Il sale nel bicchiere
di Mario Malgieri
Era l'una passata. Al bancone era
rimasto il solo barista, le due ragazze che lo aiutavano erano sparite già da
qualche minuto. I clienti dell'albergo stavano lasciando la sala uno dopo l'altro,
l'indomani avrebbero avuto una giornata intensa. Io, che andavo centellinando
le ultime, profumate gocce di un Calvados prima di
andarmene a dormire, non facevo eccezione. Nessuno stava lì, alla periferia
industriale di Torino, per godersi il panorama: eravamo tutti "on
business", in giro per il mondo a lavorare.
Avevo una lunga esperienza di alberghi di quel genere,
quello di Torino simile a quello di Shanghai, quello di
Parigi non diverso da quello di Washington: minimo quattro stelle,
confortevoli, freddi ed efficienti. E anche le persone che li popolano dal
lunedì al venerdì mattina si somigliano ovunque: giacca e cravatta, scarpe
lucide, ventiquattrore di pelle e bagagli minimi, da viaggiatori
professionisti. Poi, dopo le ultime discussioni d'affari, si allentano i nodi
delle cravatte e si va a rilassarsi al bar. Esattamente come stavo facendo io,
o quei due francesi che se l'erano appena svignata,
palesemente irritati ma stranamente silenziosi dopo un diverbio col barista.
Non ero seduto così vicino al bancone da aver potuto
seguire la discussione. Del resto, anche lo fossi stato, il mio francese era
così raccogliticcio che non mi avrebbe permesso di origliare. Ma avevo udito
chiaramente due parole scandite dal barista più volte, con rabbia trattenuta: aigues mortes. E queste, che a me
non dicevano assolutamente nulla, dovevano invece essere la chiave di tutto,
visto l'effetto sconcertante che avevano avuto sui due clienti.
Ero veramente incuriosito. Frequentavo l'albergo da
qualche anno, almeno un paio di notti al mese, e
conoscevo bene quel barista: era una persona sulla cinquantina, un vero
gentiluomo che parlava benissimo quattro lingue, in possesso di una solida
cultura e di un aplomb da fare invidia a un maggiordomo inglese. Mai, a mia memoria,
aveva avuto a che dire con un cliente, e sì che di persone sgradevoli, alticce,
o soltanto aggressive per sfogare le frustrazioni professionali, doveva averne
sopportate a centinaia.
Tenendo in mano il bicchiere vuoto, mi avvicinai al
bancone e mi sedetti sullo sgabello più vicino all'uomo, che stava mettendo in
ordine alcune bottiglie. Notai subito le sue mani: tremavano.
La presi un po' larga: - A volte certi clienti sono duri
da sopportare, Roberto. -
Mi guardò un attimo quasi con ostilità, poi mi riconobbe e
abbozzò un mezzo sorriso.
- Buonasera; no, è colpa mia, ho lasciato prevalere i
sentimenti sulla professionalità, ma tutto sommato non me ne pento. -
- Mi scusi se glielo chiedo, ma le uniche parole che ho
sentito chiaramente sono state, mi pare, "aigues
mortes". E ho visto l'effetto che hanno avuto su
quei francesi. Io sono curioso per natura, è troppo se le chiedo di spiegarmi
cosa significano?-
Il barista soppesò per un momento la risposta da darmi. Si
vedeva che era combattuto. Poi prese due bicchieri e la bottiglia del Calvados.
- Già, i libri di storia non ne parlano, magari qualcuno
al di là delle Alpi si offenderebbe. Ha tempo di ascoltare una storia? Questo
giro lo offro io.-
La situazione era intrigante, mi sembrava di essere uno di
quei personaggi di tanti film, seduti al bancone di un bar a bersi un drink:
"Questo lo offre la casa, Mike, ma poi
squagliati". Dovevo solo sperare che non ci fosse la scazzottata finale.
Guardai l'ora e ascoltai la vocina dentro di me che supplicava di andare a
letto, l'indomani alle 9 avevo una riunione tosta e avrei dovuto sfoderare
tutta la mia lucidità e abilità di negoziazione. Ma a quel punto la mia
curiosità era ancora più forte. Presi il bicchiere e diedi mentalmente un
calcio nel sedere alla voce della ragione che si ritirò offesa da qualche
parte.
-Versi pure, ho tutto il tempo che serve.-
-Aigues Mortes è una cittadina della Francia meridionale, sul mediterraneo, - esordì
guardando il proprio bicchiere che aveva riempito ben oltre il livello che
serviva ai clienti. Il mio non era da meno. - E quei due di prima sono dei
presuntuosi sciovinisti e hanno avuto ciò che si meritavano.-
Non mi riusciva di collegare le
cose, quindi rimasi in attesa del seguito.
- Stavano parlando tra di loro di
un brutto fatto cui hanno assistito questa mattina, proprio davanti
all'albergo. C'è un povero cristo, un ragazzo, credo un magrebino,
che passa nel parcheggio dell'albergo la mattina, quando i clienti escono.
