IAMOR
di Enzo Lombardo
Marta ti aveva lasciato da poco ed
eri triste, Michele.
Quella donna ti aveva ferito ma avevi bisogno del suo violino. Dicevi che avevi
chiuso a chiave la ribalta del pianoforte dopo che era andata via. La tua
musica solitaria ti annoiava, dicevi, ma avevi bisogno di musica per non
impazzire nel silenzio.
Forse per questo venivi ogni sera a
strimpellare il piano nel Bar Ugo e ti univi a noi con un mezzo sorriso, anche
se credo che in quel periodo noi esistevamo ben poco nel tuo universo
solitario.
“Una birra scura”, dicevi ad Ugo. Poi
ti dirigevi verso il vecchio pianoforte verticale che ammuffiva in un angolo e
cominciavi a suonare quasi in sordina.
Quel pianoforte dava una nota
culturale al locale, ma era scordato. Non aveva visto un accordatore da decenni
e la sua gamma tonale si estendeva dal suono di una campana fallata ai lamenti
di un gatto. Dopo un pò anche quei
suoni inconsueti ti annoiavano e ti guardavi in circolo per incontrare i
nostri sguardi. Quello di Cesare, di Mario ed il mio.
Quella sera ti sei soffermato sempre
più spesso su quello di Mario. Chissà cosa leggevi in quello sguardo, Michele. In effetti c'era qualcosa, in quegli occhi rimpiccioliti
dalle lenti spesse. Un luccichio strano che si sposava bene con quel mezzo
sorriso che gli stirava la bocca.
Quando sorrideva così, Mario
diventava odioso.
Ora penso che ce lo
tiravamo dietro, qualche sera, perché di uno così ne avevamo bisogno per
sentirci migliori. Quando Mario era con noi, i suoi piccoli entusiasmi e le sue
idee assurde s'intrecciavano con la nostra noia e la facevano lievitare in una
bolla gonfia di superiorità che sembrava desse un po'
più di calore alle squallide serate passate a strofinarci i gomiti nei tavoli
unti del Bar Ugo.
Era una bolla di vita falsa, lo
sapevamo, pronta a scoppiare nella depressione, ma finché era tesa e gonfia ci stava bene. Ci vivevamo dentro come in un bozzolo
caldo e fetido.
E quando Mario esponeva, sbracciando
e smaniando, qualche nuovo progetto, sguardi d'intesa s'intrecciavano ed,
appena lui volgeva altrove gli occhi, noi ammiccavamo, sbuffavamo,
sottolineavamo il nostro dissenso. Così almeno per un po' ci sentivamo vivi.
Forse per assaporare un po' di questa
strana vitalità tu aprivi i tuoi occhioni da bue
mansueto e facevi oscillare il testone ricciuto in una parodia d'attenzione anche se forse non t'importava un fico di quello
che Mario stava dicendo.
E quella sera Mario sembrava spararle
grosse. Bordate che per un momento ci colpivano e ci inchiodavano alla sedia.
- “Il lavoro c'è, cari miei” – stava
declamando con la sua voce acuta, quasi in falsetto – “basta
inventarlo. Agire. Muoversi nel senso della richiesta. Insomma, seguire le
leggi del mercato.”
Forse voleva confonderci con i poveri
resti del suo sapere economico che gli erano rimasti appiccicati nei lunghi
dormiveglia universitari.
- “Va bè,
va bè, e dunque?” – facesti tu, tanto per dire
qualcosa.
- “Se è giusta la base teorica è
possibile l'obiettivo. Ed io agisco. Mi muovo. Attuo l'obiettivo. Seguo l'idea.”
- “Che sarebbe?” – Eri sempre tu,
Michele. Ti stavi scuotendo di dosso la malinconia e sembravi quasi del tutto sveglio.
La risposta non arrivò. Al suo posto
arrivò una domanda idiota. Dio, come odio chi risponde ad una domanda con
un'altra domanda! Se poi la seconda domanda è idiota, l'odio raddoppia. L'avrei
fatto a fette, Mario, quella sera, quando disse:
-“ Secondo voi che rapporto c'è tra
furbi e gonzi?”
Un silenzio innaturale cadde in quel
bar quasi deserto. Un tizio seduto sullo sgabello davanti al bancone, smise di
confabulare con Ugo e si girò verso di noi. Avevamo tutti le
sopraciglia corrugate. Non capivamo.
