ERIKA
di Enzo Lombardo
Una sera,
sul tardi. Una serata che iniziò strana e magnifica.
Erika era magnifica. Tu forse non ti sei accorto di quanto era bella. Eri
partito dopo il quinto bicchiere, Michele. Andato. Dormivi mezzo nudo nella
nuvola di fumo che si posava sul tavolo da gioco, tra bicchieri sporchi, carte
sparse e portacenere pieni. Ti guardavamo mentre
dormivi con la testa e le braccia riverse sul panno verde macchiato di caffè e
di tanto in tanto ti muovevi facendo scricchiolare la sedia. Alzavi le braccia
e muovevi in alto le mani con le dita aperte. Sembravi felice. Salutavi
qualcuno o era un'elaborata preghiera ad un dio sconosciuto. Chissà. Ti
guardavamo stando sprofondati sul divano quando non
eravamo molto impegnati con Erika.
E dire
che l'idea era stata tua. Vi và una scopata?, dicesti,
e magari ci rimediamo il quarto. Ma sì, proviamo a fare un giro in macchina.
Qualcosa troviamo. E trovammo Erika. Non era neppure cara, per un paio di ore,
tre ore al massimo. Sorrise strano quando le chiedemmo di venire a giocare con
noi. A che gioco volete giocare?, disse sospettosa, e
strabuzzò gli occhi quando dicemmo a carte. A carte? Si
a carte, dicemmo, e senza soldi. Il denaro serve per te. Fu più convinta quando aggiungemmo che ci saremmo giocati i
vestiti. Rientrava in una sua logica, a quanto pare e
ci chiamò sporcaccioni, ma rideva. Disse di chiamarsi Erika. Un nome falso. Un
nome d'arte. Ed i soldi? Oh, i soldi: ecco soldi. Li vedi i soldi? Eccoli. Una mazzetta che puzzava di sudore. Bastano? Li
conta, scuote un paio di volte la testa e poi dice sì, ma niente cose strane.
Però si vede che è impressionata dai bigliettoni. Alle due precise mi riportate
qua, dice, perchè smonto. Smonto alle due precise.
Ed eccoci nel soggiorno del mio appartamento. Io lo definisco sala ma in effetti è una camera striminzita, affollata di
mobili e di libri. E poi carte dappertutto, anche sul pavimento. Carte
strappate, appallottolate, stirate, bruciacchiate. Io lì studio, non posso
anche tenere pulito. E poi c'è un tavolo che sembra troppo grande,
tre sedie scompagnate, uno sgabello ed un divano enorme coperto da un
lenzuolo macchiato. E per terra un mucchio di dischi che non posso più
ascoltare da quando lo stereo s'è rotto.
Hai
cominciato a russare, povero Michele, davvero, a russare forte e alla fine
d'ogni respiro avevi un rantolo lugubre e malsano che faceva venire la pelle
d'oca e Mario disse: butta fuori quel deficiente a dormire sul pianerottolo.
Non scherzava e ne avevo voglia anch'io guardando la bottiglia vuota buttata
sul tappeto. Poi pensai ai vicini curiosi ed impiccioni e lasciai perdere.
Perchè lo hai fatto, Michele? Ubriacarti a quel modo, di proposito. Si vedeva
che lo facevi apposta. Chissà se c'entrava Erika. L'ho sempre pensato, sai?
Forse quel gioco che avevi stimolato non ti stava più bene. Forse la volevi
tutta per te e te la sei portata in un sogno. Chissà. Comunque sollevai a
fatica le mani dalle cosce di Erika e dissi andiamo di là che si sta più
comodi. Il divano serve a Michele.
Per un
momento pensai: povero Michele. Solo per un momento pensai, poi non pensai più
a niente se non ad accaparrarmi la mia parte di letto e la mia parte di Erika.
Ed anche la tua parte, Michele. La mia e la tua quota di quel pezzo di carne
vellutata, di quei seni duri e di quelle cosce setose.
Alle due
e qualcosa Mario ed io, a malincuore ed esausti, la riportammo al marciapiede
di Via Emilia. Aveva premura di arrivare. Si dimenava nel sedile posteriore
quasi a spingere la macchina. Friggeva. La volevamo accompagnare a casa sua ma non volle. Io smonto in Via Emilia alle due, ci
ripeté, ed è già tardi. Troppo tardi. Come un operaio montatore o un tranviere,
pensai. Ha finito il turno e ci ha rimesso un quarto d'ora. Magari ci stiamo
fregando gli straordinari.
