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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Ai piedi dell'arcobaleno, di Cesarina Bo 18/07/2007
 

Ai piedi dell'arcobaleno

di Cesarina Bo

 

Anita spalanca la finestra e respira con voluttà l'aria fresca.

Il violento temporale è finito: la grondaia e le piante sono ancora gocciolanti, ma il cielo si sta rischiarando. Come ipnotizzata fissa il bellissimo e completo arcobaleno che si staglia nel cielo pulito,verso est.

Rimane immobile a contemplarlo, mentre con la mente ritorna ad alcuni episodi della sua vita che, da sempre, ha  collegato ai colori. In quell'arcobaleno, però, alcuni dei suoi colori mancano. Come, ad esempio, il grigio.

Il grigio era il colore del periodo universitario. Grigio era il severo e antico edificio dove aveva studiato, grigio era lo smog che ricopriva la città in cui si era recata per frequentare la facoltà di giurisprudenza. Anche i professori, quasi tutti anziani, si erano rivelati pedanti, noiosi, grigi come le discipline da loro insegnate. Quei cinque anni erano trascorsi senza che alcuno scossone  l'avesse distolta dallo studio o avesse dato una nota di colore diverso alla sua vita.

Per tutto quel periodo aveva vissuto in un convitto di religiose dove vigevano regole rigidissime; il coprifuoco imposto –alle nove di sera chiudevano inesorabilmente il portone- le aveva impedito di approfondire le conoscenze, al di fuori dei normali incontri che faceva, durante il giorno, all'università. Così si accontentava di sentire i resoconti delle feste e delle uscite delle sue compagne di corso invidiandole per la loro spigliatezza e sicurezza. Dava la colpa della sua situazione alle stupide regole imposte dalle suore, ma, in realtà, a quell'epoca, era timidissima ed introversa. Si sentiva inferiore rispetto alle sue coetanee perché arrivava dalla campagna, non vestiva all'ultima moda e, soprattutto, non aveva ancora avuto un ragazzo.

Un giorno, mentre aspettavano l'arrivo del professore di diritto civile, una ragazza a bruciapelo le aveva chiesto:

“Ma tu sei già stata a letto con un ragazzo?”

Anita era arrossita e aveva scosso la testa.

“Beh… allora non è giusto che tu stia a sentire quello che diciamo noi sui nostri ragazzi se, poi, non ci puoi raccontare niente…” Le altre avevano annuito e lei si era allontanata in silenzio, mortificata.

Nel periodo grigio si era dedicata completamente allo studio e avevo accolto, quasi come una liberazione, il giorno della laurea. Grazie all'interesse del professore con cui aveva preparato la tesi, aveva trovato subito un impiego in uno studio legale di una ridente cittadina di provincia.

Lì era iniziato il periodo più felice della sua vita, quello che lei aveva definito come il periodo giallo.

Anita sorride mentre fissa la striscia gialla dell'arcobaleno: i ricordi la riportano indietro di un paio d'anni anche se le sembra che, da allora, sia trascorsa un'eternità.

A quell'epoca sembrava che tutto andasse per il meglio: il lavoro la gratificava rendendola finalmente indipendente, i colleghi dell'ufficio l'avevano accolta con simpatia e lei era piena di attese per la vita che le si apriva davanti.

Una domenica di fine giugno era stata inaspettatamente avvicinata da Ermanno, un uomo che conosceva di vista,  cliente assiduo dello studio legale in cui lavorava.

Anita l'aveva notato sin dai primi tempi del suo impiego per il suo fascino -non dimostrava, certamente, d'avere vent'anni più di lei- e per la sua simpatia: tutte le volte che entrava nello studio non mancava di fermarsi vicino alla  sua scrivania per un saluto e uno scambio di battute.

Era terminata da poco la messa e lei si stava attardando sul sagrato della chiesa per riscaldarsi al sole, quasi accecata dal riverbero della luce sulle pietre bianche dell'edificio,  quando Ermanno era comparso al suo fianco. L'uomo l'aveva presa confidenzialmente sottobraccio e l'aveva fatta sobbalzare perché non si era accorta del suo arrivo.

“Ecco il mio avvocato preferito!” aveva esclamato con il suo modo di fare scherzoso. Poi aveva aggiunto:

“E' una bellissima giornata… che ne dici di fare un giro sulla mia moto nuova?”

L'invito l'aveva colta di sorpresa e, allo stesso tempo, riempita di gioia. In effetti l'idea di passare una domenica in solitudine non l'allettava affatto. Ermanno, poi, le era sempre piaciuto e più di una volta aveva segretamente sperato che si accorgesse di lei. Così aveva accettato, felice, l'appuntamento per il primo pomeriggio: sarebbe passato a prenderla con la sua moto e sarebbero andati in giro.

Avevano vagato a lungo, senza meta, per le campagne coltivate a grano ammirando le interminabili distese di colore giallo dorato. Alla fine si erano fermati all'ombra di una quercia solitaria e seduti a terra, in silenzio, si erano scambiati un bacio.