- “Se non lo sapete, ve lo dico io:
di uno a nove. Come dire che ogni mattina per ogni essere pensante che si
sveglia nove gonzi aprono gli occhi. Un mercato enorme. Una potenzialità da
capogiro. Una messe matura. Un campo da arare. Una...”
- “Stop! Stop! Rallenta! Frena!” –
fece Cesare alzando una mano a palma tesa - “Abbiamo capito! Uno a nove. E
naturalmente tu sei l'uno, l'essere pensante, l'eletto! Gli altri sono i fessi.
Per pura curiosità, Mario, illuminaci: per te noi saremmo...?”.
Te lo ricordi l'ottimo Cesare? Un animo
nobile, ma dall'incazzatura facile. E quella sera
sembrava proprio su di giri dopo due birre in bicchieri enormi.
Mario sorrise. Era il sorriso di un
essere mansueto. Avrà avuto tanti difetti, quel Mario, ma in compenso era
riuscito ad affinare una speciale arte del sorridere che (ne eravamo certi)
nascondeva la sua profonda
ipocrisia, camuffandola e cesellandola in modi subdoli e
sdolcinati, tanto da nasconderla ad occhi profani. Quindi sorrise, mansueto. Il
suo sorriso sembrava dolce, pulito, quasi etereo nella sua semplicità.
Ma quella sera a Mario non bastò
sorridere: ormai eravamo conoscitori smaliziati di quei sorrisi. Quindi Cesare ribadì con più enfasi e con una
nota minacciosa nella voce:
- “Quindi per te gli altri, cioè
quasi tutti, noi compresi, saremmo... eh? dillo...
dillo... tutti fessi o, come dici tu, tutti gonzi?”
- “Oh, ma che avete capito voi due?
Io l'eletto? Macché! Io non parlo solo di me... non è così semplice. E'
statistica, cari miei, statistica... E poi, voi cosa c'entrate? Io parlo dei semplici, diciamo
pure dei poveri di spirito. Voi vi sentite semplici, poveri di spirito?”
L'arte di Mario di saper svicolare
non ci sorprese. Eccola: viscida e subdola. Non solo ci aveva tappato la bocca:
ci stava adulando a piene mani. Aveva aperto le porte del suo club esclusivo e
con quel sorriso sulle labbra ci stava invitando ad entrare. Eravamo anche noi
gli uni, gli eletti.
Anche il tizio seduto al bancone
aveva sentito. Forse si sentì escluso dal club perché ci diede un'occhiata di fuoco,
alzò le spalle con un grugnito e masticò fra i denti un “Ma andate a ...” prima di girarsi di nuovo verso
il bancone.
- “Quindi...” - continuò Mario a voce più bassa – “il
segreto sta tutto nel dare un prodotto appetibile ai nove. Qualcosina
ben confezionata... un prodottino facile
facile, di pronto consumo. Qualcosa che li
attiri e li faccia contenti. Magari felici, perchè no? Contenti loro, contento
io. Lavoro assicurato. Soldi, capite? Soldi!”
Peccato, Michele, non poter
descrivere con tratti fotografici l'ampiezza che avevano raggiunto i tuoi occhi
in quel momento. Illuminavano il tuo viso con scintille di voluttuosa
concupiscenza.
- “Soldi?” – dicesti. Ed in quella
parola si annidavano mesi di scarsa produzione, abbandoni di allievi disamorati
dell'arte pianistica, pigioni da pagare e spartiti comprati a credito. “Soldi?”
– ripetesti con quella voce un po' stridula che usi quando
sei del tutto sveglio. -
“Quanti soldi?”
- “Dipende. Sono in gioco un mucchio
di fattori: c'è la variabile logistica, l'impatto pubblicitario, la curva della
domanda, la...”.
Cesare ed io alzammo le mani con un
gesto teatrale, interrompendo la lezione.
- “E le cosine da vendere ai gonzi
chi te li dà? Li rubi, forse? Li prendi a credito?” Era di nuovo Cesare. Il
solito Cesare. Un tipo pratico: mica lo potevi
confondere con lezioni di economia. - “E poi, dimmi, dove li venderesti i tuoi
prodotti, sul marciapiede?”