Quando
scese dalla macchina mi accorsi di quanto era bella nel suo costume da puttana.
Me ne accorsi solo allora, seduto in macchina, guardandola dal basso, guardando
quelle lunghe gambe che scendevano da una minuscola corolla rovesciata di
stoffa rossa, il ventre piatto, i fianchi e i seni che si disegnavano morbidi
nella camicetta. Quando si allontanò a piccoli passi, ticchettando sui tacchi
enormi, guardai i suoi capelli lisci, nerissimi, tagliati corti, che facevano
da cornice ad un viso tondo, da bambina, con gli occhi neri e una bocca
impertinente.
Mi
piacerebbe accarezzare i tuoi seni che si intravedono da quella camicetta
bianca mezzo sbottonata, pensai, sentire il fruscio di quella stoffa sottile
tra le mani. Assaporare con gli occhi le curve del tuo corpo disegnate dalla
piccola gonna e guardarti negli occhi. Sorriderti, magari e schiudere un tuo
sorriso di donna. Sì, perchè mentre ti allontani non mi sembri più solo un
pezzo di carne rivestita di pelle levigata. No, non sei solo un pezzo di carne,
pensai, ma forse tutto questo era l'effetto dell'ultimo bicchiere bevuto in fretta mentre uscivamo da casa.
Mario
aveva già ingranato la prima e la macchina fece qualche decina di metri quando io gli dissi di fermarsi. Accostò a malincuore.
Cosa c'è, disse sbadigliando, è tardi.
Avevo
visto un uomo emergere dall'oscurità e andare incontro ad Erika. Mi dovevo
storcere tutto sul sedile per vedere e lo vedevo di spalle ma
lo schiaffo che diede ad Erica si sentì fin dentro la macchina.
Mi sembrò che barcollasse dopo la botta. La voce di
Erika, dolcissima voce (piangeva?) mi arrivò tremolante ma
fu subito interrotta, schiantata, distrutta da un altro schiocco feroce.
Storcendo ancora di più il collo potei vedere Erika aggrapparsi con tutte e due
le mani al lampione per non cadere. Colpa nostra, pensai, sì, tutta colpa
nostra. Avrà fatto tardi ed al suo magnaccia non piace aspettare. Mario, dissi,
hai visto? La sta riempiendo di botte. Non ho visto e non voglio vedere, fece
lui. Ma la sta ammazzando di botte, Mario. Cazzi
loro, disse, è il suo uomo, sono fatti così. Si, pensai, è il suo uomo e
possiede tutto quel bel pezzo di carne. La noleggia e se ritarda la strapazza.
Forse è normale. Però continuavo a pensare ad Erika e pensavo che non era un pezzo di carne da nolo. Vedevo Erika nel suo vestito
striminzito, vedevo il suo viso da bambina incorniciato dai capelli neri e mi
venne voglia di odiare quell'uomo, anzi l'odiai
subito, immediatamente, profondamente, fin nelle viscere più intime e nascoste
che sentivo dimenarsi e contorcersi dentro di me. E mi venne in mente qualcosa
del tipo: vieni piccola Erika, voglio il tuo sorriso, il tuo corpo nel costume
di puttana. Voglio lavare quello strano odore dalla tua pelle, quell'odore che sa di profumo, di sudore e di sperma.
Voglio intenerirmi con la tristezza dei tuoi improbabili racconti, intenerirmi
con la leggerezza dei tuoi desideri e con i piccoli e vacui pensieri di
puttana. Intenerirmi per le povere collane di vetro e per le perline che tieni
ai polsi ed alle caviglie.
Magari scendo, pensai, voglio aiutarti, piccola.
Eccomi. Sì, eccomi, piccola, arrivo.
Sentivo un rombo cupo e cadenzato. Era il mio
sangue che pulsava alle tempie. Tremavo di rabbia. Anche di paura. Forse, a
pensarci bene, più di paura che di rabbia. Quello era un delinquente. Magari
m'avrebbe ammazzato mentre Mario scappava con una
sgommata. Sì, m'avrebbe ammazzato mentre Mario
scappava come un coniglio oppure m'avrebbe solo azzoppato per sempre. Due crak schifosi ed era fatta. Forse avrei
strisciato per tutta la vita appeso a due stampelle, avrei dovuto dire
addio al tennis, alle gare in piscina, alle macchine. Ma anche, in futuro, alle
ragazze di buona famiglia ed agli amici distinti. Perchè l'avrebbero saputo
tutti che ero stato il paladino d'una puttana. Sì è vero, pensai, stavolta mi
rovino, ma nella nebbia che avvolgeva la mia testa sentivo più forte il rombo
del sangue che pulsava. Sembrava un cupo ed irresistibile richiamo. Un
dolcissimo richiamo. Un grido d'amore che mi viaggiava nel sangue, mi
impregnava muscoli e nervi. Vieni, vieni, mi diceva, vieni, gridava. Mi urlava
vieni. Aiutami. Un urlo sempre più cupo. Aiutami. Sempre più urgente. Aiutami.
