Dalla
voce di lui
di
massimolegnani
La
sento imprecare appena entrata in casa, una furia che mi dà
sui nervi ma non voglio darle la soddisfazione di incazzarmi. Prima
che varchi la porta della camera da letto cerco di concentrarmi su
qualcosa di banale per non farmi coinvolgere dalle sue grida. Ecco,
mi metto a far ballare la ciabatta sulla punta del piede.
Le
cose tra noi non funzionavano da tempo, poi sono precipitate da
quando lei ha ottenuto quella maledetta promozione: si è
montata la testa, si crede una top-manager e vorrebbe trattarmi come
l’ultimo dei suoi sottoposti, la stronza. La mattina si veste e
si trucca come dovesse andare a una sfilata, esce tutta impettita
mentre io resto a casa a scrivere. Durante la giornata non si fa mai
viva, e le poche volte che lo fa è per pavoneggiarsi che ha un
pranzo di lavoro o un cocktail con dei clienti stranieri. E in che
lingua parla con questi fantomatici stranieri lei che infila
strafalcioni pure in italiano? A sera torna quando le pare e si
atteggia a gran donna sfinita dal lavoro. E non lavoro pure io? Ma io
non la metto giù dura, non mi vanto né mi lamento con
lei delle mie alterne fortune in campo letterario.
L’altra
sera non ne potevo più delle sue vanterie e le ho sibilato:
cara, tu resti l’impiegatuccia che eri, anche se hai
ottenuto due scatti di carriera: considera che sono solo due pioli
nella scala degli schiavi. Solo io sono un uomo libero.
Non
l’ha presa bene, mi ha accusato di essere meschino, invidioso
dei suoi successi. Mi ha sbattuto la porta in faccia ed è
andata a dormire sul divano. La riconciliazione, poco più di
una tregua armata, è arrivata dopo due giorni di musi lunghi.
Ma
questa sera è peggio, sembra un’indemoniata, sbraita,
impreca in corridoio, spalanca la porta della camera insultandomi. Io
sono ancora alle prese con la ciabatta, la lancio in aria e la
riprendo al volo col piede. Guarda, le dico. E le faccio un
gran sorriso.
Lei
mi guarda esasperata e mi rovescia addosso una sfilza di ingiurie da
scaricatore di cassette ai mercati generali. Il motivo di tanta
veemenza è che non le ho preparato nulla per cena. Non ribatto
agli insulti, mi mostro conciliante, le faccio solo notare che è
quasi mezzanotte, un po’ tardi per cenare e comunque ci sono i
miei avanzi in frigo. Lei scambia la reazione composta per
arrendevolezza e torna alla carica. Si avvicina, mi guarda con odio e
mi tempesta la pancia di piccoli pugni. Io dapprima rido come mi
facesse il solletico, poi, quando aggiunge sei un bastardo
incapace e menefreghista, m’inalbero. Mi alzo in piedi, la
spingo contro la parete, premo la mia fronte contro la sua, le parole
mi escono in un sibilo sottile, tagliente: come puoi pensare che
ti prepari la cena mentre tu ti stai facendo sbattere come una
zoccola dal tuo capo.
Silenzio.
Si
lascia scivolare giù fino a terra coprendosi il viso tra le
mani. Io la considero un’ammissione di colpevolezza. La lascio
lì a piangere e mi infilo sotto le coperte. Spengo la luce,
non far rumore quando vieni a letto.
Non
dormo, ascolto il suo pianto sommesso da coccodrillo. Va avanti a
lungo, poi c’è un lieve tramestio di cassetti fatti
scivolare sui cardini, il frusciare di indumenti tirati fuori alla
cieca, passi felpati che escono dalla stanza. E dopo qualche minuto
di assoluto silenzio sento la porta di casa sbattuta con rabbia.
Amen,
ora posso dormire.
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