A questo punto Mario si accomodò
meglio sulla sedia, stirò le gambe sotto il tavolo (penso che le avrebbe messe
volentieri sopra il tavolo se non fosse stato ingombro di bicchieri e
bottiglie) e abbandonò quel suo perenne sorriso per assumere un'aria vagamente
manageriale.
- “Non c'è niente o quasi da
comprare.” - disse - “Solo da vendere. Un minimo di organizzazione ci vuole, è
vero... anche qualche carabattola... poca roba. Per il resto è semplice. Il
posto l'ho già adocchiato. Ho elaborato anche un nome che dia
assonanze, riferimenti subliminali... Insomma: fra un paio di giorni venderò
speranza, sogni, chimere. Felicità.”
Così dicendo Mario ritirò le gambe da
sotto il tavolo, si diede una scrollatina alle spalle
e con fare neglittoso si divincolò dalla sedia e si
alzò. Ricordo come osservava divertito le nostre facce dai menti cascanti, le
bocche aperte, mentre diceva, con un certo sussiego, puntandosi l'indice sul
petto:
-“Vi presento Iamor, il Mago dell'Amore e della
Fortuna. Adesso vado: ho un mucchio di cose da fare. Ah, - fece
mentre era già sulla porta - i biglietti da visita non ve li posso
ancora dare, sono in tipografia.”
*
* *
Mario aveva aperto lo “Studio” (così
lo chiamava) in una via della vecchia periferia della città, ancora zeppa di
povera gente e di case terrane fatiscenti, molte di
queste sfitte od abbandonate da tempo in attesa delle
ruspe.
In quella strada grossi pezzi di
pietra lavica uscivano dai muri scrostati e facevano da contralto al verde
bottiglia delle porte e delle imposte. Alcune di queste, accostate, facevano
intravedere il luccichio di televisori e mobili bar laccati e vistosi, con le antine aperte, gli specchietti luccicanti a formare piccoli
arcobaleni, qualche bottiglia riflessa.
In altre case si potevano vedere i
grandi letti composti, con coperte drappeggiate, stoffe lucenti, sfarzose, dai
colori cangianti. Alcuni letti erano anche adornati da bambole e cuscini e,
sopra la testiera, i componenti della Sacra Famiglia o visi di Madonne
sorridevano mesti in cornici ovali.
Sbirciando meglio si potevano vedere,
sui canterani, statuine di santi e madonne, protetti da campane di vetro e
qualche lumino elettrico acceso davanti a grandi fotografie incorniciate.
Molte
case non erano neppure intonacate nella facciata e gli usci si aprivano su quell'unica stanza che era insieme camera da letto, da
pranzo, salotto e cappella privata.
Si
sentiva dappertutto, quasi palpabile, l'impari lotta contro una povertà che
marchiava ogni cosa e che rendeva addirittura commovente il velo di dignità con
cui si tentava di coprirla o esorcizzarla.
Però non era triste, quel posto, e
non erano tristi i ragazzini che si rincorrevano giocando, alcuni a piedi
scalzi o con sandali sfilacciati. Né apparivano tristi le donne, indaffarate a
parlare con le vicine sporgendosi dalla mezza porta che fungeva anche da
balcone sulla strada, nè i vecchi seduti davanti
all'uscio, il sigaro spento all'angolo della bocca, il busto eretto e l'aria
austera di chi conosce il mondo.
Lo Studio
del Mago Iamor era in una casa un pò sopraelevata, a metà della via. Alcuni gradini
sbrecciati portavano ad un minuscolo terrazzino su cui si apriva una porta che
era stata dipinta di recente e su cui spiccava un piccolo rettangolo colorato,
identico al biglietto che Mario ci aveva dato qualche tempo addietro.
Eravamo
tu ed io, ricordi? Cesare no. Non doveva saperlo,
Cesare, di questa nostra visita. Non condivideva. Non accettava. Neppure la
curiosità, accettava. Era un duro, Cesare.
-
“Boiate” - aveva
detto quella sera dopo che Mario era uscito dal bar. Disse che l'avrebbe detto
anche prima, sì, glielo avrebbe detto proprio sul muso, se non fosse stato
paralizzato per la sorpresa e se Mario non fosse sgattaiolato fuori del bar di
premura.
