Campagna
elettorale
di Cesarina Bo
Appoggiò il vecchio motorino alla cancellata e si tolse il
casco. Lo posò in precario equilibrio sulla sella, tergendosi il sudore dalla
fronte. Nonostante fossero le nove del mattino il sole iniziava già a scaldare:
il cielo, in quella domenica d'inizio giugno, era terso e l'aria immobile. Tirò
fuori dalla tasca un foglio sgualcito, lo guardò con
estrema attenzione, poi, con una penna, tirò una riga su un nominativo:
esattamente il settimo della lista. Guardò pensierosamente gli altri
trentacinque nomi e controllò l'orologio.
Alvaro si chiese se sarebbe riuscito
a terminare il giro in giornata. Si augurava di sì:
essendo domenica avrebbe avuto molte probabilità di trovare la gente a casa. I
tempi stringevano e non poteva concedersi il lusso di fare le cose con calma.
Si era fatto consegnare le liste
degli elettori dal Comune: centosettantacinque persone in tutto, di cui
novantasette femmine. Aveva trascorso un pomeriggio intero a ricopiare quei
nomi e li aveva studiati a lungo prima di stabilire un criterio di selezione.
Aveva subito eliminato i parenti stretti degli altri candidati, poi tutti
quelli che, per un motivo o per l'altro, avevano avuto da ridire con lui o con
i suoi vecchi. In paese certi sgarbi duravano a lungo e ne portavano le
conseguenze ancora i figli dei figli. Ad esempio aveva dovuto cancellare, con
enorme dispiacere, una famiglia di ben tre persone votanti per via di un'offesa fatta almeno cinquant'anni
prima, ma che non era mai stata dimenticata. Ne era al corrente perché
la sua povera madre, più volte, gliene aveva parlato. Il fattaccio successe
esattamente il giorno in cui i suoi si sposarono. Tra gli invitati c'era la
vecchia Caterina, alla quale avevano promesso che sarebbero passati a prenderla
con l'auto degli sposi per portarla alla funzione prima e al pranzo dopo. Nella
concitazione della giornata se ne dimenticarono completamente e Caterina rimase
a lungo sulla porta con il vestito bello, il cappello con la veletta e un filo
di rossetto, rientrando in casa solo dopo che il corteo nuziale era passato e
non c'era più anima viva in giro.
Alvaro aveva dunque proceduto in quel
modo depennando via via tutti quelli che, a suo
parere, avevano un motivo per portargli rancore e in quella cernita era stato
rigorosissimo, andando a ripescare anche solo scambi di battute poco felici o
altre inezie. Alla fine aveva selezionato quarantadue nomi che dava per certi.
Già nelle precedenti elezioni aveva
sbagliato tutto. I risultati non avevano lasciato dubbi: aveva ottenuto tre
voti dei quali uno era suo. Inoltre –e la cosa lo aveva indisposto non poco-
non era mai riuscito a capire di chi fossero gli altri
due voti. Sette persone, al termine delle elezioni, gli avevano detto con un
tono funereo e abbassando la voce: “Mi spiace, Alvaro! Guarda, però, che io ti ho votato…”. Alvaro
non era mai riuscito a scoprire con certezza chi tra quelli aveva mentito.
Forse tutti, sicuramente cinque se la matematica non era un'opinione. Non aveva
fatto molti studi, ma non era uno stupido e i cinque anni delle elementari gli
erano più che sufficienti per fare due conti. Per un po' di tempo li aveva
tenuti sotto controllo e fatto loro domande tranello per coglierli in fallo.
Poi ci aveva rinunciato: aveva pensato che, nel dubbio, fosse buona politica
tenerseli amici tutti sette.
