LA FANCIULLA DI FERRO
di Miriam Ballerini
Katia si fermò davanti all'ingresso della mostra. Un
raggio di sole attraversava la locandina raffigurante una sorta di alta sedia in legno, dalla quale sporgevano varie fibbie di cuoio.
“Gli strumenti di tortura”, citava la
scritta che restava in ombra rispetto alla fotografia.
La ragazza sostò, ascoltando per alcuni
minuti le conversazioni eccitate delle persone che uscivano dopo aver visitato
l'esposizione. Alcuni rabbrividivano, nonostante il caldo di luglio.
Dopo qualche remora si decise e acquistò un
biglietto. Entrò, il suo abbigliamento colorato strideva nel locale oscurato.
Passò accanto a una ghigliottina: panche
dove nel medioevo si veniva immobilizzati, per essere
sottoposti al tormento della goccia. E ancora aggeggi per tendere le membra,
lunghi tronchi glabri, appuntiti, per l'impalamento,
imbuti enormi e altre invenzioni per atroci supplizi.
Katia si fermò di
fronte a una grossa statua cilindrica, raffigurante una donna. Le porte
anteriori erano apribili e, al suo interno, una moltitudine di lame ammiccava
sotto alle luci al neon.
La ragazza lesse il cartello affisso alla
parete: “Ecco la Vergine
di Norimberga, o fanciulla di ferro …”
Apprese che sovente vi venivano
rinchiuse giovani donne sospettate di stregoneria. In particolare, se la
persona in questione pesava meno di quarantacinque chili, veniva
catturata e rinchiusa nella statua; lasciandola lì a morire di una morte
atroce.
Katia allungò una
mano, spinta da una curiosità morbosa. Con le dita sfiorò le lame smussate e
arrugginite in più punti. Sul cartello c'era scritto che fosse un pezzo
originale, non c'era motivo per pensare che non lo fosse.
La ragazza si ritrovò di colpo altrove:
trasportata violentemente indietro nel tempo.
Terrorizzata
fissò lo sguardo sulle persone che aveva intorno e che, a quanto sembrava, non
erano consci della sua presenza.
Il gruppo si mosse, trascinando una ragazza
attraverso una serie di sette porte. Katia li seguì,
osservando la povera giovane che arrancava a capo chino, nascosto da lunghi
capelli neri, sudici. Ammanettata e sospinta, venne
condotta al cospetto della fanciulla di ferro.
Katia la vide
sollevare il volto pallido e farsi tutt'occhi: “No!”, gridò.
“Maddalena, tu sei stata accusata di atti di
stregoneria e il tuo corpo scarno ne è la prova”.
La ragazza si dibattè
debolmente, vinta dall'orrore.
Katia si sentì
mancare, ma non potè fare a meno di assistere al
rituale: la giovane venne slegata e fatta entrare di
schiena all'interno della statua. Venne spinta contro
la parete e le prime lame assaggiarono la sua carne. Lei urlò di un dolore
indicibile.
Katia avrebbe voluto intervenire, strapparla via dalle mani dei
suoi carnefici; fermare quel supplizio. Nessuna legge poteva permettere una
tale mostruosità!
Le porte si chiusero e dalle feritoie della
statua che fungevano da occhi, la donna vide lo sguardo dell'altra allargarsi
ancora e ancora, crescendo insieme all'urlo disperato, ovattato, che sfuggì dai
pertugi della trappola mortale.
Katia potè udire le lame trafiggere quel corpo indifeso,
spillarne il sangue che goccia a goccia scivolava via dal corpo martoriato,
raccogliendosi ai suoi piedi in una pozza scarlatta.
Con lei stette per i tre giorni che le ci
vollero per morire, piangendo straziata ogni volta che il corpo dell'altra
cedeva un poco, non riuscendo più a reggersi in piedi, ma trattenuto dalle lame
che ovunque la infilzavano.
Una delle punte l'aveva trafitta sotto al
cuore, quasi pareva sorreggerlo, mentre batteva sempre più lento nella sua
penosa agonia.
Maddalena morì dissanguata, contando le ore
con la clessidra fatta di gocce rosse. Là dove non c'erano più lacrime a
significare il suo tormento.
C'erano stati dei momenti misericordiosi nei
quali sveniva, fuggendo lontano. Rincor-rendo il suo giovane amore. Il suo
cuore leggiadro che aveva battuto dal balconcino del suo petto per un fanciullo
galante. Ma, poi, c'erano nuove lacerazioni, tanto forti da insinuarsi nella terra
dei sogni dove rifuggiva, per riportarla brutalmente alla realtà.
Katia le giaceva
accanto, immobile guardiana dei suoi respiri. Del fiato che si racco-glieva con
fatica, a bocca aperta: caldo, penetrante, ferroso. Raramente riusciva a
inghiottire e quello che le scendeva in gola, era una mistura densa di muco
rappreso e sangue.
Quando morì, Katia
la sentì rilasciare un ultimo sospiro roco e la vide andarsene a occhi aperti,
con uno sguardo opacizzato dalla pena.
Katia sognò (o
vide?), tutto questo, dopo essere svenuta ai piedi della vergine di Norimberga.
Una coppia, passandole accanto, evitò la sua caduta e la lasciò lì, a giacere
sul tappeto nero, steso per la mostra.
Intervennero due addetti che la sollevarono
e la portarono in una stanzetta sul retro.
Katia rinvenne,
risalendo sui gradini di pietra delle segrete del castello nel quale era
precipitata.
Da ultimo aveva assistito all'apertura delle
ante, col corpo che seguiva le lame, ormai attaccato a esse.
Due uomini avevano strattonato il cadavere per liberarlo, per poi gettarlo in
un canale sotterraneo che sfociava nel fiume. Un corso d'acqua che scorreva
sotto la sede del Tribunale Segreto.
“Signora, si sente bene?”
Qualcuno voleva che lei tornasse al
presente. Katia aprì gli occhi: dagli abiti indossati
dai due uomini chini su di lei, capì di essere “tornata”.
“E` svenuta.
Queste attrazioni a volte hanno questo effetto!” L'uomo ridacchiò, mostrando un
dente scheggiato, uguale a quello dell'aguzzino che aveva rinchiuso Maddalena
nella sua trappola di morte, accompagnandola con un bieco sorriso.