-
“Sfruttare la povera gente! I gonzi! I poveri di spirito! Uno a nove! E lui?
Chi sarebbe lui? Chi si crede di essere, lui? Un genio della finanza? Un
indovino, un mago?! Un immorale, uno scarafaggio
schifoso, ecco cos'è! Solo ad uno
scarafaggio schifoso poteva nascere una simile pensata! E che si tenga in corpo
le sue idee, invece di cacarle in giro!” -
Questo ci
disse Cesare, quella sera, e tanto altro ancora che adesso non ricordo.
Ma
ricordo bene che tu, Michele, ad un certo punto hai tirato fuori la penna ed
hai cominciato a scarabocchiare qualcosa su un tovagliolo di carta.
- “Iamor! - facesti battendo un pugno sul tavolo che fece
traballare bicchieri e bottiglie – Un anagramma: ecco cos'è Iamor!
Altro che ricerche di assonanze e riferimenti subliminali: quel pazzo si è
anagrammato il nome suo!”.
Io,
quella sera, mi dichiarai proprio nauseato. E voi due avete approvato la mia
nausea credendola diretta contro Mario e le sue
pensate idiote. Ma non era solo per Mario o Iamor,
quella nausea. Erano nauseanti quei i bicchieri vuoti sporchi di schiuma, era
nauseante il tavolo traballante, la rabbia eccessiva di Cesare, e perchè no? anche il tuo viso disfatto e cascante per le pene d'amore.
Ma soprattutto a darmi il voltastomaco era la noia che sentivo dentro e che
leggevo nel mio viso quando di sfuggita lo vedevo
riflesso nelle specchio dietro il bancone.
E quella
noia, quel malessere, mi fece pensare che almeno Mario qualche idea schifosa,
in fin dei conti, l'aveva, qualche entusiasmo magari
cretino, magari ributtante, è vero, ma qualcosa...
Era un
pensiero minuscolo, un pensiero proibito: mi si affacciò alla mente di
soppiatto ed io lo rincantucciai a forza nel cervello, lo nascosi più in fondo
possibile nei suoi meandri perché non ne uscisse neppure il profumo
ma non potei distruggerlo del tutto. Anzi, per allontanare meglio quel
pensiero, mi misi anch'io a pontificare e - dopo un altro giro di bicchieri -
anche i miei pugni sul tavolo e le mie risate si unirono alle vostre in un
sacrificio collettivo di Iamor e del suo creatore e
dopo un pò cominciai a sentirmi meglio. Più alto di
una spanna.
Nei
giorni e nelle settimane che seguirono evitammo accuratamente di incontrare
Mario. Addirittura ci facemmo negare un paio di volte al telefono e smettemmo
di frequentare il Bar Ugo in certe ore della sera.
Di Mario
non si parlò più o quasi, tra di noi. Solo qualche
cenno, con una smorfia di disgusto.
Ma quando,
dopo un paio di mesi, lo incontrai per caso in una via del centro, non potei
proprio fare a meno di chiedergli come andava. “Sì, - precisai - quella tua
nuova attività, sai... quella del Mago... comesichiama,
quello dell'amore e della fortuna.” E lui non si fece pregare: non c'era più
sussiego e tracotanza in quella voce. Non accennò più a messi mature e campi da
arare nè a gonzi e poveri di spirito. Parlò solo di
lavoro. Di orari. Parlò di Iamor in terza persona,
senza enfasi, con parole misurate, proprio come se parlasse di un suo nuovo
amico che lavorava in banca o alle poste.
- “Ed i
soldi?” - feci io - “Guadagni bene?”
- “Oddio,
nella fase iniziale di assestamento... sai com'è! Però non va male. Certo c'è
il recupero dei costi, l'affitto, le strutture... ma
qualche soddisfazioncina finanziaria c'è. Piccola, ma
c'è. E poi, non è solo quell'aspetto che conta...”
- “No? E
che altro?”
- “Come
dirti? Beh... non si vive di solo pane...”
Lo
guardai meglio e mi venne di scoprire cosa mi nascondeva ancora. Così lo
stuzzicai e dissi con un sorriso furbo:
-
“Insomma, i gonzi pagano e ti fanno anche qualche favoretto
in aggiunta? Magari sono le gonze, eh? Forse c'è di mezzo
qualche gonza belloccia, qualche moglie insoddisfatta, qualcuna che più
che fortuna cerca amore e lo trova bello e pronto nel divano del tuo studio?