Alvaro stava riflettendo che l'errore
più grande commesso nella precedente campagna elettorale era stato quello di
affidarsi ai volantini. Era pur vero che, al fondo, li aveva firmati uno per uno,
che ne aveva fatto stampare in abbondanza e li aveva messi –doppi per
sicurezza- personalmente in tutte le buche delle lettere d'ogni casa del paese,
ma era, con tutta evidenza, mancato il contatto personale. Avrebbe dovuto
pensarci prima che i suoi compaesani non leggevano
volentieri e che quindi quella sua strategia non avrebbe funzionato. Si era
così ritrovato con due voti (il suo non lo contava: si sarebbe in ogni caso
votato, con o senza volantini), una cifra esorbitante da pagare alla copisteria
della città e in più la beffa di vedere molti dei suoi volantini con la sua
faccia utilizzati per incartare le mezze dozzine d'uova.
Prima di suonare il campanello del
potenziale votante si guardò attorno e notò, ad una certa distanza, un'auto blu
che già aveva intravisto in mattinata durante il suo
giro. Doveva essere di un forestiero perché gli era sconosciuta: si chiese chi
mai potesse essere e cosa facesse in paese. Quel pensiero, però, durò poco. Si
concentrò sul discorso che si era preparato per quella persona. Alvaro,
infatti, dopo aver selezionato i nomi, aveva cercato per ognuno un aggancio dal
quale partire e aveva preso un appunto di fianco ad ogni nome. Lesse: “Amilcare-pomodori”. Rovistò nella cassetta che era fissata
dietro al sellino della moto e prese un mazzetto di piantine di pomodori già un
po' avvizzite, nonostante avesse avuto l'accortezza di avvolgerle in un pezzo
di carta di giornale bagnato. Lo scrollò per migliorarne l'aspetto e suonò il
campanello.
“Ciao, Amilcare. Ti ho portato qualche
piantina di pomodoro, di quelle speciali. Non ne ho molte, ma ho pensato che ti
avrebbero fatto piacere.”
“Certo! L'anno scorso i tuoi pomodori
erano i più belli di tutto il paese e ti abbiamo invidiato…”
Parlarono un po' dell'orto e un po'
del tempo, poi Alvaro attaccò il discorso che più gli premeva:
“Visto che sono qui, Amilcare, ti
ricordo che sono in lista: posso contare sul tuo voto? Sai che non te ne
pentiresti…”
“Vai tranquillo, Alvaro, nessun
problema: non avresti neanche dovuto chiedermelo!”
Rassicurato da quelle parole Alvaro
si congedò in fretta e, prima di risalire sul motorino, lesse il nome
successivo: “Marisa-rubinetto”. Marisa era una
lontana cugina e qualche tempo prima gli aveva chiesto se poteva
dare un'occhiata al rubinetto del bagno che gocciolava in continuazione.
Sovente l'anziana donna si rivolgeva a lui quando
aveva dei piccoli lavori di manutenzione da fare. Però, se le avesse riparato
il rubinetto, si sarebbe assicurato il voto. “Esisterà ancora un po' di
riconoscenza a questo mondo”, rifletté Alvaro.
Era buio da un'ora
quando Alvaro rientrò a casa: adesso non gli rimaneva altro che
aspettare. Mentre posteggiava il motorino dentro il cortile rivide, di
sfuggita, l'auto blu del forestiero che più volte aveva notato durante la giornata;
di nuovo, per un attimo, si chiese chi fosse e che facesse quella persona in
paese. Poi si rimise a pensare alla giornata appena conclusa: il giro era stato
soddisfacente e tutti gli avevano fatto capire che l'avrebbero votato. Pensò
pure al suo avversario principale e allo smacco che avrebbe
subito. Si trattava di un certo Luigi, detto “il signore” perché era pieno di
soldi. Alvaro non gli perdonava d'essere uno che veniva da fuori e che, appena
arrivato in paese, si era messo a criticare tutto e tutti. Teneva certi comizi
da far accapponare la pelle. Lo aveva sentito promettere niente meno che “la
costruzione di un bocciodromo” e quegli ingenui dei suoi compaesani erano
rimasti lì, a bocca aperta, incantati da quelle parole. Solo uno aveva chiesto:
“Ma con che soldi?” ed aveva ricevuto in risposta:
“Domanda giusta, giustissima! Con i miei… Io in questo paese sto bene e farei
volentieri una donazione, sempre che sia eletto.” Fu
subissato da applausi che giunsero impietosi fin dietro al platano dove Alvaro
se ne stava, seminascosto, ad ascoltare.
