Il sogno
Al professor De Michele per un
momento sembrò di vedere tutto, di potere afferrare tutto prima che la solita
cortina di nebbia gli attanagliasse i pensieri. Poi quel
tutto divenne nuovamente confuso, mimetizzandosi, oltre la vetrata, con le nuvole
basse che avevano anticipato la sera.
Ogni volta che gli succedeva, il
professore serrava gli occhi nuotando disperato tra le immagini retiniche, nel
vano tentativo di richiamare quell'attimo di
onnipotenza.
Quella sera l'assistente lo trovò seduto
alla scrivania, quasi al buio, il mento sorretto da una mano tremante che gli avvolgeva
la bocca, pollice
ed indice divaricati a sigillare le palpebre.
- “Professore?” - tossicchiò
avvicinandosi. De Michele teneva ancora gli occhi chiusi ma
aveva sollevato il mento, succhiando rumorosamente l'aria stantia della stanza.
- “Professore, mi scusi... c'è ancora
quel Bironci... Ma la vedo stanco,
professore. Posso sbrigarmelo io, se vuole.”
- “Bironci…
Bironci…” - De Michele aprì gli occhi su quel giovane
barbuto, pedante. Non gli piaceva il dottor Fabio Vanzi.
Troppa barba. Troppo serio, appesantito. Una testa grossa, piena di chissà
quali concrete realtà immaginate. Eppure, con tutte quelle realtà pesanti in
corpo, qualche volta riusciva persino a sorridere. Sorrisi voluti che
macinavano realtà. Mi vedi stanco, eh, professorino? Sono stanco. Tu non sai
quanto sono stanco. Se mi osservi bene potrai persino indovinare
il giorno in cui prenderai il mio posto.
Da un po' di tempo non gli piaceva nessuno,
nell'Istituto, neppure gli assistenti che si era scelto. Non gli piaceva
l'intero Dipartimento di Fisica. Non gli piacevano le tesi che lui stesso
elaborava ed assegnava ai laureandi. Quel Bironci...
simmetria delle particelle elementari: tesi stupida. Un
altro fascicolo. Sarà quasi completamente copiato da una serie di miei vecchi
articoli, pensò. Chissà cosa dirà ancora sulle oscillazioni dei neutrini massivi? Cosa avrà estrapolato quella piccola mente in
merito alla materia oscura?
- “Ah, sì: Bironci…
Bironci...” – farfugliò - “Ha seguito il suo lavoro?”
– La testa barbuta del dottor Vanzi oscillò un poco
ed un sorriso d'assenso si indovinò sotto la barba e nei suoi occhi scuri.
Commovente dedizione da leccaculo – pensò De Michele
- pensaci tu al Bironci, macinate assieme le vostre
realtà. – “Bene, faccia pure” – proseguì - “e non si preoccupi troppo per me,
caro Fabio. Non sono stanco. Solo gli occhi...”
Stanco?, si
disse scendendo lo scalone, appoggiandosi alla larga ringhiera di marmo mentre i
busti e gli occhi vuoti dei personaggi appollaiati sopra i piedistalli lo
infastidivano con la loro immortalità di pietra. Quelle pupille incise, fatte
di una realtà dura, solo un poco scurita dal tempo, sembrava
scrutassero il suo incedere oscillante, i suoi timori, i suoi sogni. La sua
stanchezza.
In strada le luci lo colpirono con
violenza: bianchi spezzati e rifratti dalle vetrine,
blu e verdi delle insegne, gialli e rossi ammiccanti dalle auto. Quei fotoni
pulsanti volevano insinuarsi nel suo cervello per memorizzare qualcosa.
Bisognava pensare, intensamente, con
cautela. Con metodo. Una cosa alla volta. Autobus quattro... quattrocentoventicinque.
Penultima fermata. La gente sarebbe quasi tutta scesa prima. Corso Buonarroti. Bella periferia. Anche il capolinea andava
bene: avrebbe fatto un tratto a piedi a ritroso. Pensare a
casa: tutto diventava più facile a casa: gesti ripetuti, parole solite,
stanchezza comprensibile ed accettata da una governante straniera e molto disattenta.
Poteva ancora mentire.
Pensare, pensare intensamente: una
cosa alla volta. A sua moglie Ivana, ad esempio. Ecco: doveva pensare al suo viso.
Era bello quel viso. Stasera l'avrebbe ricostruito aiutandosi con le foto
sparse per casa. E c'era dell'altro, tanto altro da ricordare, anche se oggi,
dopo dieci anni, la povera Ivana è diventata quasi solo un nome ed un viso di
carta. E Luigi? Quando è stata l'ultima volta che aveva visto Luigi? Luigi,
Luigi... Doveva focalizzarlo bene. Alto, magro, il
viso… Tendeva a dimenticare il viso quasi non fosse quello di suo figlio ma appartenesse ad una realtà lontana, effimera come
le strisce rosse delle luci delle auto sull'asfalto. Sì, doveva pensare con
metodo: una cosa alla volta.
