel viso.

Ecco, adesso era in cima. Mancava l'ombra grande e protettiva; l'aria era afosa e insopportabile. Si avvicinò al luogo in cui, un tempo, l'antico albero affondava nel suolo le proprie radici, dove la vetusta pianta ancorava se stessa all'atavico suolo, da quando, anni, decenni, secoli prima, un minuscolo seme era stato portato dal vento o da chissacchì e lì aveva trovato vita e sostentamento. Adesso ciò che rimaneva della base del tronco stava marcendo; il muschio aveva ricoperto quel legno antico; i vermi lo avevano trovato e ne violentavano il cadavere.

Luigi si sdraiò come quando era piccolo, appoggiandosi sui gomiti. Chiuse lentamente gli occhi. Respirava i propri ricordi. Pensava alla propria esistenza, a ciò che era diventato, a ciò che lo distaccava da quel ragazzino di cinque anni che immaginava storie di draghi che custodivano tesori e duellavano con i cavalieri in antichi trascorsi. Pensava a ogni giorno che era stato quassù a contemplare il paesaggio agreste, sfondo di ogni illusoria avventura. Pensava ai motivi che lo avevano portato via da là, senza trovarne neache uno valido.

Arf, bau!

 Fresbee?!?!

Si volse verso il basso; guardò intorno. Qualcuno stava arrampicandosi per il colle.

“Dai, fermati, aspettami!” la voce di un bambino… un bambino? …eppure aveva qualcosa di… un che di… di familiare come se… come se…

Fresbee! Dai aspettami!”

Luigi sbarrò gli occhi… “Non è possibile…!!! Non ha senso…!!! Non…”

Pensò a una coincidenza, a un altro cane con lo stesso nome, ma era tutto così irreale eppure così tangibile.

Senza rendersene conto avvertì il frinire della cicala nascosta fra le rughe della corteccia, e vide il gufo che tornava a nascondersi nel cavo del tronco, e gli scoiattoli che correvano sui rami, e l'ombra dell'albero che oscurò il sole, e il vento fra le fronde, agitandole, lasciava volar via i passeri.

Era lì. In tutta la sua maestosa presenza l'olmo era lì. E pure lui era lì, ancora. Ancora una volta. Meravigliato. Felice. Forse timoroso. Senz'altro appagato. Le lacrime agli occhi. Il groppo in gola. Le parole soffocate. La voglia di gridare.

Ma stavolta sapeva perfettamente cosa fare. Si avvicinò al tronco. Chiuse gli occhi. Accostò le orecchie.

Attese.

Il canto dell'olmo iniziò.

 

 
©2006 ArteInsieme, « 014087337 »