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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  La fanciulla di ferro, di Miriam Ballerini 05/07/2007
 

LA FANCIULLA DI FERRO

di Miriam Ballerini

 

Katia si fermò davanti all'ingresso della mostra. Un raggio di sole attraversava la locandina raffigurante una sorta di alta sedia in legno, dalla quale sporgevano varie fibbie di cuoio.

   “Gli strumenti di tortura”, citava la scritta che restava in ombra rispetto alla fotografia.

   La ragazza sostò, ascoltando per alcuni minuti le conversazioni eccitate delle persone che uscivano dopo aver visitato l'esposizione. Alcuni rabbrividivano, nonostante il caldo di luglio.

   Dopo qualche remora si decise e acquistò un biglietto. Entrò, il suo abbigliamento colorato strideva nel locale oscurato.

   Passò accanto a una ghigliottina: panche dove nel medioevo si veniva immobilizzati, per essere sottoposti al tormento della goccia. E ancora aggeggi per tendere le membra, lunghi tronchi glabri, appuntiti, per l'impalamento, imbuti enormi e altre invenzioni per atroci supplizi.

   Katia si fermò di fronte a una grossa statua cilindrica, raffigurante una donna. Le porte anteriori erano apribili e, al suo interno, una moltitudine di lame ammiccava sotto alle luci al neon.

   La ragazza lesse il cartello affisso alla parete: “Ecco la Vergine di Norimberga, o fanciulla di ferro …”

   Apprese che sovente vi venivano rinchiuse giovani donne sospettate di stregoneria. In particolare, se la persona in questione pesava meno di quarantacinque chili, veniva catturata e rinchiusa nella statua; lasciandola lì a morire di una morte atroce.

   Katia allungò una mano, spinta da una curiosità morbosa. Con le dita sfiorò le lame smussate e arrugginite in più punti. Sul cartello c'era scritto che fosse un pezzo originale, non c'era motivo per pensare che non lo fosse.

   La ragazza si ritrovò di colpo altrove: trasportata violentemente indietro nel tempo.

Terrorizzata fissò lo sguardo sulle persone che aveva intorno e che, a quanto sembrava, non erano consci della sua presenza.

   Il gruppo si mosse, trascinando una ragazza attraverso una serie di sette porte. Katia li seguì, osservando la povera giovane che arrancava a capo chino, nascosto da lunghi capelli neri, sudici. Ammanettata e sospinta, venne condotta al cospetto della fanciulla di ferro.

   Katia la vide sollevare il volto pallido e farsi tutt'occhi: “No!”, gridò.

   “Maddalena, tu sei stata accusata di atti di stregoneria e il tuo corpo scarno ne è la prova”.

   La ragazza si dibattè debolmente, vinta dall'orrore.

   Katia si sentì mancare, ma non potè fare a meno di assistere al rituale: la giovane venne slegata e fatta entrare di schiena all'interno della statua. Venne spinta contro la parete e le prime lame assaggiarono la sua carne. Lei urlò di un dolore indicibile.

   Katia avrebbe voluto intervenire, strapparla via dalle mani dei suoi carnefici; fermare quel supplizio. Nessuna legge poteva permettere una tale mostruosità!

   Le porte si chiusero e dalle feritoie della statua che fungevano da occhi, la donna vide lo sguardo dell'altra allargarsi ancora e ancora, crescendo insieme all'urlo disperato, ovattato, che sfuggì dai pertugi della trappola mortale.

   Katia potè udire le lame trafiggere quel corpo indifeso, spillarne il sangue che goccia a goccia scivolava via dal corpo martoriato, raccogliendosi ai suoi piedi in una pozza scarlatta.

   Con lei stette per i tre giorni che le ci vollero per morire, piangendo straziata ogni volta che il corpo dell'altra cedeva un poco, non riuscendo più a reggersi in piedi, ma trattenuto dalle lame che ovunque la infilzavano.

   Una delle punte l'aveva trafitta sotto al cuore, quasi pareva sorreggerlo, mentre batteva sempre più lento nella sua penosa agonia.

   Maddalena morì dissanguata, contando le ore con la clessidra fatta di gocce rosse. Là dove non c'erano più lacrime a significare il suo tormento.

   C'erano stati dei momenti misericordiosi nei quali sveniva, fuggendo lontano. Rincor-rendo il suo giovane amore. Il suo cuore leggiadro che aveva battuto dal balconcino del suo petto per un fanciullo galante. Ma, poi, c'erano nuove lacerazioni, tanto forti da insinuarsi nella terra dei sogni dove rifuggiva, per riportarla brutalmente alla realtà.

   Katia le giaceva accanto, immobile guardiana dei suoi respiri. Del fiato che si racco-glieva con fatica, a bocca aperta: caldo, penetrante, ferroso. Raramente riusciva a inghiottire e quello che le scendeva in gola, era una mistura densa di muco rappreso e sangue.

   Quando morì, Katia la sentì rilasciare un ultimo sospiro roco e la vide andarsene a occhi aperti, con uno sguardo opacizzato dalla pena.

   Katia sognò (o vide?), tutto questo, dopo essere svenuta ai piedi della vergine di Norimberga. Una coppia, passandole accanto, evitò la sua caduta e la lasciò lì, a giacere sul tappeto nero, steso per la mostra.

   Intervennero due addetti che la sollevarono e la portarono in una stanzetta sul retro.

   Katia rinvenne, risalendo sui gradini di pietra delle segrete del castello nel quale era precipitata.

   Da ultimo aveva assistito all'apertura delle ante, col corpo che seguiva le lame, ormai attaccato a esse. Due uomini avevano strattonato il cadavere per liberarlo, per poi gettarlo in un canale sotterraneo che sfociava nel fiume. Un corso d'acqua che scorreva sotto la sede del Tribunale Segreto.

   “Signora, si sente bene?”

   Qualcuno voleva che lei tornasse al presente. Katia aprì gli occhi: dagli abiti indossati dai due uomini chini su di lei, capì di essere “tornata”.

   E` svenuta. Queste attrazioni a volte hanno questo effetto!” L'uomo ridacchiò, mostrando un dente scheggiato, uguale a quello dell'aguzzino che aveva rinchiuso Maddalena nella sua trappola di morte, accompagnandola con un bieco sorriso.

 

 

 
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