Da due mesi prendeva le pillole. Le
teneva nascoste in un cassetto della scrivania, in Istituto. Fingeva di
scrivere roba nuova, copiava brani dei suoi vecchi articoli e li archiviava
sopra le pillole. Pasticche bianchiccie, patetiche,
buone per restare sveglio un paio d'ore, quel tanto da consentirgli di ripetere
le sue scarne lezioni ed i soliti commenti ai diagrammi disegnati dagli
assistenti. Roba vecchia: il Dipartimento accetta ancora roba rimasticata da
chi una volta è stato in contatto diretto con la Scuola di Copenaghen. Per
quanto tempo ancora?
Autobus quattro due cinque, penultima
fermata. L'effetto della medicina tende a diminuire. Ancora un paio d'ore prima
della nebbia. Adesso la nebbia s'alza dal fumo che esce dalle marmitte delle
auto. Automobili ferme al semaforo: passare sulle strisce. Autobus quattro due
cinque. O cinque due quattro? La fermata è quella. Sì, è quella. C'è un mucchio
di gente. Chiederò. Dirò: per Corso… Quel Corso... ha un nome lungo, quel
Corso... la mia è la penultima fermata, ma va bene anche il capolinea facendo
un pezzo a piedi.
Quattro due cinque: arriva un autobus
giallo, enorme. Un autobus semivuoto per il professor De Michele.
Il piccolo medico che lo ha in cura lo chiama di rado professore. Solo quando lo accoglie in
studio e deve alzare lo sguardo sulla sua figura imponente. Non ripete il
titolo, da seduto, scrivendo la ricetta. Lo fissa al di là
della scrivania: De Michele conosce quello sguardo: esame andato male.
Io dicevo ai ragazzi: riprenda il libretto, riprovi nella prossima sessione.
Non le voglio rovinare la media. Lui è basso, gracile, un filo di medico: non
mi da la stessa opportunità.
Il professor De Michele siede al
centro dell'autobus, vede salire ancora gente. Un giovane in jeans e maglietta
lo fissa e distoglie subito lo sguardo. Non è poi tanto giovane. Avrà l'età di mio
figlio. Gli jeans sono zeppi di cinghie e borchie, vuol sembrare più giovane. Chissà
come veste Luigi. Ho intravisto qualcosa in quegli occhi. Forse si è accorto
del mio stato. Pietà?
Il professore gira lo sguardo dal finestrino,
l'autobus s'è mosso e corrono incontro gli alberi spogli, girano attorno alle
case.
Forse succederà anche adesso, di
nuovo, pensa. Sta succedendo: ecco, forse riesco a vedere ancora, ancora, solo
per un momento. Devo osservare molto attentamente. Osservare un sistema lo forza a divenire reale? Bhor, de Broglie, Schrodinger, Heisenberg,
Dirac: nomi, nomi, nomi. Mi
invadono la testa, quei nomi. Inutili. Mi hanno imbrogliato.
La nebbia avanza, si chiude come un
sipario tra i nomi. Il quattro due cinque attraversa veloce
vie e piazze sconosciute.
Eppure un briciolo di verità, un
indizio... devono pur essere un indizio queste visioni, i sogni. Questo senso
di onnipotenza che mi assale quando cala la nebbia. Arriva
da quando...? Forse occorre il sonno malato dell'alzheimer per vedere più chiaramente un sogno.
Strade e strade. Un viale dritto ed alberato.
Al centro un tram modernissimo fila fra le siepi e supera l'autobus. Non aveva mai
visto il tram tornando a casa. Dove stiamo andando?
- “Scusi…”
- “Si?”
- “Dov'è la penultima fermata, quella
prima del capolinea?”
Il guidatore volge appena lo sguardo.
Gli fa un rapido esame. Come tutti, da un pò di
tempo.
- “Corso Montegrappa.
L'avverto io. Stia qui.”
- “Corso Montegrappa…
No, no. Ho proprio sbagliato autobus. Devo scendere
alla prossima, tornare indietro. Grazie.”
La portiera dell'autobus si apre con
un sospiro triste fra il pulsare del motore in folle. Il professor De Michele
scende piano, si guarda attorno, attraversa la strada deserta avviandosi verso
la nuova fermata. Un altro autobus lo porterà indietro. Basta aspettare.
E se fosse? - pensa - Se tutto fosse davvero
un gran sogno? Qualcuno l'ha pensato, dopotutto, qualcuno l'ha scritto. Un
sogno che non può essere costretto in formule e diagrammi. Qualcosa che vien fuori solo quando ci si allontana dalla realtà falsa
della veglia.
