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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Ritratto in cornice, di Grazia Giordani 10/09/2022
 
Ritratto in cornice

di Grazia Giordani



Mi ha sempre incuriosita la figura di una prozia di mia madre: Eunice. Da bambina, trovai per caso il suo ritratto in granaio tra vecchie corone, nastri di raso consunti – di quelli con la scritta «I tuoi cari… La tua sposa adorata» - e un nido di topolini neonati, rosei e senza pelliccia, nudi come la mano.

Si trattava di un ritratto ovale in cornice sottile e scura, coperto da un velo polveroso, scheggiato nel mezzo. La scheggiatura dava uno strano effetto ammiccante all’occhio destro di Eunice. Pareva che la biondina del ritratto facesse l’occhiolino, presaga del destino che l’attendeva. Aveva ricevuto l’educazione dei suoi tempi: ricamo, cucito, disegno, un po’ di francese, buone maniere e soprattutto culto dell’ UOMO: padre, fratello, futuro marito, sempre padrone.

Era stata confinata in granaio, in quanto ritratto, e cancellata dalla famiglia in quanto persona, perché, rompendo le ferree tradizioni di casa sua, era fuggita con un violinista conosciuto a teatro. Forse non era Paganini, visto che si esibiva in teatri di provincia, ma aveva, agli occhi di Eunice, un alone spiritualmente romantico estraneo ai suoi fratelli farmacisti, odorosi di valeriana e trementina, nonché sanguigni cacciatori, Il padre era un uomo oppresso dagli acciacchi, reso arido dalle noie quotidiane. Portava una curiosa papalina grigia a coprire la calvizie tipica di tutti gli uomini della sua famiglia.. Forse, fu alla vista delle nozze forzate della mia bisnonna Rosa, sua sorella maggiore, con un uomo non di sua scelta, che Eunice trovò l’incosciente coraggio di lasciare gli odori mentovati della farmacia, la passività della madre, l’inutilità dei suoi giorni al telaio ( a ricamare una dote che non avrebbe mai usato) per seguire il violinista, ricco solo del suo violino.

Sono contraddittorie le notizie inerenti la sua futura sorte. C’è chi dice che regolò la sua posizione con nozze riparatrici e che ebbe due figli, pure avviati alla musica. Dicono che si sia stabilita in città, aprendo un laboratorio di ricamo e che un abitante del suo paese l’abbia vista a teatro, una sera, al seguito del marito, riscaldarsi le mani in un morbido manicotto di pelliccia, appagata.

Preferisco pensarla in piccole stanze di pensione, senza l’obbligo di rassettare, cucinare, lieta di lavarsi nella gelatissima acqua di decorati catini e di trovare calore, la sera, tra le braccia asciutte e le mani piene di musica del suo amante.

Mi piace l’aura proibita della sua storia sussurrata a mezza voce in famiglia, sempre negata con gli estranei. Immagino il suo violinista, magro per le scarse cene, vibrante di musica che gli titilla dentro assoli delicati come velate gioie.

Rivedo la chiara occhiata, resa ambigua dall’incrinatura del vetro, il naso gentile, il mento deciso, il collo sottile che esce dalla rouche che lo costringe, un piccolo riccio che sfugge sotto l’orecchio, indisciplinato, incurante delle regole.

Spesso, nei miei anni infantili, ho provato a dare una voce ad Eunice, ad immaginarla al telaio, a riprovare con lei e attraverso lei, l’emozione della prima volta che ha udito l’archetto del suo musicista scorrere sulle corde del violino. Forse, la voce vibrata delle corde le avrà detto parole che gli uomini di casa sua non avevano mai saputo dire. Le mani sottili del violinista non avevano mai estratto dai vasi le molli sanguisughe da salasso per applicarle alla gola dei malati, non avevano mai estratto dal carniere le folaghe stecchite, mai rimestato veleni. Eppure, a lei avevano fornito l’incanto di un veleno sconosciuto.

Avrà mai ripensato, Eunice, alle noiose sicurezze della sua casa? I pasti a orario fisso, il vociare sommesso dei clienti in farmacia, la selvaggina insanguinata, cacciata dai fratelli? Forse, avrà rivisto il gradino sbrecciato ove, da piccola, inciampò ruzzolando rovinosamente dalle scale. Conservava ancora una pallida cicatrice, persa tra i riccioli del collo.

Avrà rivisto la zuccheriera azzurra delle sue prime colazioni, i gerani stenti del terrazzo, le tende rosse arabescate in oro sbiadito, il libro delle preghiere, rilegato in pergamena, il ricamo a larghi trafori rimasto incompiuto dalle sue mani ormai svogliate, premute da pensieri di evasione.

Forse, la sua natura istintiva ed appassionata le avrà impedito di perdersi in dubbi, di pensare alle angustie di una vita da bohémienne.

Partì quasi senza bagagli, senza denaro, con tante illusioni nel cuore.

Non riesco a pensarla invecchiata, preferisco vederla con i riccioli ribelli che scivolano dietro le orecchie, il mento dai netti contorni, l’azzurro sguardo senza ferite.

Non voglio che gli anni la insultino, togliendo alla musica del suo violinista, l’antico trillo d’amore.


Tratto da “L’anima del gatto”, Bagaloni editore (pp.45-48)


 
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