Insomma, hai degli extra?”
Mario
fece una smorfia e scrollò il capo:
- “No, no. Non è questo. Può anche succedere, ma non è successo.” - disse. Poi la sua voce divenne tagliente come un rasoio
- “Comunque io non sto lì a vendere sesso e non ne
compro. Io lavoro.”
Pensai
d'averlo offeso ma mi sbagliavo: doveva essere ormai
abituato alle frecciate della gente. Anzi prima di salutarmi mi invitò ad
andare a trovarlo nel suo “studio” e tirò fuori un biglietto da visita.
E fu
proprio il suo atteggiamento così distaccato, l'uso di termini quasi
burocratici, ed una nuova vivacità nello sguardo, che insieme accesero dentro
di me una scintilla di curiosità. Una cosa minuscola, certo, il guizzo di un
cerino, una fiammella tremolante che però non voleva spegnersi.
E quella
fiammella, alimentata dal soffio tiepido ed insulso della noia, continuò a
bruciare per giorni e giorni e non si spense neppure quando
tu, Michele, mi ripetesti - quasi parola per parola - quello che dicemmo quella
sera, al bar Ugo. Quella fiammella di curiosità adesso si allargava e diventava
più viva man mano che parlavamo tenendo sotto gli
occhi quel suo biglietto da visita, colorato e pacchiano, in cui “Iamor” galleggiava assieme a cuoricini e cornucopie dorate
tra l'indirizzo e gli orari di visita.
Oh sì,
Michele, quella fiammella dispettosa si attaccò anche a te come ad una
fascina secca con il vento di scirocco.
* * *
Così
andammo noi due, Michele, a varcare la soglia dello
“Studio” (la porta era solo accostata) ed ad immergerci in una semioscurità che
odorava vagamente di incenso.
Subito ci
apparve vuota, quella stanza. Solo qualche sedia appoggiata alle pareti,
quattro o cinque quadretti con stampe di vecchi tarocchi attaccati qua e là ed
un tavolinetto basso, bruciacchiato e rigato in più
punti, nel mezzo. Quando abituai un poco gli occhi all'oscurità mi sembrò di
scorgere, vicino ad una porta chiusa che doveva essere l'accesso allo studio
del mago, anche un trespolo di legno, in un angolo, con sopra il busto di gesso
di qualcuno e, nell'altro angolo, un vecchio portaombrelli con dentro una mezza
dozzina di penne di pavone.
Tutta
roba di seconda mano e molto usata, pensai, non è che se la passa troppo bene
il mago, a quanto pare.
In una
sedia vicina alla porta d'ingresso che, aprendosi all'interno, la nascondeva,
stava seduta una donna anziana, vestita di nero. Alla poca luce di un'unica
finestrella ovale che dava sulla strada, schermata da una tendina merlettata,
potemmo vedere quel viso scarno, che ci fissava con occhi curiosi.
- “Dovete
aspettare.”- ci
disse a mo' di saluto - “Di là c'è una amica mia. Roba lunga. Delicata. L'ho
accompagnata io, ché ne aveva bisogno, povera figlia. Ma, dato che sono qua, approfitto. Roba di un minuto è la mia. Faccio presto.”
Il fatto
che ci sedemmo in silenzio la rassicurò che non volevamo soffiarle il posto. La
rassicurò di più quel mezzo inchino che facesti, sedendoti.
Tu,
Michele, davanti ad una vecchia signora diventi un angelo. Ti adorano le
vecchie signore quando fai i tuoi mezzi inchini.
- “Eh, le
cose d'amore sono lunghe...” - continuò la vecchia signora che a quanto pare non amava il silenzio - “Bisticci, tradimenti...
pene d'amore... Specie quando s'incontrano certuni che te li raccomando... La
mia no, la mia è una questione d'interesse. Cosa breve, la mia. Cosa facile. A
me deve dire solo se arriva o non arriva. Una parola sola voglio: un si o un no.”
- “Chi
deve arrivare, signora, se è lecito?” - dicesti tu tirando fuori un tono
delicato che sarebbe stato bene nel contesto di un giovedì letterario ma che in
quella stanza sembrava storpiato e falso.