Arriva col suo armamentario, secchio, spatola, spugna e si offre di pulire i
vetri. Lo fa in modo educato, non esagera mai.-
- Sì, lo conosco - lo interruppi - è un ragazzo
tranquillo.- Non dissi che io lo mandavo sempre via con un gesto seccato.
- Dario, il portiere, ha assistito a tutto e mi ha raccontato
di un cliente, un italiano, che si è infastidito. Non so, forse il poveraccio
ha insistito più del solito. Di fatto, dopo averlo preso a maleparole,
di quelle proprio da fascista, il cliente lo ha pure spintonato via, facendolo
cadere. Se qualcuno non lo fermava lo avrebbe preso a
calci. Una cosa davvero penosa e quel cliente è uno stronzo, il mio orario di
lavoro è finito e lo posso dire. Ma purtroppo cose del genere succedono
dappertutto e sono opera di quella piccola minoranza di cretini e ignoranti che
alligna in ogni parte del globo.-
Il barista mi guardò come per chiedere conferma. Io mi
limitai ad annuire, anche se non ero sicuro che i cretini fossero una minoranza
tanto piccola. Ma ancora non trovavo alcun filo logico: una sconosciuta
cittadina della Francia, un paio di francesi forse
alticci che diventano antipatici al barista, un disgraziato lavavetri
maltrattato da un italiano residuo organico arricciato. Non ci arrivavo
proprio.
- Invece quei due erano lì a bersi un wisky
e a straparlare di italiani intolleranti e fascisti, che da loro certe cose non
erano mai accadute, avevano sì dei problemi con i loro immigrati, ma venivano affrontati e risolti in modi civili e democratici.
Altro che questi italiani razzisti. Dicevano così: italiani razzisti, con aria
di padreterni, facendo finta di parlare tra loro ma a
voce bella alta, che gli italiani sentissero. Beh, a me questa cosa non la
dovevano dire. Quant'è vero che mi chiamo Roberto Garino e che mio nonno era Giovanni Garino.
Lui ad Aigues Mortes
c'era!-.
Il Calvados mi aveva lasciato un
bel retrogusto di mela al forno, ma forse non aiutava il cervello a funzionare
al meglio. - Il prossimo sul mio conto, Roberto, e vada avanti, mi pare
interessante. -
Il barista fece un segno di disprezzo per il mio conto e
versò un altro giro.
- Vede, mio nonno era figlio di contadini, tiravano a
campare nella zona delle Langhe coltivando qualche
ettaro a vigna e grano. Poi venne la filossera, lo sa cos'è vero? E pure il
prezzo del grano crollò per tanti motivi. In casa, quella che era una
ricchezza, cioè i figli che lavoravano la terra, divenne un peso. Di figli ne
erano venuti tanti, otto tra maschi e femmine. Così i due maschi più grandi,
Giacomo di 19 e appunto Giovanni che allora ne aveva 15, dovettero lasciare
l'Italia, attratti da quello che già aveva fatto e poi raccontato un loro
cugino: in Francia, non troppo lontano, alle saline di Aigues
Mortes, assumevano lavoratori italiani, visto che
accettavano le paghe da fame che i francesi rifiutavano.
Inutile che le dica che razza di lavoro fosse quello:
condizioni penose, esposti tutto il giorno al sole, gli occhi bruciati dai
riflessi dei cristalli di sale, senza altra ombra che non fosse quella di un
cappello a larghe falde. Avevano un sacco ruvido gettato sulla spalla per
proteggerla dalle scorticature dei canestri di vimini coi quali trasportavano
il sale, il sudore usciva a litri, i corpi seminudi erano coperti di graffi e
le mani tagliate e macerate dai cristalli.-
Si fermò un attimo come a raccogliere le idee. Nella mia
immaginazione quella descrizione richiamava una bolgia dantesca, con dannati
senza speranza a trascinare canestri di sale grezzo in una calura
insopportabile.
- Eppure la gente del posto odiava quei disgraziati. Li
odiava perchè lavoravano come bestie e li consideravano delle bestie. -
Il barista oramai non parlava a me, era al terzo Calvados e avevo lo sguardo perso nei suoi ricordi di
famiglia, probabilmente tramandati a voce e ascoltati chissà quante volte. - Ma
non solo per quello. "Les italiens",
detto in tono dispregiativo, anzi "les macaronis", erano venuti a mangiare il loro pane,
accettando paghe troppo basse, per portare via il lavoro ai francesi. Quindi
erano tutti ladri, e le donne tutte puttane. E tutti sapevano che l'Italia
aveva firmato la "triplice alleanza" con gli odiatissimi
tedeschi e austriaci. Così erano anche dei potenziali nemici, pronti ad
assalire a tradimento chi li aveva nutriti.
Caro signore, quando il clima è quello, basta una scintilla
e tutto scoppia. E c'era pure chi soffiava sul fuoco per motivi politici o per
semplice xenofobia.