La settimana si trascinò con lentezza
e l'umore di Alvaro oscillò, con una frequenza preoccupante, tra certezze e
dubbi, lasciandolo, alla fine, stremato e nervoso.
Trascorse la notte precedente il
giorno delle elezioni in un dormiveglia agitatissimo, popolato da incubi. Aveva
provato la sensazione di scivolare lungo un dirupo e di non aver modo di
fermarsi o, anche solo, di rallentare quella discesa rovinosa appigliandosi a
qualche sporgenza. L'accelerazione che il suo corpo acquistava nel sogno
l'aveva portato a svegliarsi di soprassalto con il cuore in gola e le farfalle
nello stomaco; Alvaro aveva impiegato un po' di tempo a capire che si trovava
nel suo letto, fermo e in posizione orizzontale. Così decise di alzarsi, si
rase la barba, indossò la camicia della festa e, sebbene fosse ancora buio, si
avviò verso le scuole, dove, a partire dalle sette, avrebbero avuto inizio le
votazioni.
Rimase perplesso nel vedere un
pullman da gran turismo parcheggiato proprio nel mezzo della piazza antistante
all'edificio scolastico: a lui non risultava che ci fosse qualche gita in
programma. Si avvicinò e lesse, appoggiato al vetro anteriore, un cartello con su scritto: “GITA AL SANTUARIO DELLA MADONNA DELLE
NEVI”. Si trattava di un famoso luogo di pellegrinaggio distante quasi duecento
chilometri dal paese. Lui c'era stato una sola volta, quando era giovanissimo,
e, da allora, si era sempre riproposto d'andare. Anzi, mentre leggeva quel
cartello, gli venne immediato formulare un voto: “Se vinco le elezioni vado a
far visita alla Madonna delle nevi.”
L'autista fumava annoiato, seduto al
posto di guida. Alvaro era convinto che quell'uomo
avesse sbagliato posto di ritrovo e stava quasi per
dirglielo quando vide giungere della gente. Man mano che si avvicinavano iniziò
a riconoscerli: c'era Amilcare, poi, subito dietro, Domenico, Rita, Marisa,
Alfredo, Piero… insomma i suoi potenziali elettori. Tutti fecero finta di non
vederlo e salirono in silenzio sul pullman.
Alvaro era esterrefatto, quasi non
gli usciva la voce dalla bocca mentre cercava di
chiamare ora l'uno, ora l'altro.
“Ma dove vanno? Che fanno? Sono
matti? Tra un'ora si vota!”
Alla fine si decise e salì sul
pullman. Fu accolto da un silenzio imbarazzato.
“Dove andate? Oggi si vota… me lo
avete promesso! Non potete farmi questo!”
Nessuno parlò.
“Non potete aspettare un'ora prima di
partire?”
Ancora silenzio.
“Amilcare, vecchio mio, almeno tu
spiegami cosa sta succedendo…”
“Alvaro, noi non c'entriamo per nulla
e lo abbiamo saputo solo ieri sera. Ha fatto tutto Luigi: ci ha spiegato che
doveva offrire una gita gratis con tanto di pranzo e di cena pagati per un
voto, fatto a suo tempo, alla Madonna delle nevi. Così ha sorteggiato
quarantadue nomi ed eccoci qui. Siamo solo stati
molto fortunati! Tu fai male a prendertela in questo modo: vedrai che ti andrà
bene lo stesso, voto più o voto meno.”
L'autista, spazientito per l'attesa,
mise in moto il pullman dicendo: “Signori posso partire?”, poi rivolto ad Alvaro:
“Dovrebbe farmi la cortesia di scendere: da quel che ho capito lei non ha
vinto.”