De Michele passeggia nervoso davanti
alla pensilina. Le siepi, il cartello dell'Azienda Municipalizzata Trasporti, i
cartelloni pubblicitari, diventano i suoi discenti. La vicina rotatoria è
l'anfiteatro di fisica teorica.
- “Sì, cari Signori, occorrerà
superare una qualche barriera... - dice, e la sua voce è mutata. - Potrà essere necessario
scavalcare un ostacolo fisico o una soglia di probabilità. Forse occorre entrare
nel sonno di chi è sospeso fra la vita e la morte, il sonno del coma, il sonno
dell'alzheimer. Sì! Forse la vita, la realtà, è davvero
un gran sogno!”
Il professore si ferma un attimo e si
concede un sorriso pensando che qualcuno o qualcosa si diverte da qualche parte
a creare i sogni. Sogni così articolati, minuziosi, concreti e duri come pietra
ed acciaio che diventano, appunto, pietra ed acciaio. Sogni d'acqua e d'aria.
Sogni di luce.
Poi De Michele alza gli occhi al
cielo. Il cielo è limpido stasera. Le stelle qui si vedono, non ci sono troppe
luci a velarle. Eccoli i Soli che ruotano lontani,
senza senso, legati nella melassa della gravità: palline di giochi infantili.
- “E' questa la realtà?” - prosegue -
“Cari Signori, dovete convenire con me che si è raggiunto il massimo
dell'ironia: noi qui, nell'austero anfiteatro del Dipartimento di Fisica
teorica stiamo studiando un sogno. Ecco cosa stiamo facendo: studiamo un sogno
infantile. Ed il Dipartimento di fisica alimenta bugie, sia pure in buona fede;
ed in buona fede spende soldi e risorse assorbendo assiomi di squilibrati
professori che tentano di dare un senso ai sogni. Assume gente. Tanta gente. Gente
come me, come i miei assistenti, come i tecnici. Gente che vi anestetizza con discorsi
su una realtà che non esiste. Ingegneri che rincorrono parti del sogno, che lo
spezzano in piccolissime scintille nelle camere a nebbia per dimostrarvi che
esiste una realtà!”
Il professore punta l'indice sul
manifesto di una ragazza in bikini che pubblicizza un olio solare, poi lo sposta
su una folla che occhieggia da un altro manifesto, delirante attorno ad un
immenso telefonino.
- “E voi... e voi, Signori, non
stupitevi se la prossima tornata di tesi avrà come tema “il sogno”. Cosa dite?
Che non è un tema di fisica teorica? Ed invece sì, che lo è! E non è un tema
facile, credetemi: sembra impossibile analizzare un sogno standovi dentro.
Perché di questo si tratta. Siamo tutti immersi nel sogno di una
inesistente realtà! Tuttavia... tuttavia...”
De Michele si è già allontanato dalla
pensilina. Ora è fermo sotto un albero. Tace. Il professore un tempo era famoso per i suoi silenzi:
davano un senso d'attesa. Preludio di nuove rivelazioni.
Un autobus passa veloce e scompare
nel viale lasciando tremolare le foglie per l'aria smossa. Una scia di luci
rosse, resta ancora visibile per un pò: luci
minuscole, sempre più deboli.
- “ ... tuttavia... credo che sia
possibile! Sì. E' possibile! E' appena accaduto. E' accaduto a me, cari
Signori. Perché vi stupite?”
L'uditorio
si trasforma: alle grosse, enormi facce dei cartelloni pubblicitari si
sostituiscono carcasse impilate di auto e di moto, batterie e copertoni: ora il
professore è al centro dello spiazzo di uno sfasciacarrozze e, prendendo un
ferro da terra, traccia segni sulla polvere di una portiera ammaccata. La luce
di un vicino lampione proietta ombre nette sulle lamiere contorte: l'ombra del
professore, come una grossa sagoma nera, si muove e gesticola davanti a quella
strana lavagna.
- “Sollecito la vostra attenzione
sulla rappresentazione grafica del sogno...” - la sua voce è ora roboante,
l'uditorio è sempre più numeroso nel grande anfiteatro, anche l'ultima fila
deve sentire. Il professor De Michele disegna un cerchio. Un punto al centro.
Linee, esterne al cerchio si perdono ai confini della portiera - “Non mi
dilungo sulla impossibilità, al momento, di una completa rappresentazione
matematica: un termine dell'equazione non ha ancora corrispondenze nella nostra
disciplina. Però non dispero, cari Signori, non dispero...”.
Gli operai più mattinieri trovarono
il professor De Michele, esausto e sudato, con in mano
la biella di un motorino, che ancora tracciava segni sulla portiera. Perplessi
ascoltarono un poco, prima di chiamare l'ambulanza.