Sempre più flebile. Sempre più sconsolato. Aiutami. E così aprii di scatto la
portiera e mentre ero a metà sceso dalla macchina vidi
che lei armeggiava con la piccola borsetta a tracolla.
Si,
proprio mentre cominciavo ad amare sempre più teneramente Erika ed ad odiare
sempre più ferocemente quell'uomo che ancora non
vedevo in faccia, nell'attimo in cui ero ancora di traverso nel sedile, mi
accorsi che lei armeggiava con la borsetta. Frugava nella borsetta a due mani,
sempre più in fretta con ansia, con disperazione. Vidi qualcosa di lucente
nelle sue mani e sperai fosse un'arma, magari un
coltello, una pistola, qualcosa. Ammazzalo, dissi tra me, sì, ammazzalo come un
cane. Mi tastai le tasche ma non avevo niente. Solo le
chiavi. Chiavi piccole, leggere. Ma ho le mani e con quelle ti posso aiutare
piccola. Magari, piccola, lo tengo fermo da dietro, quell'uomo,
mentre tu lo infilzi o gli cavi gli occhi. Lo scanniamo in
due, quel porco schifoso. O lo farò io per te. Non per le sberle, non
solo per quelle. Perchè tu non sei un pezzo di carne, ecco perchè. Poi insieme,
pensai, saliremo in macchina, se ci sarà ancora Mario e la macchina. Lo
lasceremo a terra quel porco, magari svenuto, sanguinante. Morto magari.
Questo
pensai in quel secondo. Ma Erika ricacciò in fretta nella borsetta la cosa
lucente e nel movimento che fece vidi che era una cosa piatta, forse un
portacipria o uno specchio. Non potevi ferirlo con quello, piccola, e forse per
questo, pensai, per questo continui ancora a frugare e frugare nella borsetta.
Magari il coltello lo tieni più giù, in fondo, tra il portacipria, il rossetto
ed i preservativi, tutte avete un coltello nascosto, lo devi trovare. Trovalo,
maledizione. Trovalo.
Proprio
quando mi misi a correre lei trovò qualcosa. Sì, trasse qualcosa dalla borsetta ma non era un coltello né una pistola. Erano i
nostri soldi, tutta la mazzetta e li mise sotto il naso del magnaccia. Glieli
mise in mano, proprio nella stessa mano che le aveva tirato quelle due sberle
potenti e poi gli gettò le braccia al collo. Ecco cosa fece. Le braccia al
collo, gli gettò. Sì, proprio così, gli mise le braccia intorno al collo mentre il magnaccia, tranquillo, infilava i soldi in
tasca e intanto Erika, tirandosi su, proprio sulle punte delle scarpe, lo
baciò. Lo abbracciava e rideva, capisci? Rideva, persino, tra un bacio e
l'altro.
Mentre
rientravo in macchina, battuto ed ansante come dopo una lotta feroce, odiai
Erika nel suo ridicolo costume di puttana, la continuai ad odiare con tutte le
mie forze per il suo schifoso odore di profumo scadente, di sudore e di sperma.
L'odiai per quelle sue gambe troppo lunghe ed allampanate che scendevano da una
spanna di stoffa da due soldi e per quegli scarti di vetro colorato comprate al
mercato delle pulci. Odiai quel suo ventre troppo piatto,
i suoi fianchi volgari e quei seni puntuti che tendevano la camicetta sudata.
Quando
Erika si allontanò a piccoli passi, ticchettando accanto a quell'uomo
sui suoi patetici enormi tacchi a spillo, mi storsi ancora una volta sul sedile
e mentre la macchina si avviava riuscii appena a vedere i suoi capelli lisci,
nerissimi, tagliati corti che facevano da cornice ad un viso tondo, da bambina,
con gli occhi neri e una bocca impertinente.