Il temporale ha rinfrescato l'aria e Anita sente freddo, ma, ostinatamente, resta alla finestra. Si stringe il golfino addosso e intanto ripensa al caldo immobile di quel pomeriggio domenicale dove tutto le era sembrato perfetto.

Da quel giorno avevano iniziato a frequentarsi con assiduità ed esattamente un anno dopo il loro primo incontro si erano sposati. Ermanno aveva voluto una cerimonia in grande stile e non aveva badato a spese nell'addobbare la chiesa. Aveva scelto solo fiori gialli: rose, tulipani, gladioli, gerbere ornavano le colonne, l'altare, i banchi. Sembrava che il sole fosse entrato nella chiesa e avesse preso posto tra gli invitati.

Anche l'abito da sposa di Anita era di colore giallo tenue, come aveva deciso e scelto Ermanno. La donna si era opposta ricordandogli che portava male alla coppia se il futuro sposo vedeva l'abito prima del giorno del matrimonio, ma Ermanno si era messo a ridere:

“Non dirmi che credi a queste cretinate!”

Così era andato personalmente a ordinarlo in un esclusivo atelier e l'aveva voluto sontuoso e ricco di pizzi: “Devi essere la sposa più bella del mondo!”

Dopo un mese di matrimonio Anita era rimasta incinta. L'avevano stabilito insieme sin dall'inizio: vista la sua non più giovane età, Ermanno voleva avere un figlio al più presto e lei aveva acconsentito, felice dell'idea di formare una vera famiglia.

Anita osserva con attenzione la successione dei colori dell'arcobaleno, senza riuscire a distoglierne lo sguardo: rosso, arancione, giallo, verde... Anche nella sua vita al periodo giallo era seguito quello che aveva definito come il periodo verde.

 

Un brivido le sale lungo la schiena al ricordo di quanto le era successo sette mesi dopo aver concepito il bambino. Le sembra di sentire ancora addosso la stessa sensazione di freddo provata mentre giaceva, nuda, sul lettino della sala operatoria e un giovane chirurgo vestito di verde cercava di tranquillizzarla. Allora aveva annuito, ricacciato indietro le lacrime e aveva fissato un punto indefinito sulla parete dipinta di un pallido verde, pregando Dio affinché tutto andasse bene.

Il nero non è un colore; il nero è assenza di colori. E i colori per Anita hanno, da sempre, rappresentato sensazioni e sentimenti: in una parola, la vita. Senza i colori, quindi, non c'è vita, proprio come le era successo nella sua infanzia. Di quel periodo ricorda le figure della madre e della nonna sempre vestite a lutto con lunghi abiti neri, le calze velate scure e le facce tristi e segnate dal dolore per la morte improvvisa di suo padre, avvenuta poche settimane prima della sua nascita; risente le parole appena bisbigliate con cui le due donne le parlavano invitandola a non alzare la voce o a non ridere troppo forte come se la salma di suo padre fosse ancora lì in casa, presente e ingombrante, mai sepolta.

Quando si era risvegliata in quella camera d'ospedale aveva immediatamente chiesto all'infermiera come stesse suo figlio. Lo sguardo imbarazzato della donna era stato eloquente più di una qualunque risposta; poi aveva detto: “Aspetti signora, le chiamo il dottore”. E il dottore era venuto, si era seduto vicino ad Anita e aveva iniziato a parlare. Era stato un lungo discorso, pieno di termini tecnici, spiegazioni scientifiche. La mente della donna aveva afferrato solo due brandelli di quell'interminabile discorso: “… suo figlio non è sopravvissuto…non potrà avere altri bambini…”.

Poi il ritorno a casa e la freddezza con cui venne accolta da Ermanno. Giorno dopo giorno divenne evidente che suo marito si stava allontanando: rifiutava di parlare del futuro, evitava di avvicinarla, usciva da solo sempre più spesso senza darle una qualunque spiegazione o giustificazione.

Il giorno del primo anniversario Ermanno le aveva comunicato in modo brutale che intendeva lasciarla.

“Ti ho sposata solo perché desideravo un figlio e tu non me lo puoi dare, quindi non c'è ragione per stare insieme”.

A quelle parole crudeli Anita non aveva risposto: aveva abbassato il capo ed aveva taciuto annichilita dal loro peso. Da quell'istante la sua vita era rimasta senza colori. Il nero, il non colore, era tornato nella sua vita.

L'arcobaleno sta scomparendo: Anita afferra con entrambe le mani l'inferriata infissa al vano della finestra e cerca di sporgersi per essere un po' più vicina ai colori e alla vita.

Tra non molto le guardie carcerarie la scorteranno nel cortile per la solita ora d'aria: peccato, pensa, che l'arcobaleno stia svanendo.

Una vecchia leggenda narra di una pentola piena di monete d'oro ai piedi dell'arcobaleno. Ad Anita viene da sorridere di questa storia perché lei, ai piedi dell'arcobaleno della sua vita, ha lasciato il cadavere di suo marito.

 
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