-
“Benedetto iddio, caro ragazzo, l'assegno, no? Mesi e mesi che aspetto quel
pezzo di carta e non arriva.” - Poi alzò un poco la
voce e fece un gesto di stizza con la mano in aria e subito dopo l'indice, il
medio ed il pollice di quella mano si misero a ruotare per l'aria come una
trottola impazzita:
- “Tre
mesi, sono! Capite? Tre mesi giusti giusti
da che è morto mio marito, che stia in pace!”
Poi
abbassò un poco la voce, si agitò sulla sedia, si sporse come per confidarci un
segreto e ci disse in un soffio:
-
“Un'anima santa, mio marito. Da morto. Magari adesso sarà in Paradiso, pace
all'anima sua. Ma, ci credereste? anche da lassù
continua a farmi dispetti!”
Vecchia
pazza, pensai, mentre tu, con la tua flemma infrangibile domandavi, con la
massima naturalezza e serietà, se aspettava un assegno dal Paradiso.
- “Che
Paradiso e Paradiso! Bello mio, non sono pazza. L'assegno l'aspetto dalla
Previdenza sociale, altro che Paradiso! ...Anche se sembra che deve arrivare
proprio dall'altro mondo!”
Quindi
aspirò una lunga boccata d'aria ed emise un lungo sospiro con solo un accenno
di catarro, poi,
con un crescendo vigoroso, proseguì:
- “Doveva
arrivare il mese scorso la pensione di mio marito. E va bene. Una cosa
matematica, mi disse l'impiegato, sicura! E la settimana passata? Sicura,
sicura, signora. Adesso parte. Ancora una firma. Sicurissimo che parte! Ed
invece niente! Ora, ditemi voi, come faccio a fidarmi ancora dell'impiegato
della previdenza? Quello dice sempre che parte, che parte, che parte... Cosa
parte se non arriva mai?!”
Poi
abbassò un poco il capo e c'era un filo di rabbia e di paura nella voce, quando
disse:
- “Ed
intanto io cosa mangio? Aria? Aria e promesse?” - Così dicendo, indirizzò un indice
ossuto verso la porta chiusa di fronte - “Ma lui me lo dirà. Oh sì, che me lo
dirà se questo mese arriva oppure no. Perchè lui lo
sa, lui lo legge nelle carte. E nelle carte c'è
scritto tutto, papale papale.
E' tutto scritto. E poi... chissà... magari conosce qualcuno alla Previdenza.
E' un dottore, sapete? E qualche miracolo in quei posti l'ha pure fatto, di
persona.”
Quel dito
ossuto vagava ancora per l'aria ma dopo un pò aveva cambiato direzione: ora era puntato verso di noi.
Mi sembrò, anzi, che tendesse in modo percettibile verso di te Michele.
- “Voi,
siete qui per amore, vero? Sfido io, giovani come siete! L'amore è importante a
questa età! Le cose d'interesse lasciatele ai vecchi.”
In effetti era un colloquio riposante. Non occorrevano
risposte perchè quella vecchia si rispondeva da sola. Quindi non ci restava che
fare spallucce, grugniti e assensi accennati con il capo: tutte cose che non
pregiudicavano quel soliloquio ininterrotto.
Convinta
che aveva visto giusto, la vecchia tirò un altro sospiro, bello lungo stavolta.
Da quando
eravamo entrati era la seconda pausa che si concedeva e fu proprio durante la
lunga emissione sospirosa che la porta di fronte si aprì e ne uscì fuori una
zaffata d'incenso assieme ad una buona metà del retro prosperoso di una giovane
donna, inguainato in una gonna a fiori. L'altra metà della donna, quella
davanti, era ancora nell'altra stanza a completare un saluto.
Quando
uscì fuori tutta dalla stanza, quella donna era davvero l'immagine vivente
della contentezza. Ancora giovane, trent'anni
al massimo, non proprio una bellezza. Però aveva un viso illuminato da un
sorriso così radioso e splendente che la rendeva quasi bella. Gli occhi poi!
Sembravano due piccole fiammelle dorate, vive, lucenti e guardavano lontano, un
punto infinito oltre le pareti, ignorandoci.