E ad Aigues Mortes
la scintilla scoppiò il 17 agosto del 1893. A nessuno importava quanto futili o
addirittura falsi fossero i motivi: come sempre in queste
occasioni il lupo che sta in alto accusa l'agnello, in basso, di sporcargli
l'acqua.
Come risultato, circa cinquecento francesi inferociti
assalirono un centinaio di lavoratori italiani presenti nelle saline, in una
vera e propria caccia all'uomo. Una ventina di piemontesi cercò scampo
attraversando uno stagno, ma vennero raggiunti e
uccisi tutti a colpi di pietra; altri furono ammazzati a bastonate o a
coltellate. Giacomo, il fratello di mio nonno, fu colpito a morte da una
fucilata sparata da un gendarme che in seguito dichiarò di aver sparato per
difendersi, e fu addirittura promosso. In totale i morti furono una
cinquantina, anche se i francesi si ostinano ancora oggi a parlare di venti.
Come se venti o cinquanta cambiasse le cose.
Comunque mio nonno fu tra i fortunati che riuscirono ad
arrivare a piedi a Marsiglia e di lì, non senza problemi, altri pericoli e
molti mesi di paura e fame, fu rimpatriato e tornò a casa.
Pensi, dopo il massacro, il sindaco di Aigues
Mortes ebbe a dire che si era fatto
ciò che si doveva fare. E non fu nemmeno rimosso.-
Io avevo finito il quarto bicchiere colmo di Calvados. Chissà perchè, ora il retrogusto non mi sembrava
più di mela, ma ci sentivo qualcosa di molto simile al sale. E mi sentivo anche
la testa che tentava di svolazzare per conto suo, leggera e piuttosto
ondeggiante. Ma quello che avevo udito raccontare mi pareva orribile e mi venne
spontaneo un commento, probabilmente molto più filosofico di quanto io non fossi solito fare: - Io penso che nessuno, francese,
italiano, americano o inglese che sia, possa permettersi di dare lezioni di
tolleranza e accettazione dei diversi. Tutti abbiamo scheletri negli armadi, e
molti di quegli armadi li apriamo spesso, ma solo per continuare ad aggiungere
ossa su ossa. Lei ha fatto benissimo a ricordare a quei signori questa
atrocità, credo che avranno qualcosa sulla quale meditare.-
Ci augurammo la buonanotte che erano quasi le tre, e io
ringraziai per la serie di bicchieri che mi rendeva difficile arrivare
all'ascensore per la via più breve. L'indomani avrei avuto un gran mal di
testa, questo era certo.
La mattina dopo la sveglia telefonica mi salvò da un sonno
agitato e pieno di visioni terribili di linciaggi e sangue che arrossava
distese di candido sale sotto un sole spietato.
Mi sentivo uno straccio mentre mi
radevo svogliatamente e cercavo di rendermi presentabile.
Uscii dalla stanza ancora assonnato e in grave ritardo,
non avevo il tempo di fare colazione. Andai al bancone del bar e mi feci
servire un caffè che bevvi in fretta, in piedi. Il barista naturalmente non
c'era, era di turno dalle cinque del pomeriggio. Almeno lui si era potuto
permettere una buona dormita, pensai mentre scendevo
lo scalone verso l'uscita.
Arrivai al parcheggio trascinandomi appresso la valigetta
e il mio mal di testa, ma c'era qualcos'altro che ancora non riuscivo a mettere
a fuoco.
Stavo aprendo la portiera, quando vidi il ragazzo magrebino avvicinarsi. L'incidente del
giorno prima non l'aveva scoraggiato. Solamente mi parve di notare un
sorriso più triste del solito. O forse era solo un sorriso caparbio. Mi guardò
un attimo e mi riconobbe: ero uno di quelli che non gli lasciavano fare il suo
lavoro e l'allontanavano con un fastidio malcelato. Si voltò e fece per
andarsene.
Rimase sorpreso quando lo
chiamai: "Mi servirebbe una pulita al vetro, per favore".
Aspettai con calma che finisse e
vidi la sua perplessità incredula quando gli diedi dieci euro, dicendo che non
volevo il resto.
Misi in moto e feci per infilarmi nel traffico. Di colpo
mi resi conto di cosa fosse ciò che mi portavo dietro
senza riuscire a metterlo a fuoco: un senso di colpa per essere ciò che ero,
parte di quella comunità di fortunati della terra. Non me ne sarei certo
liberato con dieci euro.
Fermai la macchina e scesi. Il
ragazzo era ancora lì vicino, mi guardava con preoccupazione: forse avevo
cambiato idea e rivolevo indietro i dieci euro?
Mi avvicinai e gli strinsi la mano.
Nota: il massacro di Aigues Mortes è un fatto storico. Tutti i personaggi e le altre
situazioni cui si fa riferimento nel racconto sono frutto di fantasia.