Dalla
voce di lei
di
massimolegnani
Avevo
iniziato a inveire mentre ero ancora in corridoio, ma, quando ho
spalancato la porta della camera urlando, lui, comodo in poltrona e
per nulla turbato, stava facendo dondolare una pantofola, in bilico
su un piede, lo sguardo concentrato in quel virtuosismo sciocco,
sulla faccia un’espressione quasi beata. Forse neanche mi stava
ascoltando e c’era da aspettarsi che sul più bello se ne
uscisse con un guarda, cara, che abilità!
Abile,
era abile davvero nel farmi sentire una merdina senza bisogno nemmeno
di aprire bocca.
Era
proprio da lui quel fregarsene di partire da una posizione di
obbiettiva inferiorità, un uomo in pigiama e ciabatte è
di per sé ridicolo, svantaggiato, soprattutto se davanti ha un
avversario vestito di tutto punto. Ed ero io l’avversario,
ancora vestita così com’ero rientrata a casa. Eppure
aveva ribaltato i rapporti di forza tra di noi con pochi gesti ben
dosati, il sorrisetto sardonico, l’inarcarsi del sopracciglio
destro, l’attenzione al proprio piede funambolico, la calma
sfacciata di fronte alla mia furia. Io sbraitavo, tornare a casa a
sera tardi dopo tante ore di lavoro e non trovare niente di pronto da
mangiare mi manda in bestia. E come una bestia lo assalivo a male
parole. Lui seduto sulla poltroncina ai piedi del letto manteneva un
atteggiamento che ora definirei regale, un re annoiato dal suo
giullare. Gli insulti, le minacce, le urla scivolavano via sul
pigiama stropicciato come gocce di pioggia sulla tela cerata. Ogni
tanto sollevava una palpebra con lentezza studiata e mi fissava, uno
sguardo svuotato da ogni sentimento, nemmeno odio o fastidio,
incredibile come quell’occhio bovino, tondo e acquoso, avesse
il potere di annichilirmi. Avete mai tirato pugni nell’acqua?
La stessa sensazione quando affondai le mani nella sua pancia, i
colpi si spegnevano sordi nel grasso e lui che ridacchiava. Mi lasciò
fare per un po’, poi mi scostò con una manata, il gesto
infastidito che si dedica a una mosca molesta. Subito riprese a
dondolare il piede stronzo. E intanto mi stava sfinendo senza fare la
fatica di combattere, ancora non mi aveva offerto l’appiglio di
una parola contro cui potessi tentare un colpo da k.o. Mi resi conto
che non ero nemmeno riuscita a trascinarlo sul ring, altro che
combattimento, piuttosto era lui ad avermi attirato sul suo terreno
preferito, il teatro. E sul palcoscenico non avevo alcuna possibilità
di prevalere, io guitto scomposto, lui attore consumato, di quelli
che il pubblico ama per la straordinaria misura dei gesti, entra in
scena, non parla, solleva impercettibilmente la mano destra, accenna
il movimento di una spalla e si scatena l’ovazione.
Mi
guardò di nuovo, questa volta scuotendo un po’ la testa
in un biasimo muto e arricciando le labbra in un sorriso di disgusto.
Poi ricominciò a giocherellare con la pantofola, ignorandomi
platealmente. Mi appoggiai alla parete e mi lasciai scivolare a
terra, affranta. Solo vedendo le mie lacrime nere si decise a
parlarmi, sporgendosi verso di me per non dover alzare la voce. La
voce un soffio gelido: Piccola mia, come puoi pensare che io ti
prepari la cena mentre tu tardi perché, magari, ti stai
facendo sbattere dal tuo capo?
Non
attese la mia reazione che del resto non ci fu.
La
questione era chiusa, lo sapevamo entrambi.
Si
alzò con un sospiro e si avviò verso il letto. Non
fare troppo rumore quando vieni a dormire, mi disse ancora, prima
di spegnere la luce.
Si
addormentò di botto.
Accartocciata
come una foglia secca tra parete e pavimento, lo ascoltai russare per
l’ultima volta, anche in quello aveva qualcosa di arrogante, me
ne ricordo ancora. Non ricordo invece quanto rimasi lì a
ruminare le sue parole prima di decidermi a raccattare quattro cose e
andarmene.
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