Saltellando
sui tacchi alti, gli occhi nel vuoto, si avvicinò al portaombrelli, rovistò
come una cieca tra le penne di pavone e scovò un ombrellino minuscolo, anche
quello a fiori, che si legò al braccio facendolo oscillare assieme alla
borsetta.
La
vecchia la seguiva con lo sguardo sempre più curioso. Poi si alzò, attraversò
la stanza, la mano sulla maniglia, pronta ad entrare nello studio di Iamor. Ma prima d'entrare sbottò:
- “E
allora, Lucia? Niente dici? Come è andata? Che t'ha detto?”
- “Oh,
Donna Valeria! Ma dove ce l'ho la testa! Mi dovete
scusare, sono frastornata...”
- “Ti
credo, figlietta mia... con quello che hai passato...
E allora? Che hai saputo? E' andata bene?”
- “Bene,
Donna Valeria? Altro che bene! E che? E non si vede? Benissimo!”
Poi si
avvicinò alla vecchia e le fece un resoconto in sordina ma
la stanza era piccola e quella donna non badava troppo a noi. Così, tra un
sospiro e l'altro, sentimmo che diceva:
-
“Fattura? No, donna Valeria, lui fatture non ne fa. Però tutto mi ha detto: che
è stata una cosa passeggera, m'ha detto, uno sfizio, una cosa da niente. Quella
schifosa è scomparsa dalla vita mia. E' come morta. Filippo vuole a me. L'ha
visto nelle carte che per Filippo ci sono solo io. Le ha fatte due volte, le
carte. E per due volte è uscita la donna di bastoni e poi la morte. Che poi non
vuol dire che lei muore davvero, no, no. ma che
scompare... Oddio, se crepasse davvero, ci farebbe
ancora più bella figura... E poi m'ha detto di pensare forte a Filippo e di
prendere io una carta dal mazzo e che ti esce? Donna di cuori, esce. Lo sapete
cosa vuol dire, donna Valeria, vero?”
Dopo i
saluti udimmo ancora il ticchettio felice dei suoi tacchi sui pochi gradini e
noi due restammo soli ed in silenzio.
Era un
silenzio cupo, il nostro, denso di dubbi, di pensieri inespressi. Un silenzio
rotto, a tratti, solo dai richiami lontani degli ambulanti e dalle voci dei
ragazzini nella strada.
Ad un
tratto dicesti: “Andiamo via!”
Cosa
avevi pensato, Michele?
Da come
avevi scosso il testone ricciuto guardandoti attorno, si sarebbe detto che una
ridda di pensieri ti stava attraversando il cervello. Eri confuso, Michele. Ti
si leggeva in faccia che lo eri. Come me. Proprio come me...
Forse
anche tu rivedevi quelle statuette colorate, quei lumini accesi, le icone sopra
i letti e gli angoli di povere case trasformati in piccole chiese. Immaginavi i
colloqui con santi e madonne di gesso che potevano essere toccati e spolverati,
numi tutelari che si potevano blandire con lumini e fiori, magari rimbrottare e
minacciare. E sapevi d'istinto che tenevano compagnia quelle statuine di gesso,
davano un appiglio, un gancio, un po' di forza per non essere sballottati a
destra ed a manca nella triste barca della rassegnazione.
Forse
immaginavi, oltre quella porta chiusa, altre icone, altre statue, altri lumini,
non troppo diversi da quelli domestici, anch'essi da vedere e da toccare, e
vedevi Mario, travestito chissà come, che prestava la sua voce alle immagini
dei tarocchi, ed in qualche modo le faceva anche parlare, quelle carte, magari
in dialetto.
Pensavi,
forse, che quella vecchia, là dentro, non era sola con
la sua miseria nel dedalo della Previdenza Sociale: c'era Iamor
con lei, l'assurdo mago della fortuna e dell'amore, con le sue frasi mozze, le
sue mezze verità, le sue bugie, magari con i suoi travestimenti da pagliaccio
ed i suoi incensi....
Ti vidi
girare e rigirare il biglietto di Mario fra le dita, poi ti sei alzato, hai
posato il biglietto sul tavolino.
-
“Andiamo via!” – hai ripetuto con voce piatta, incolore – “Non mi va più di
aspettare: qui c'è un caldo bestiale, andiamo via.”